sabato 4 settembre 2010

I padri adesso siamo noi

Il bambino appena nato la prima cosa che fa, piange, cioè grida. Come a dire: “Io ci sono, ho bisogno, qualcuno mi assista!”. Ma non sa a chi grida: grida e basta, non domanda. A poco a poco, nel rapporto con la sua mamma, quando la vede sorride: da quel momento in poi, il suo pianto, il suo grido, diventa domanda. Cioè il bambino scopre il dono, perché per domandare bisogna che qualcuno ci dia la possibilità di farlo: per domandare è necessaria una presenza. Se non c’è una presenza, se non si riconosce una presenza, non si può domandare. Al massimo si grida, ci si sbraccia, si sbraita, ma non si domanda, perché domandare implica qualcuno di presente e di donato a cui ti puoi rivolgere. Come il bambino che scopre la mamma e, quando la vede, da piccolissimo, comincia a sorridere. La domanda è proprio il criterio, la norma profonda e mai scontata, del rapporto. Anche i rapporti più intimi, più familiari, si sgretolano quando non c’è più da chiedere nulla l’uno all’altro, cioè quando l’altro non è più presenza. La domanda ha bisogno di un dono.
Si può rinascere da vecchi? Si può rientrare nel ventre della propria madre? No, non si può. Ma quello che noi non possiamo fare, lo può fare un Altro, lo può fare lo Spirito. Per domandare è necessario, anzitutto, un incontro che coinvolga tutta la vita. Non può bastare un discorso se non è tramite di un incontro, di un evento che coinvolga tutta la personalità, non solo l’intelligenza, ma anche il cuore e l’affettività; che sospinga a commuoversi, a muoversi insieme. Noi siamo qui perché siamo stati fatti oggetto di questo dono, magari dimenticato, trascurato, tuttavia che ci è stato fatto. Quando invochiamo, cerchiamo Cristo, noi sappiamo che ci è stato fatto il dono della vita e il dono del senso della vita. Cioè noi siamo oggetto di una Grazia. Ciò che noi chiamiamo carisma, l’azione che lo Spirito svolge nella storia, è appunto fattore della presenza di Cristo, è tramite del dono che è stato fatto personalmente a noi. Quando si incontra qualcosa di significativo, di eccezionale, di importante nella vita, tutto sta nel riconoscerlo, nell’aderirvi. Si tratta di compiere un’opzione, di decidere che questo incontro entri veramente nella vita. Da qui, si capisce che tutta la vita nasce da una questione morale, cioè da un impegno della propria libertà.
Se pensiamo alla nostra esperienza, la nostra libertà è stata sostenuta nell’opzione, nell’adesione all’incontro fatto e ciò dice che la Grazia non riguarda solo il fatto che ci è stata messa davanti una Presenza a cui poter aderire, ma anche che questa Presenza ci è stata presentata in modo tale che noi potessimo capire e aderire: una specie di Grazia nella Grazia, un dono dentro al dono. Altrimenti, non saremmo qua. La mia amica Franca, per esempio, ha cercato di convertirmi per anni, senza riuscirci. Poi ho sentito un discorso di don Giussani e sono partito: senz’altro merito di don Giussani, senz’altro merito mio, ma soprattutto è stato merito di qualcosa di misterioso che, improvvisamente, mi ha preso e che indica il fatto veramente affascinante che c’è dentro la nostra esperienza: nei limiti che vediamo in noi e negli altri, che vediamo più facilmente negli altri che non in noi, dentro tutto l’umano, c’è il dono che ci è stato fatto.
Attraverso la vicenda umana che noi chiamiamo comunità cristiana, che noi chiamiamo movimento di Comunione e Liberazione, accade il dono per il quale possiamo renderci conto di cos’è bene per la nostra vita. Come diceva don Giussani, dentro questo finito pieno di limiti, di fatica, come ombra lontana, come qualcosa che addirittura sfugge, però si capisce, c’è l’infinito. Dentro la finitezza dei nostri difetti, dei nostri sguardi, della nostra amicizia, della nostra convivenza, del nostro agire, di tutte le difficoltà, c’è l’infinito: qualcosa di infinitamente più grande, per cui si capisce che non ci si può accontentare. Non ci si può accontentare, perché c’è qualcosa di infinito. Il mistero dell’Incarnazione è proprio questo: l’infinito dentro il finito. Noi siamo qui perché ci ha entusiasmato quello che abbiamo incontrato, che abbiamo visto: qualcosa di infinitamente più grande dei limiti nostri e di chi ce l’ha comunicato. Questo è il dono che ci aiuta ad aderire, a cambiare, a nascere di nuovo; che permette di tornare bambini, di scoprire cose che non si sono mai viste.
C’è un lavoro da fare, come ha giustamente sottolineato Carrón agli Esercizi, che cristianamente si chiama ascesi: è un lavoro su di sé, per vincere la distrazione e che bisogna fare anche insieme, per esempio sull’attenzione alla puntualità, o sul fatto di essere il più possibile precisi su quello che si vive. È una ascesi che facciamo insieme e personalmente, cioè noi comprendiamo, sappiamo che dobbiamo vincere una resistenza che abbiamo dentro perché, se ci guardiamo e guardiamo gli altri, noi vediamo chiaramente la resistenza che abbiamo dentro ad aderire al bene, per cui, pur comprendendolo, ci tiriamo indietro; come dice Carrón, come se ne avessimo paura. Noi comprendiamo questo e, allora, dobbiamo essere preparati, non dobbiamo essere come le vergini stolte. Dobbiamo essere pronti per quando arriva lo sposo, per vederlo.
Si chiama ascesi: è la preghiera; è la frequenza ai Sacramenti; è l’essere puntuali; è trattarsi in un certo modo; è anche pagare il fondo comune. È il continuo allenamento a non perdere mai di vista quello che è successo perché, siccome è successo, può ancora succedere. Viviamo di attesa, di speranza che l’infinito entrato nella nostra vita in modo entusiasmante possa nuovamente entusiasmarci. Però dobbiamo essere pronti. La grande consolazione, per noi che abbiamo visto, è che il dono che è stato fatto alla nostra vita è anche un perdono, cioè – come suggerisce l’etimologia della parola – un dono iperbolico, un dono grandissimo.

Guardatevi indietro. Cosa eravate?
Ma voi pensate se non avessimo incontrato il movimento, la nostra vita che cosa sarebbe. Voi guardatevi indietro, e vedete che cosa eravate. Se guardiamo le persone che ci stanno vicino – quelle che hanno difficoltà; che non sanno a che santo attaccarsi quando gli succede qualcosa; quando hanno bisogno di soldi, quando capita una sventura improvvisa – ci rendiamo conto di come siamo stati perdonati. Nonostante le nostre distrazioni e i nostri limiti, il dono è stato preservato, perché c’è il movimento, la comunità. Quest’anno il titolo del Meeting è: “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Ne L’io rinasce in un incontro, c’è un brano che lo descrive benissimo, in cui don Giussani si ispira all’Icaro di Matisse. Il mito di Icaro rappresenta il desiderio dell’uomo di volare verso il sole, cioè di realizzare completamente se stesso, la propria felicità; ma, essendo perseguito questo desiderio con i soli mezzi umani, succede che le ali di Icaro si sciolgono al sole e precipita. Per questo il mito greco conclude che per l’uomo è impossibile raggiungere la felicità. È impossibile che la vita abbia un senso; da qui, il fatalismo, il cinismo, lo scetticismo e tutte le correnti filosofiche per cui ultimamente la vita non ha speranza
Gesù Cristo e gli apostoli hanno “sfondato” così: portavano la speranza in un mondo che di speranza non ne aveva; dove la gente moriva a trent’anni, dove c’erano gli schiavi; dove non c’era possibilità di redenzione, né perdono, né amicizia. perché nel cristianesimo gli uomini hanno trovato una proposta infinitamente più umana di quella che vivevano. Tutti, tutti i desideri hanno dentro ultimamente la ricerca dell’infinito. Anche nei peccati c’è la ricerca di un bene perché non è che si fanno i peccati per star male. In tutti i desideri, anche in quelli cattivi, c’è dentro la ricerca dell’infinito; basta guardare i bambini che prima vogliono il trenino, poi il cavallo a dondolo… Il desiderio non si acquieta mai e l’uomo lo insegue, fino a che non ce la fa più, cade a terra e si rassegna, cioè si accontenta. Diventa vecchio, nel senso che non ha più niente da imparare, da scoprire. Non c’è più niente di nuovo sotto il sole. Viene il dubbio che la fine possa essere lo scopo, il fine di tutto. È una questione che, man mano che gli anni passano, si rende sempre più acuta. Don Giussani dice: «Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere. Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio».

Il cuore di Icaro
«Quel cuore simboleggia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra, perché il cuore non tiene, cioè le ali non tengono. Invece quel cuore è il simbolo del rapporto con qualcosa».
«Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire! Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo, come il ramo al tronco; vale a dire, bisogna che appartenga! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quanto volete, ma ha la percezione di appartenere a qualcosa d’altro. Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto – o di una realtà – è la sua appartenenza, è ciò cui appartiene». Noi siamo fatti da ciò a cui apparteniamo. Dal dono che ci è stato fatto, che ci ha presi. Come disse don Giussani incontrando una ragazza del Gruppo Adulto che, serissima, arrivava in ritardo, scoppiando a ridere: «Dio fa proprio quello che vuole». Piglia chi vuole. Noi siamo stati presi così, la nostra adesione è stata favorita perché Dio ci è venuto incontro in un modo che per noi potesse essere affascinante. Siamo qui così e ciò descrive quello cui noi apparteniamo, per cui noi apparteniamo; descrive perché ci si è acceso il cuore; che da soli non possiamo volare verso il sole, verso la felicità. Come suggerisce Péguy, per avere speranza, bisogna essere stati fatti oggetto di una grande grazia. Noi siamo stati fatti oggetto di una grande grazia. Ecco il cuore dell’uomo, la nostra natura.

La responsabilità di indicare il segno
Si capisce allora che la cosa più importante dentro la comunità cristiana, è indicare il segno, cioè chi bisogna seguire, perché ci porta più vicino all’“ombra lontana” dell’infinito facendola sembrare più vicina. Così ci si aiuta, perché ci si dà la possibilità di sapere a chi domandare. Con un nota bene. Abbiamo chi cinquant’anni, chi sessanta, chi anche di più: i padri siamo noi. La trasmissione della fede, la trasmissione della possibilità di esperienza del dono è legata a noi; altrimenti, cosa saremmo al mondo a fare? Per i nostri figli, i padri siamo noi; per i giovani che incontriamo, i padri siamo noi; per gli oltre cento bambini che sono qui, i padri siamo noi. L’indicare è una responsabilità nostra. Che sia morto don Giussani richiama a questoQuando Gesù disse agli apostoli: «Vi conviene che io me ne vada», voleva dire che cominciavano loro. Si capisce che noi dobbiamo addentrarci in un lavoro personale, comune e nuovo – Carrón ha proprio ragione. È come se fossimo in una foresta e si facesse fatica, pur alzando lo sguardo, a vedere il sole: dobbiamo tirare via le foglie, le fronde con il machete, così da aiutarci, alzando lo sguardo, a vedere il cielo azzurro. Senza continuamente lamentarci; siamo tutti borghesi, la vita in fondo non ci è andata tanto male, poteva andare molto peggio. In questo senso, la nostra proposta non ha innanzitutto bisogno di una specie di equilibrio psicologico: è giusto che lo dica, è giusto che non lo dica. Gesù nel Vangelo dice addirittura: quando vi porteranno davanti ai tribunali, quando vi interrogheranno, non preoccupatevi di quello che dovrete dire, perché lo Spirito vi suggerirà. Quello che noi dobbiamo fare veramente non è misurare, ma è amare, cioè riconoscere il valore delle cose e delle persone. Amare è un giudizio di valore sulla realtà, sulla positività del reale, non semplicemente un sentimento di attrazione. Come diceva sant’Agostino: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Se sbagli ti correggerai, o ti correggeranno; quello che non sai fare tu? Lo farà Dio.
Noi dobbiamo semplicemente accorgerci che il dono ci è stato dato e che noi possiamo essere utili alle persone intorno a noi, se facciamo vedere questo dono. Altrimenti siamo un peso, una zavorra, per noi e per chi ci sta attorno. Da questo punto di vista, mi impressiona molto che, nonostante le frequenti lamentazioni, noi siamo qui, attaccati come quelle piante selvatiche che non riesci mai a togliere. A me questo commuove. Don Giussani aveva detto a uno degli ultimi Esercizi spirituali: «Vi auguro che siate padri e madri a vicenda». Questo dobbiamo fare reciprocamente, mettendo in evidenza il dono che ha preso la nostra vita e che in fondo, nonostante i nostri limiti, continua a tenerci attaccati, continua a manifestarsi ostinatamente a noi. Se si riconosce questa Presenza in tutto ciò che si vive, senza buttare via niente di quello succede, di tutta la storia che abbiamo avuto, la libertà aumenta. Qui si capisce che la libertà è proprio fare un’esperienza di conoscere, di imparare: la libertà è l’esperienza del compimento; è l’esperienza dell’innamorato a cui lei dice sì.

Noi viviamo di sabato
Ma questa è proprio la Grazia di Dio per cui, alla nostra domanda, è data una risposta; una risposta inaspettata perché non possiamo essere noi a condizionarla: che lui, o lei, ti ami, non dipende da te. Questa è la libertà come esperienza, la libertà come dato di Grazia. Nella vita la libertà è imperfetta, perché noi non viviamo di domenica, viviamo di sabato: noi non viviamo quando tutto è compiuto, noi viviamo nell’imperfezione e, in questa imperfezione, anche la nostra libertà è imperfetta, perché la libertà cresce con l’educazione, con l’allenamento, con la conoscenza. E quando la libertà è imperfetta, bisogna scegliere. Noi comunemente attribuiamo allo scegliere l’aspetto definitivo della libertà; invece, l’aspetto definitivo della libertà è il compimento, è quando ti realizzi, non quando scegli. La scelta di aderire al vero è qualcosa che principia a introdurti nell’esperienza della libertà. Poi c’è il compimento. Noi facciamo sempre questa esperienza, non alla cieca però, ma con una luce, un faro acceso che ci attira. Questo è essere cristiani.
Per questo c’è il Movimento e, per questo, ci siamo noi, ciascuno di noi. Dio ci vuole per questo compito, per sostenere – è la cosa più difficile – la nostra speranza e quella degli uomini di fronte alla tentazione di pensare che tutto vada in cenere.
Giancarlo Cesana- Il presente testo, rivisto dall’autore, è tratto da una conversazione con gli amici della comunità di Comunione e Liberazione di Carate Brianza sul tema: “Può un uomo rinascere di nuovo quando è vecchio?”.

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