Si intitola “Non dimentichiamoci di Dio. Libertà di fedi, di culture e politica” il nuovo libro scritto dal Cardinale Angelo Scola ed edito da Rizzoli. Un estratto riferito in particolare al rapporto tra Stato, religione e soggetti della società, per rispondere ai bisogni dell’uomo.
Se è vero che è un dovere dello Stato garantire lo spazio per l’espressione pubblica della religione e la comunicazione fra soggetti, è altrettanto vero che la qualità dei suoi contenuti dipenderà invece dalla vitalità di quanti lo abitano. In questo senso l’impegno civile e politico dei cristiani è particolarmente urgente. Non si tratta solo di difendere una posizione e una concezione particolare della vita da attacchi esterni, ma di immettere nel dibattito pubblico delle ragioni potenzialmente valide per tutti. Ciò non implica naturalmente che la proposta dei cattolici, per potere essere avanzata pubblicamente in piena legittimità, debba essere in sintonia con le visioni prevalenti nella società. Molte questioni che, per lo meno in Occidente, toccano oggi il tema della libertà religiosa, rimandano in realtà alla visione stessa dell’umano e al relativo «conflitto di interpretazioni»: «Il punto […] è che se non capiamo che la crisi che fronteggiamo riguarda, ultimamente, la natura dell’essere umano, le nostre strategie politiche […] a lungo termine rafforzeranno i presupposti stessi che hanno prodotto la crisi. Ciò non significa che strategie che parlano di diritti nel linguaggio liberal non possano essere giustificate per ragioni prudenziali. Significa semplicemente che anche queste strategie devono essere integrate […] in una concezione più adeguata dei diritti basata su una visione più completa della persona umana». A essere in gioco non è perciò soltanto la possibilità dei cristiani e più in generale dei credenti di esprimersi pubblicamente, ma di farlo sapendo e potendo rendere adeguatamente ragione della propria esperienza, cosa che sposta l’accento dal diritto dei credenti al loro dovere di testimonianza. Il cristianesimo ha infatti la pretesa di rispondere alle attese e ai bisogni di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, come proposta e mai come imposizione. Lo stesso Habermas ritiene in proposito che sia del tutto giustificabile, al di là dello sforzo di traduzione delle proposte in un linguaggio pubblico accreditato, anche «l’ammissione di enunciazioni religiose non tradotte nella sfera pubblica». Il motivo è semplice: uno Stato veramente democratico «non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, perché non può sapere se, in caso contrario, la società laica non si privi di importanti risorse di creazione del senso». Si potrebbe aggiungere che qualsiasi interpretazione amputata o parziale del cristianesimo, che ne privilegiasse cioè taluni aspetti a scapito di altri, finirebbe inesorabilmente per essere strumentalizzata, minerebbe l’originalità stessa della proposta cristiana e ridurrebbe i cattolici all’irrilevanza. Giova tra l’altro ricordare quanto il Concilio insegna a proposito del ruolo dei fedeli laici nella società: «A loro spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e al Redentore». Non è un invito a perseguire l’egemonia, ma piuttosto il riconoscimento del fatto che una fede integralmente vissuta ha un’irrinunciabile rilevanza antropologica, sociale e cosmologica, carica di conseguenze politiche assai concrete. Se si testimoniano in ogni ambito dell’umana esistenza, compreso quello politico e partitico, le proprie convinzioni, non si lede il diritto di nessuno. Al contrario mentre lo si promuove si mette in moto la virtuosa ricerca del compromesso (cum-promitto) nobile, su beni specifici di carattere etico, sociale, culturale, economico e politico. Qualora sui principi irrinunciabili non fosse possibile l’accordo con gli altri «abitanti» la società plurale, si farà ricorso all’obiezione di coscienza. Quest’ultima tra l’altro, a differenza di quanto ritengono alcuni, non ha solo lo scopo, privato, di esentare un soggetto da comportamenti per lui inaccettabili, ma anche quello di richiamare all’attenzione generale tematiche per le quali si ritiene che non si sia ancora formata un’adeguata sensibilità, contribuendo così in maniera preziosa al dibattito pubblico. Su questa dimensione sociale dell’obiezione di coscienza è più che mai necessaria un’ampia riflessione che purtroppo oggi ancora manca. Siamo consapevoli che tale opzione rischia oggi di non essere adeguatamente garantita dalla legge e di comportare perciò un prezzo da pagare personalmente. Essa pone così il cristiano nella logica della testimonianza, che, come ci ha ricordato Benedetto XVI in occasione del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, è sempre una «confessione» e «porta perciò in sé l’elemento martirologico». La testimonianza «non è – nota il Papa – solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro». È un compito impegnativo, ma affascinante.
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