sabato 4 settembre 2010

Nella malattia ho imparato a domandare



di Padre Aldo Trento
Ricordo un film sulla vita di San Francesco che ho visto tanto tempo fa. Il santo, mentre stava ristrutturando la Chiesa di san Damiano, diceva a un compagno che era andato a fargli visita, e con insistenza continuava a parlargli e a chiedergli spiegazioni sulla sua scelta di vivere povero come Cristo: «Parole, parole, parole». E continuava a fare il suo lavoro, con l’amico che non smetteva di travolgerlo con i suoi dubbi. Ma san Francesco andava avanti, e alla fine il chiacchierone capì. La provocazione del “poverello di Assisi” fu determinante per la sua vita. Ora la storia si ripete. Siamo abituati a essere come pappagalli: ripetiamo formule, diamo ricette, abbiamo trasformato il cristianesimo in una dottrina, col risultato che per l’uomo moderno ha sempre meno attrattiva. Il cristianesimo è una vita, è la vita, è un Avvenimento, è un incontro che ti cambia l’esistenza. Ma non basta limitarsi all’incontro, è necessario un lavoro personale, possibile solo se viviamo fianco a fianco con Cristo, come i discepoli. È un processo lento, che richiede pazienza, fedeltà. Solo col tempo quella che all’inizio era una vibrazione interiore si trasforma in una passione amorevole e definitiva per Cristo. Non basta dire sì la prima volta. È urgente un “sì” a ogni nostro respiro. Non basta dire “Tu, oh Cristo mio” una volta sola. Ma quel “Tu, oh Cristo mio” deve coincidere con la nostra essenza, per farci dire, come San Paolo: «Per me vivere è Cristo». Un lavoro possibile solo se teniamo sempre aperta la ferita del nostro cuore, se prendiamo sul serio la nostra umanità, se siamo attaccati e appassionati alla realtà. Di recente Cleuza Zerbini mi ha detto: «Se io pretendo di non aver bisogno di nessuno, perché dovrei aver bisogno di Cristo? Per questo mi educo a chiedere, a mendicare, per poter avere sete di Lui. Un esempio. Ogni notte, prima di andare a letto, chiedo a mio marito un bicchiere d’acqua. E non perché stia morendo di sete, ma solo per educare me stessa a domandare. Se non faccio esperienza della necessità umana, non farò mai l’esperienza di Cristo. Come può un uomo obbedire a Cristo, se non obbedisce alla realtà? Io ho bisogno di voi, e per questo ho bisogno di Cristo». Se una persona è malata e trascura la sua salute perché secondo lei Cristo le chiede di dedicarsi alle opere di carità, o crede di amare Cristo solo perché i poveri hanno bisogno di lei, di fatto non ama Cristo. Perché Cristo passa prima di tutto attraverso la cura della propria umanità. Riconoscere le nostre necessità e chiedere. Questa è l’umiltà. Possiamo fare tutto prescindendo da Cristo. Chi trascura la sua umanità non cerca Cristo, ma solo il proprio ego. Non dimentichiamo le parole di Giussani quando aveva detto che il vero protagonista della storia è il mendicante, perché è cosciente che la sua vita dipende esclusivamente da quelli che passano per la strada e si impietosiscono di lui. Per il mendicante la propria circostanza sta nella sua mano tesa, mentre spera che qualcuno gli allunghi qualcosa. Non esiste alternativa a questa passione per l’umano, a questa posizione di umiltà per cui siamo liberi di incontrare e di innamorarci, idendificando noi stessi con Cristo. La testimonianza che propongo a tutti i lettori è un esempio di ciò che intendo per “lavoro personale”.
padretrento@rieder.net.py
Sono stata a una assemblea di una comunità cristiana che aveva come fine raccontare il cammino di fede vissuto durante questo ultimo mese di luglio. Non ho capito perché tutti gli interventi di questa sera affermavano che, una volta iniziato il lavoro personale, tutti diventavano tranquilli nell’aderire alla realtà e si stupivano di avere più pazienza. Sinceramente io più faccio un lavoro personale e meno sono tranquilla. E per fortuna, perché è proprio ciò che mi permette di domandare a Cristo che si mostri ogni istante del giorno. Don Giussani diceva: «Vi auguro di non stare mai tranquilli». Mai come ora ho percepito il valore di questa frase. Giussani non lanciava una maledizione, ma una benedizione.
Chi è l’uomo tranquillo? Chi pensa che tutto sia a posto e che basta pregare per essere a posto con la propria coscienza o chi vede che ultimamente nella sua vita le cose vanno proprio come desidera. Qual è invece il primo passo per fare un lavoro personale? Prendere sul serio la propria umanità. E cosa vuol dire? Fare i conti con tutto ciò che l’uomo scopre avere dentro di sé: desideri, passioni, ossessioni, preoccupazioni, malattie e in primis i suoi peccati. Più io mi rendo conto della pochezza, della miseria, della meschinità del mio io, più mi rendo conto di quanto ho bisogno di Cristo, del Suo aiuto, della Sua misericordia, del Suo perdono. Ho bisogno che Lui mi salvi e abbracci la mia umanità. Nasce la necessità di una dipendenza da Cristo, incomincia a nascere il desiderio di essere in relazione con Lui ogni istante.
Ma se questo desiderio si fa trasportare via dall’esaltazione, diventando solo una reazione emotiva, dopo alcuni giorni è tutto come prima. E cos’è successo? Il desiderio non era giusto? Certo che lo era, e lo è, ma manca un giudizio nell’esperienza. Per capire meglio racconto la mia esperienza. In questi due ultimi mesi, dopo sei anni di depressione, ho incominciato a stare bene, ma così bene che ho lasciato i farmaci, notando con soddisfazione che dormivo senza alcun problema e stavo quasi per lasciare l’appuntamento settimanale col mio psicologo. L’unica cosa che rimpiangevo era la facilità con cui prima mi commuovevo di fronte alla realtà. Intorno a me c’erano problemi ben più gravi, ma non li percepivo più come “un mio problema”. Pensavo: «Finalmente incomincio ad avere i problemi delle ragazze della mia età!», anche se quello che il mio cuore desiderava era tornare a stupirmi delle cose come un bambino e di piangere come un uomo di fronte al dramma della vita.
Perché la vita è drammatica, come si può stare tranquilli? Poi a un certo punto, prima di fare l’ultima seduta dallo psicologo ricomincio, da un giorno all’altro, a non dormire più. Ero furiosa. Dire “sì” a Cristo è dura. Questo fa parte della mia umanità. Le prime reazioni davanti a quelle notti insonni furono pianti e malumori. Ora devo prendere tre psicofarmaci diversi al giorno. Seguirono giorni di buio, non volevo più alzarmi dal letto. Era una depressione forte: piangevo disperatamente la notte, facevo fatica a mangiare, a digerire, mi ritrovo a vomitare dopo i pasti. Mi sentivo sola e sballottata come una foglia dal vento. Quattro persone (tra cui padre Aldo) mi chiamavano tutti i giorni, mi venivano a trovare, mi dimostravano il loro affetto, quanto tenessero veramente a me. Ma io non cedevo, il mio orgoglio era più forte e la domanda diventa pretesa. Ma non posso non lasciarmi commuovere da tutta questa tenerezza verso di me e che rappresenta la domanda di Cristo: «Ma mi ami Tu?». E quanto più io testardamente gridavo in ginocchio: «Aiutami, mostraTi», più Lui si faceva sempre più evidente in questi amici. Una mattina padre Aldo mi ha chiamato (il giorno prima mi ero confessata da lui) e mi ha detto: «Buongiorno Chiara, come stai? Dormito bene? Vero che si dorme meglio con la grazia del perdono? Dai alzati, ti aspetto di sotto». Adesso incomincio ad alzarmi a un orario decente e ho deciso di lottare in tutti i modi affinchè non sia la depressione a fermarmi, ma anzi, sia un aiuto, proprio come è successo a padre Aldo. Lo ringrazio sempre perchè fa in modo di non lasciarmi fare di testa mia, la sua sgridata è un continuo richiamo.
Quando non mi faccio prendere dall’emotività nei momenti difficili che inevitabilmente questa malattia comporta, dico «Grazie Gesù, mi hai ascoltato». Io avevo in mente altre modalità per guarire, ma se mi fermo a quello che voglio io non mi lascerei mai educare da Cristo. La cosa più commovente è che Cristo non si stanca mai della mia umanità. Anche padre Aldo non mi ha mai mandato via, mi ha sempre perdonato.
Quando uno si sente voluto bene, amato e perdonato piano piano, inaspettatamente, inizia a guardarsi con simpatia. Riguardo a quello che diceva Cleuza, anch’io voglio educarmi a domandare. Una volta mi avrebbe dato fastidio ammettere di dimenticarmi di prendere le medicine costantemente agli orari indicati, adesso chiedo agli amici di ricordarmelo. In questo modo sono sempre più aiutata a volermi bene e ad accettarmi per quella che sono.

1 commento:

Carla, i colori...pensieri della mia mente. ha detto...

Grazie molte Lorenzo ti esserti aggiunto al mio blog come lettore fisso.
Seguiro' con molto interesse il tuo blog.ciaooo a presto