LA BELLEZZA DELLA CHIESA E LA «RICCHEZZA» DELLA STORIA
M’ha sempre colpito che nel testamento di san Francesco, estrema richiesta e ammaestramento finale ai suoi, non c’è nessun invito alla Chiesa o al Papa d’esser povero.
Anzi c’è l’invito a una devozione finanche se i preti risultassero indegni. Il poverello era lui, Francesco, e aveva scelto quella forma di testimonianza cristiana chiedendo consiglio a un prete, aprendo a caso tre volte il Vangelo insieme all’amico Bernardo. Severissimo dunque nel chiedere a se stesso e ai suoi frati l’obbedienza alla regola di povertà, di castità e obbedienza, ma mai impancandosi a richiederla ad altri. Vedo invece che va abbastanza di moda chiedere alla Chiesa d’esser povera secondo il mondo. E non mi pare da dei sanfranceschi.
E per Chiesa di solito si intende il complesso monumentale che ospita la Santa Sede, il Vaticano. Erroneamente.
Perché anche i ciechi vedono che la Chiesa – nella stragrande maggioranza delle sue espressioni, missioni, parrocchie, gruppi, presenze – è povera, quando non poverissima. Ma si insiste, e lo fanno spesso gli intellettuali che poi magari vanno in visibilio davanti a sfarzosi templi orientali, a vagheggiare una Chiesa povera, un papa scalzo, un muro appena intonacato invece della Cappella Sistina. In questa richiesta c’è mischiato a buone intenzioni lo stesso errore, a mio avviso, la stessa erranza di chi all’opposto si affida alle ricchezze: ovvero sfugge in entrambi i casi l’essenziale.
Lo mostra il famoso episodio del Vangelo, quando Giuda muove per primo in modo esplicito la obiezione ai beni usati in modo 'improprio'. Riferendosi all’olio che la donna prostrata e piena di solitudine e sperdutezza sta adoperando per i piedi di Gesù, ringhia che sarebbe stato meglio impiegare i soldi che se ne potevano ricavare per i poveri. E Gesù – già sapendo da chi gli viene quella obiezione – lo fulmina: di lei si parlerà per sempre, perché ha onorato la sua presenza. I poveri li avrete sempre con voi, conclude il Nazareno. Nessuno di noi, avendo ospiti a cui tiene in casa, mostrerebbe il lato più misero della abitazione. Ci si darebbe da fare per abbellirla, per mettere fiori nei vasi, o cose del genere. Basta pensare che quando si aspetta l’amata o l’amato ci si pettina, ci si profuma, si prova a farsi bello o bella.
La ricchezza della Chiesa consiste nel farsi bella per l’amato che la abita e che sempre viene. Questo è l’essenziale, come sapeva la donna sperduta raggomitolata ai piedi di Cristo, piena di peccati ma donatrice di un olio prezioso. Certo in questo onore dato a Gesù si può mescolare – come accade sempre in ogni cosa che viene dal cuore umano – l’ambiguità della vanagloria, del possesso. Ma al contrario, una posizione 'pauperista' corre lo stesso rischio. Chi infatti potrebbe dire, senza essere superbo e vanitoso: non ho bisogno di abbellire la casa in cui ti accolgo perché, caro ospite, ti deve bastare la mia presenza? Il problema non è mai la povertà, ma l’essenzialità, ovvero che tutto tenda all’essenziale. Una stanza spoglia che non richiami al mistero di Cristo sarebbe inutile come e quanto una stanza bella che non richiami a quel medesimo mistero. E di certo, come vediamo spesso, la forza di tale richiamo sta nella vita e nella esperienza di chi abita la casa, ma anche – mutando storicamente stili e gusti – negli occhi di chi la visita. Se perdiamo la capacità di leggere i capolavori di Michelangelo come erano per lui – mendicante supremo della forza del vero Artista – possiamo vedere in tutto solo vuoto, sfarzo e vanità.
Nulla è meccanico nel cuore e nello sguardo. Occorre sempre, in uno sperduto tugurio dell’Africa più dimenticata o nella stanza affrescata di un santuario barocco, richiamare a se stessi l’essenziale per cui ci si trova lì. La povertà è segno potente, almeno quanto la bellezza. Ci può essere una vanità, un vuoto di Lui anche nella miseria e nella povertà, come nello sfarzo.
E una gloria, una essenziale preghiera, nel genio dell’artista e dell’architetto come in quella del bambino che pulisce i gradini di una chiesa fatta di paglia e terra secca.
DAVIDE RONDONI
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