mercoledì 29 settembre 2010

"Io, cattolico e cardinale , vi dico che c'èbisogno di una nuova laicità"


Un’intervista al Patriarca sul nuovo libro “Buone ragioni per la vita in comune. Religione, politica, economia”

1. Nell’Introduzione al libro Buone ragioni per la vita in comune, appena uscito nelle librerie per i tipi Mondadori, Lei fa riferimento ai valori morali come ad “una serie di questioni incalzanti” che segnano la vita umana. Può spiegare brevemente qual è il significato di questa definizione?

Nell’usare questa espressione mi riferisco al fatto che oggi ci troviamo come “gettati” dal cosiddetto post-moderno in situazioni inedite, nelle quali ancora fatichiamo ad orientarci. Le questioni che cito sono problematiche che incalzano la vita comune, che non possiamo trascurare: sono le domande nuove che investono la sessualità, il matrimonio, la famiglia; sono tutte le nuove provocazioni che suscita il mistero della vita di fronte alle nuove scoperte tecnoscientifiche, dall’aborto e all’eutanasia; ma sono anche tutte le tematiche connesse alla libertà individuale, alla rilevanza pubblica delle cosiddette “mondovisioni” (siano esse religiose, agnostiche o atee), al significato di democrazia; sono le ferite aperte da processi come quello della globalizzazione e dell’immigrazione, ma anche dalla crisi economica che ha costretto a ripensare il senso del lavoro, del capitale e del profitto; le provocazioni connesse allo sviluppo della civiltà delle reti, e molte altre ancora… Tutto ci riguarda e scuote nel profondo.
2. I temi religiosi in genere hanno acquisito un’enorme importanza nel nostro tempo anche a causa dell’interculturalità, ossia del confronto tra persone di fede diversa. In che modo le confessioni possono contribuire insieme a far crescere un nuovo umanesimo?

Per rispondere a questa domanda, vorrei partire da un esempio. Prendiamo in considerazione le dichiarazioni dei diritti universali. Esse costituiscono un punto di riferimento estremamente importante per le nostre società plurali, eppure soffrono di un limite fondamentale: la loro universalità è diventata “astratta”. Intendo cioè che fanno leva su un modello antropologico ideale che non tiene conto di alcun condizionamento storico e necessita di un consenso fortemente impegnativo. Non a caso la loro universalità subisce contestazioni da parte per esempio di tradizioni come quelle orientali che le ritengono “dichiarazioni universali di parte”, della parte occidentale, appunto. Di fronte a questo si comprende bene quale può essere il prezioso e insostituibile contributo delle esperienze religiose che costringono a pensare a esperienze universali concrete. L’humanum come tale, inteso cioè nella sua dimensione universale, si dà sempre e solo nella concreta vita degli uomini e di comunità particolari. Pensiamo a singole comunità di uomini, caratterizzate da specifiche manifestazioni culturali, ebbene esse sono espressione dell humanum ’universale ma sempre in forme culturali storicamente determinate.
Costruire un nuovo umanesimo, come lei mi chiede, sarà possibile secondo me solo se non ci si impunta a voler partire da un patto politico per un’astratta costruzione statuale, ma se si approfondisce la vita reale della società civile. Solo se tutti i soggetti, comprese le comunità religiose, si mettono in gioco in una narrazione e autentica tesa al riconoscimento reciproco, sarà possibile lavorare per il bene comune e edificarlo passo dopo passo.
3. Alcuni filosofi contemporanei considerano il processo di secolarizzazione non solo ineluttabile, ma addirittura giunto ormai ad una fase estrema “post-secolare”. Secondo lei, come può esservi ancora uno spazio, in tale contesto, per il Cristianesimo?

Io credo che oggi non si possa non rilevare, al di là del dibattito sulla natura post-secolare del nostro tempo, la presenza di una diffusa e inquieta domanda di “senso”, che poi è ultimamente la domanda religiosa. Essa si manifesta sia a livello personale che sociale in forme nuove e chiede di essere interpretata. Da cinque anni vivo l’esperienza straordinaria della Visita pastorale che mi porta di quartiere in quartiere, di parrocchia in parrocchia, a immergermi nelle pieghe anche meno evidenti della vita quotidiana della nostra società, religiosa e civile. Ebbene la serie continua di incontri che vivo mi conferma continuamente l’estrema attualità e corrispondenza della proposta cristiana a questo bisogno, al desiderio di Dio degli uomini di oggi. Gesù propone alla libertà degli uomini una strada: “Se vuoi essere compiuto, segui me. Se mi segui sarai libero, ma libero davvero”. E non sono forse la libertà e la felicità i valori più ambiti oggi?
4. L’epoca contemporanea è interpretata comunemente come un periodo storico dominato dal relativismo. Per alcuni pensatori la rinuncia alla verità di fede è addirittura l’unico modo di salvare valori democratici come il pluralismo e la libertà individuale. E’ possibile, secondo Lei, che alcuni riferimenti etici universali siano condivisi, invece, da credenti e non credenti?

Certo, è possibile e necessario. Oggi le domande di fondo che fino a ieri risuonavano nelle aule accademiche o nei laboratori degli scienziati sono sulle bocche di tutti, quasi assillanti nel dibattito quotidiano. Domande come “Da dove vengo?”, “dove vado?”, “chi sono?”, “perché vivo?”, “perché soffro?”, “che cos’è la morte?”, “che cosa c’è dopo la morte?”, “chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente?” diventano l’espressione di un accanito conflitto d’interpretazione di fronte al quale una moralità comune è assolutamente necessaria oltre che possibile. Da dove partire? Dalla riscoperta di ogni singola persona, dei corpi intermedi, delle nazioni tutte del valore pratico dell’inevitabile vivere insieme. Questo richiede che ogni tradizione etica lavori lealmente per comprendere e confrontare il senso dell’esperienza morale elementare, alla luce della originaria comune percezione morale. Essa è fatta di relazione buone che mi spalancano alla promessa di una vita piena in vista della quale accetto volentieri di seguire i comandamenti. Al di là di tanti dibattiti si tratta di riconoscere con semplicità come patrimonio morale universale quella che la grande tradizione occidentale chiama legge naturale.
5. Che cos’è la “percezione morale”?

Il termine percezione morale è complesso in se stesso e tanto più alla luce delle rapide trasformazioni che stanno travolgendo gli affetti, il bios, le tecnologie, le comunicazioni, ecc. È polisemica la nozione stessa di percezione, il cui termine va riferito al latino intelligere: “notare”, “percepire”, ma anche “capire”, “comprendere”, “afferrare”. Qualificare poi percezione in chiave morale aggiunge al concetto ulteriore problematicità, che proviene dalla stessa qualifica di morale in sé presa, ancor prima che dalla complessità ricevuta dalla riduzione della morale ad etica pubblica entro la società plurale di oggi. La ricerca di una moralità comune basata sulla luce della percezione morale parte dal riconoscimento che qualcosa accomuna gli uomini di qualsiasi razza, popolo e lingua, per giungere, fino a identificare il qualcosa di comune ed il tipo di conoscenza che gli appartiene senza abdicare all’interrogativo per quanto impervio circa la natura dell’uomo.
6. Lei parla nel suo libro di un superamento della “neutralità” dello Stato. Qual è il significato politico e religioso di questa proposta?

Intendo dire che per me è un’illusione o un grande equivoco l’idea comunemente diffusa per la quale l’unico Stato capace di governare la complessità di oggi sia uno Stato neutrale. Perché la nostra società plurale chiede certamente di essere governata da uno Stato aconfessionale ed imparziale nei confronti di tutti i soggetti identitari in campo, ma non si può pensare che i problemi si risolvano se lo Stato assume posizioni neutraliste. Tale neutralità infatti tende a ridurre religioni e le diverse mondovisioni a fatti privati, arrivando a impedire poi di fatto alle stesse di raccontarsi in una narrazione rispettosa in vista di un reciproco riconoscimento. Invece lo Stato alla fine deve sancire le indicazioni emergenti in modo prevalente dalla società civile. Rispettando ovviamente i diritti fondamentali, sottolineo fondamentali, di ciascun uomo. Uno Stato non neutrale è quello in grado di garantire il riconoscimento sia del valore del bene comune pratico-sociale dell’essere insieme, sia di quei valori specifici che la continua negoziazione riconoscerà man mano come tali.
7. Nell’immaginario collettivo parlare di religione è fare riferimento ad una verità assoluta, apparentemente incompatibile con altre. Oggi, invece, constatiamo che i cristiani sono indotti ad un confronto sempre più serrato tra le proprie credenze e quelle di altre religioni. Quali sono, secondo Lei, i presupposti che rendono possibile il dialogo ecumenico e interconfessionale?

Il confronto serrato che lei richiama è dovuto alla natura plurale, come già rilevato, e quindi tendenzialmente conflittuale della nostra società. Questo cosa comporta? Che siamo tutti, nessuno escluso, provocati a ripensare radicalmente le forme culturali, sociali, etiche, di costume, giuridiche ed economiche che sono alla base di una convivenza pacifica e direi anche edificante. È qui lo snodo critico: abbiamo bisogno di una nuova laicità. Con questa espressione mi riferisco al fatto che non ci basta più delineare il rigore dei rapporti istituzionali tra lo Stato da una parte e le religioni dall’altra. Ci serve qualcosa di più, un passo più coraggioso: il compito che spetta agli uomini delle religioni e delle visioni sostantive è mostrare come la pretesa veritativa della loro identità si propone come un’autentica ricchezza a tutti i soggetti che abitano la società civile nel pieno rispetto delle procedure democratiche insieme pattuite. Ma perché questo sia possibile, gli uomini delle religioni dovranno documentare di saper rompere drasticamente con ogni forma di fondamentalismo, anzitutto con quello tragico del terrorismo, ma anche con qualsiasi deriva integralista. D’altra parte tutti dovranno riconoscere la dimensione pubblica della fede. Da noi in particolare, per il fatto che la religione cristiana è quella del Dio che si è compromesso con la storia incarnandosi.
8. Qual è, in particolare, il giusto modo di concepire la convivenza civile e pubblica tra Islam e Cristianesimo?

Attraverso la strada, talora impervia, della testimonianza intesa come atteggiamento ad un tempo pratico e speculativo a cui nessuno, tanto meno il cristiano, può sottrarsi. La testimonianza così intesa è anche la fonte dell’interpretazione culturale degli Islam. Essa infatti costringe a porgere ai propri interlocutori musulmani quella che si crede essere l’autentica interpretazione culturale della fede cristiana. E ciò è possibile solo nel reciproco coinvolgimento.

9. Lei parla in alcune bellissime pagine del libro di “narrazione religiosa”. Come questo stile descrittivo e personale può convivere con le indispensabili esigenze dogmatiche che la fede richiede?

Quando parlo di narrazione mi riferisco a quanto sia importante, per costruire una vita buona personale e comunitaria, che ogni soggetto sia disposto a raccontarsi, ma anche ad essere narrato. Cosa implica questo? Che per esempio la persona religiosa, il cristiano, sia inevitabilmente guardato sia da una prospettiva interna e che da una esterna. E può capitare che queste due prospettive non concordino. Illuminante è quanto scrive Spaemann a proposito del cristianesimo visto da fuori. Capita che chi non vive la fede cristiana guardi al cristiano come uno che vede qualcuno ballare senza sentire la musica: gli sembrerà un folle e resterà lontano dalla verità del cristianesimo. D’altra parte il cristiano che non sa calarsi nella realtà esterna, si chiude rispetto all’universalità della ragione, con il rischio di diventare un settario. Voglio dire: la proposta cristiana deve fare i conti, con coerenza, con entrambi i profili, senza rinunciare al suo nucleo veritativo che postula la medesima “pretesa” di universalità propria della ragione. Cristo è la verità vivente e personale.
10. Dopo la fine della Democrazia Cristiana, vi sono stati tentativi opposti di promuovere il ritorno ad un partito unico dei cattolici o di accettare definitivamente la diaspora. Come va progettato correttamente oggi, secondo lei, il compito politico dei credenti nella società contemporanea?

A me pare che i cattolici siano invitati a un confronto a 360° con tutti i soggetti in campo, per mettere a fuoco i beni comuni, spirituali e materiali, e le politiche adeguate a promuoverli.
Ma è importante un rilievo: mai devono rassegnarsi all’irrilevanza.
Proprio perché la rappresentanza cattolica non è più garantita da un unico partito, i fedeli laici sono in prima linea nel concorrere al bene comune testimoniando la fecondità sociale della propria fede. Attivi in partiti diversi, i laici cattolici dovranno praticare il decisivo principio del distinguere nell’unito. Che si traduce in tre passi. Il primo, in necessariis unitas: non dovranno perdere il senso della comune appartenenza ecclesiale e mostrare la necessità dell’unità nelle questioni irrinunciabili di principio; il secondo, in dubiis libertas: quando non sono in gioco questioni di principio, la più ampia libertà di opinione; il terzo, in omnibus caritas: in ogni momento la carità non dovrà mai venir meno.

11. Il Cristiano sa che “Dio è vicino”, tanto per usare le parole del Papa. Spesso la mentalità corrente è segnata, però, da un totale rifiuto della presenza del sacro, specialmente in ambito pubblico. Siamo davanti ad un deicidio o ad una provvisoria eclissi di Dio?

Fino a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, anzi si sosteneva che il religioso sarebbe del tutto sparito dalla società. Invece oggi, se si eccettuano sporadici tentativi di elaborare un nuovo ateismo, siamo di fronte a un fatto: Dio è tornato. Solo che quella che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità un’altra formulazione. La domanda cruciale degli uomini e delle donne del terzo millennio non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?”. Per l’uomo post-moderno, chinato sulle urgenze complesse del vivere quotidiano, la questione è: se esiste Dio, cosa ha a che fare con me ogni giorno? Mi è familiare? Ebbene la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel DNA della mentalità occidentale.
12. Quale ruolo devono avere i laici nella nuova evangelizzazione del mondo?

La strada è la testimonianza, come del resto ho già osservato poco fa. Ma la testimonianza non va intesa solo come “dare il buon esempio”, ma soprattutto come metodo di conoscenza della realtà e di comunicazione della verità. I fedeli laici sono invitati ad appassionarsi ad ogni aspetto della realtà che li provoca e a comunicare l’esperienza di appartenenza alla comunità cristiana che vivono. Ognuno comunica quello che vive. Il loro compito è quello di raccontare la propria esperienza, rilanciando quell’invito “Vieni e vedi” che rivolse Gesù a chi gli chiedeva dove abitava, perché ne era rimasto affascinato.

13. Infine, un’ultima domanda. Molte persone, anche credenti, sembrano perdere la fiducia e precipitare nel pessimismo. Che messaggio di speranza si sente loro di offrire?

Siamo in un tempo che io chiamo spesso di “travaglio”: le difficoltà che pur ci sono oggi, il disorientamento che tocca in profondità le nostre persone, negli affetti, nel lavoro, nelle relazioni, ci stanno introducendo in un tempo nuovo, che ci chiama tutti a giocarci pienamente. Ma il punto è che non siamo soli. Non stiamo arrampicandoci su una parete ardua in solitaria. Siamo parte di una compagnia, che si chiama Chiesa, che ci assicura, perché ci tiene desti su una certezza: comunque è il disegno buono di Dio che conduce la famiglia umana e la Storia.

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