lunedì 22 aprile 2013

Negri: «Non tradiamo la nostra autentica tradizione»

luigi_negri  Dialogo con l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio su certi atteggiamenti della cultura cattolica. L’invito è a recuperare l’insegnamento di Giovanni Paolo II e di don Giussan


Monsignor Negri, mi sembra che esista un complesso di inferiorità nel mondo cattolico nei confronti della cultura laica. Si è arrivati a rigettare quella rilettura critica della storia (vedi il Risorgimento, il caso Galileo, il rapporto della Chiesa con la scienza e con lo stato moderno), paradossalmente, proprio quando su quei temi, la stessa cultura laica ha riconosciuto il valore di tali revisioni critiche. È così?
Mi sono trovato inaspettatamente di fronte ad una situazione caratterizzata da un certo degrado culturale. Soprattutto se teniamo presente che negli ultimi decenni, certamente anche per l’impeto culturale che monsignor Luigi Giussani aveva impresso alla realtà del movimento di Comunione e Liberazione, sì è affermata una grande verità della tradizione cattolica: la fede costituisce il criterio di interpretazione più adeguato della realtà; entra in dialettica positiva e costruttiva con ogni forma di ricerca del sapere umano, radicandolo in una profondità nuova, indirizzandolo ad un obiettivo ampio e definitivo. La fede, anziché rappresentare, come per tanta tradizione laicista, neo-protestantica o modernista, una realtà che mette in crisi la presunta neutralità o assolutezza dei vari campi della ricerca, può offrire una vibrazione, un sentimento, una prospettiva di umanità alla ricerca. Invece riscontriamo un dualismo tra fede e cultura che è esattamente il segno, secondo Giovanni Paolo II, della crisi della fede, perché la fede non è da viversi accanto al mondo della cultura come qualcosa di estraneo; la fede diventa cultura per un movimento interno a sé. È il movimento autentico della fede che genera la cultura.
C’è chi sostiene che la Chiesa e il mondo cattolico guardino alla scienza con un certo sospetto, dando l’impressione di un atteggiamento, prima di tutto difensivo, incapace di cogliere e valorizzare adeguatamente la stessa scienza.
La scienza è un termine estremamente complesso, molto variegato, che per certi aspetti contiene elementi di contraddizione. Esiste la scienza buona che, nella maturazione metodologica ed epistemologica degli ultimi decenni, ha certamente perduto ogni pretesa totalitaria. Giovanni Paolo II ha chiarito come alla scienza non si debba chiedere di occuparsi del senso ultimo delle cose, ma di stabilire i sensi particolari dell’esistenza e della realtà. Ora il problema della scienza è quello di salvaguardarla dalla sua deriva di tipo totalitario. La deriva di tipo totalitario è la scienza scientista, più volte criticata da papa Benedetto XVI. Lo scientismo pretende di essere la soluzione immediata di tutti i problemi; pretende di conoscere e organizzare scientificamente tutti gli oggetti, compresi gli oggetti umani. Questa deriva di carattere scientistico è realizzata sempre più chiaramente attraverso il potere tecnologico, per cui si forma un complesso di atteggiamenti e di posizioni che finiscono per rappresentare una seria minaccia all’uomo, alla sua libertà, alla sua dignità. Non dobbiamo dimenticare, e vorrei che chi giura sull’assoluta purità della scienza ci riflettesse, che una certa cattiva scienza è stata di fatto responsabile dell’omicidio di Eluana Englaro. Tutt’altro discorso invece per una scienza che, come diceva Giovanni Paolo II, tiene aperta una dialettica costruttiva e costitutiva con la fede, con la morale, con le grandi istanze etiche che contraddistinguono l’esistenza umana. Allora la scienza in qualche modo riceve da queste impostazioni culturali e morali l’antidoto vero alla tentazione di chiudersi in una visione totalitaria, sostanzialmente antiumana. Questa è una grande sfida per gli uomini e in particolare per i cristiani. Certamente non si possono accettare una scienza e una tecnica che non ammettano nessun confronto critico con quello che viene prima della scienza e della tecnica: l’uomo nel suo bisogno di verità, di bellezza, di bene, di giustizia che nessuna scienza potrà mai adeguatamente assicurare.
Con il senno di poi si potrebbe dire che, se la Chiesa non fosse intervenuta in determinate situazioni del passato, sarebbe stato meglio, perché non avrebbe compiuto quegli errori che poi gli sono stati imputati, a torto o a ragione, per denigrarla. La stessa richiesta di perdono per gli errori del passato compiuta da Giovanni Paolo II lo confermerebbe.
La Chiesa non può mai tacere su nessun problema in nessun ambito dell’esperienza umana perché la Chiesa porta nel mondo la verità della vita umana così come nel Mistero di Cristo, morto e risorto, si è fatta esperienza in Lui e da Lui in tutti quelli che credono. Se qualche cosa sfugge alla capacità di intervento e di giudizio della fede vuol dire che la fede non è in grado di salvare integralmente l’uomo. Gli antichi Padri e poi i primi grandi teologi dell’occidente avevano coniato una formula di straordinaria chiarezza e pertinenza: “quod non est assumptum, non est sanatum”. Ciò che non è assunto nel mistero della fede, cioè nella certezza della risurrezione di Cristo, non può essere redento, rimane fuori dalla redenzione. Se la fede non è in grado di investire tutti gli aspetti dell’umanità, ci si dovrebbe anche chiedere come possa essere vero che Cristo sia il redentore dell’uomo e il centro del cosmo e della storia.
Negli ambienti cattolici a volte sembra prevalere un atteggiamento dove alla ricerca della verità viene anteposta una posizione solo apparentemente dialogica, perché non si vuole cercare veramente di capire, accontentandosi di formulazioni conformiste. Perché succede questo?
Succede questo perché, come ha detto Benedetto XVI più volte al Sinodo dei Vescovi, a cui ho avuto il grande onore di partecipare, l’identità della fede non è forte. Perché il dialogo è l’espressione di un’identità forte, cioè di un’identità pienamente consapevole del proprio valore, capace di dare forma razionale, quindi comunicativa all’esperienza della fede. Se il dialogo, anche con le posizioni più diverse, non è l’espressione dell’identità, allora il dialogo diventa un’alternativa alla fede. Io credo che questo sia il grande pericolo, e non da adesso, che incombe sulla cristianità occidentale e in particolare anche sulla cristianità italiana. Io credo sia questo il grande problema di un’autentica libertà di cultura e di un’autentica libertà di educazione. Senza questa libertà, il dialogo diventa una cosa troppo facilmente manipolabile dalle centrali di potere soprattutto massmediatico.
Fede e cultura, fede e ragione, fede e scienza: qual è l’insegnamento di Giussani a questo riguardo?
La novità portata da Giussani nel campo del rapporto fede-cultura era profondamente tradizionale, affondava le sue radici nella grande tradizione del Magistero e più specificamente nella grande tradizione teologica della scuola di Venegono: la fede è la forma dell’intelligenza e del cuore. Questa formulazione radicale della fede rende capaci, in forza della sua identità, di criticare in modo positivo, di giudicare qualsiasi aspetto della ricerca. Don Giussani ci ha insegnato a rivedere dal punto di vista cristiano tutte le vicende culturali. Questo è stato un grande respiro per la nostra personale ricerca, per la nostra capacità di presenza effettiva nella società, a cominciare dalle scuole e dalle università. Certamente questo è costato a don Giussani e ai suoi amici, fra i quali anche il sottoscritto, almeno per una ventina d’anni, l’accusa di integralismo, mossa da un certo mondo cattolico dualista, per il quale la fede non aveva il diritto di intervenire nelle vicende culturali per non intaccare la legittima autonomia delle realtà terrene. Questa accusa di integralismo, che ha rappresentato in certi momenti una vera e propria discriminazione a livello culturale, è stata un’esperienza faticosa, almeno per alcuni di noi. Ma una fatica da continuare a vivere, perché si tratta di una posizione di sana integralità, di una fede capace di intervenire creativamente dentro i vari campi della realtà, attraverso un confronto molto duro, ma anche molto positivo.
Qual è l’insegnamento di Giovanni Paolo II?
Giovanni Paolo II ha dato a questa formulazione, tradizionale e insieme profondamente innovativa, uno sviluppo, una dilatazione che ci ha lasciati sempre estremamente grati a lui e, nello stesso tempo, confermati nel nostro quotidiano cammino di presenza culturale. La cultura è parte della missione. Se non vive nella missione la cultura diventa sostanzialmente interesse di carattere individualistico, estetico o addirittura interesse economico.
Giovanni Paolo II, ricevendo, nel 1978, gli studenti e i docenti dell’Università Cattolica, a un certo punto disse: «Se è vero che “l’homme passe infinnitament l’homme”, come ha scritto Pascal, allora bisogna dire che la persona non trova una piena realizzazione di se stessa che in riferimento a Colui che costituisce la ragione fondante di tutti i nostri giudizi sull’essere, sul vero, sul bello. Siccome l’infinita trascendenza di questo Dio, che qualcuno ha indicato come il “totalmente altro”, si è avvicinata a noi in Gesù Cristo fattosi carne per essere totalmente partecipe della nostra storia, bisogna allora concludere che la fede cristiana abilita noi credenti ad interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde dell’essere umano e ad indicare con serena e tranquilla sicurezza le vie ed i mezzi di un pieno appagamento».
Questo per me è il punto. Chi accoglie fino in fondo questo insegnamento entra nel vivo di una cultura cattolica creativa. Chi rifiuta in vario modo questo insegnamento si mette in una posizione di inferiorità nei confronti di una cultura mondana che non capisco in che senso possa essere seguita o stimata, essendo storicamente la responsabile delle grandi tragedie del XX secolo. È questa cultura mondana, formulata ideologicamente, che ha portato Robert Conquest, non un piccolo ricercatore delle nostre università, ma uno dei più grandi storici del XX secolo, a definirlo “il secolo delle idee assassine”.
L’insegnamento di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Giussani sono eventi che non possono essere né ridotti, né dimenticati. Vorrei che questo complesso di inferiorità, che sembra comparire qua e là nella compagine del mondo cattolico, non abbia anche il segno terribile di un tradimento della nostra autentica tradizione

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