mercoledì 3 ottobre 2012
La vita come vocazione
Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 29 settembre 2012
JULIÁN CARRÓN
«Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Questa è la promessa di Gesù, che lo Spirito Santo ci porterà alla verità tutta intera. Perché abbiamo questo bisogno? Perché la verità viene continuamente minacciata dalla sua riduzione, cioè dall’ideologia. Anche noi corriamo sempre questo rischio nel modo di guardare la realtà e noi stessi, di concepirci, di concepire l’avvenimento cristiano, di vivere la vocazione. Non ridurli e non ridurci è una grazia che dobbiamo invocare, mendicare da Colui che Cristo ci ha indicato, lo Spirito. Solo Lui ci può portare a quella autocoscienza vera di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno per vivere. Perciò cominciamo il nostro gesto mendicandoLo.
Canti:
- Discendi Santo Spirito
- Il mio volto
Intervento di DAVIDE PROSPERI
Innanzitutto saluto tutti i presenti qui, ad Assago, e quanti sono collegati in Italia e all’estero.
Anche quest’anno abbiamo scelto di ritrovarci insieme come inizio, e già in questo c’è una novità che riaccade ogni volta, che è data dalla Presenza che affermiamo ritrovandoci per riprendere il cammino insieme. Lo scopo di questo momento non è tanto quello di segnalare una parola nuova, ma innanzitutto di aiutarci a non perdere il gusto del cammino. Un anno fa, proprio qui ad Assago, Carrón citava una frase di don Giussani del 1995: «La radice della questione è il fattore costitutivo di ciò che c’è, e la parola più importante per indicare il fattore più importante di quel che c’è è la parola presenza. Ma noi non siamo abituati a guardare come presenza una foglia presente, un fiore presente, una persona presente, non siamo abituati a fissare come presenza le cose presenti» (Milano, 1 febbraio 1995). Ecco, noi siamo qui oggi per aiutarci a riconoscere questa presenza.
Comincio subito col dire che il fatto più significativo che ci è stato dato di vivere quest’anno è stato senz’altro l’avvio della causa di beatificazione di don Giussani. Dico il più significativo per noi, come spunto acuto di consapevolezza di quello che ci è accaduto incontrando il carisma a lui donato. Siamo chiamati a prendere coscienza che quello che ha investito la vita di tanti incontrando l’esperienza del movimento non è nostro, ma è per tutta la Chiesa e per il mondo.
Da questo punto di vista, una cosa che mi si è più chiarita quest’anno è proprio un aspetto fondamentale del compito che abbiamo davanti al carisma. Non si tratta di spingere avanti il discorso di Giussani, i contenuti della sua predicazione; infatti quello che abbiamo vissuto manifesta come il nostro contributo stia innanzitutto nell’esperienza che viviamo e nel giudizio che diamo su quello che accade, perché questo giudizio è messo continuamente alla prova, a nudo, nella sua verità dalle circostanze che Dio ci dà da vivere.
Come don Giussani stesso ricordava: «Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, Genova 1999, p. 63). A questo riguardo, agli Esercizi della Fraternità Carrón sottolineava: «Il Signore, sempre presente nella storia, ha voluto suscitare nel mezzo del ventesimo secolo un carisma come cammino per conoscere Cristo, proprio in questa situazione culturale in cui ci troviamo a vivere, perché l’humus culturale che gli illuministi hanno introdotto in Europa determina in gran parte il nostro modo di vivere il reale e di vivere la fede ([...] che riduce la fede a sentimento, a devozione o a etica). Per questo la storia di don Giussani è così significativa, perché ha vissuto le nostre stesse circostanze, e ha dovuto affrontare le stesse sfide e gli stessi rischi, ha dovuto fare lui stesso il cammino» (J. Carrón, «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», suppl. Tracce, n. 5/2012, p. 20).
Io capisco che questo è il primo mandato che ci viene consegnato: accettare di fare lo stesso cammino, prendendolo sul serio fino in fondo, senza sconti. Così, ciò che ci fa certi in questo cammino non è tanto l’aver capito quello che ci è stato detto (o, peggio, il pensare di averlo capito), quanto piuttosto quello che rende sicuro il passo è l’essere stati presi, afferrati, essere attratti da un’esperienza di verità totalizzante come quella che ci ha affascinato incontrando quest’uomo e tutto ciò che da lui è nato. Come ha detto papa Benedetto qualche settimana fa ai suoi ex studenti in un’omelia a Castel Gandolfo, ciascuno di noi può ridurre la fede, il cristianesimo, a discorso, come una verità che noi pensiamo di possedere, e proprio per questo, a volte, siamo accusati di intolleranza, e il Papa dice: non è che sbagliano quando ci dicono così, perché «nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! [un’esperienza] Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, [...] pellegrini della verità» (Benedetto XVI, Omelia alla S. Messa a conclusione dell’incontro con il “Ratzinger Schülerkreis” , Castel Gandolfo, 2 settembre 2012).
Riguardando a posteriori i contenuti della proposta dell’anno passato (dalla scorsa Giornata d’inizio anno a tutto il lavoro di Scuola di comunità, fino agli Esercizi della Fraternità), ci accorgiamo che tutta la traiettoria educativa è stata prima di tutto un giudizio sull’esperienza fatta, piuttosto che un richiamo a una posizione da assumere per il futuro. Abbiamo vissuto molte circostanze che ci hanno anche messo alla prova, che ci hanno sfidato su una posizione originale: o si tiene il legame col ceppo, con l’origine di quello che ci ha preso, oppure è diventato chiaro che l’alternativa è il prevalere di un’analisi, si diventa reattivi; è una tentazione irresistibile.
Pensiamo, ad esempio, alla vicenda della crisi economica, tutti ne abbiamo risentito e quanti anche tra di noi ne sono stati investiti, talvolta con danni tremendi. Eppure, proprio partendo dalla nostra storia, abbiamo tentato un giudizio originale con il quartino «La crisi, sfida per un cambiamento»; e questo giudizio è stato - direi con sorpresa - un fattore di presenza e di incontro con tanta gente che ha voglia di rimettersi in marcia, e che non si è ancora concluso, ma prima ancora è stato una molla che ha messo in moto noi. Davanti a tutto quello che sta succedendo abbiamo detto che la realtà è positiva, non per una ingenuità, ma perché vediamo tanti anche tra di noi che ci testimoniano che la realtà, in quanto c’è, così com’è, è una grande provocazione, l’occasione per un cambiamento, per un miglioramento, perché è più grande di noi e quindi c’è una speranza. Per cui, per essere realisti, non possiamo aspettarci di ridurre quello che c’è alla nostra misura, a quello che sapevamo già, al punto in cui ci sentivamo sicuri, ma dobbiamo accettare di aprirci per poter crescere.
Poi si è inasprita un’aggressione mediatica anche su Cl in quanto tale, l’abbiamo visto soprattutto sui giornali, mossa soprattutto dal dibattito sulla politica, e anche qui - lo ricordiamo bene - la lettera di Carrón, pubblicata su Repubblica il primo maggio, ha spiazzato tutti, dentro e fuori il movimento, perché ha posto una provocazione sulla radice della questione. Ci siamo ripetuti spesso, quest’anno, l’affermazione di don Giussani: «Quando [...] la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore, aizzando le già naturali incertezze, allora è venuto il tempo della persona» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», a cura di L. Cioni, Litterae Communionis CL, n. 1, gennaio 1977, p. 11). Nel contesto generale di sospetto, di livore e - diciamolo pure - anche di menzogna in cui abbiamo vissuto e che abbiamo respirato, questa lettera, pubblicata proprio su uno dei giornali più accanitamente lontani come impostazione del pensiero, ha aperto un varco a uno sguardo nuovo, a una possibilità nuova di guardare le circostanze, che ci sono date per la costruzione di un bene più grande. Un giudizio vero non è sempre immediato, ma certamente è un giudizio che muove. «Per questo - diceva nella lettera - non abbiamo altra lettura di questi fatti se non che essi sono un potente richiamo alla purificazione, alla conversione a Colui che ci ha affascinato. È Lui, la sua presenza, il suo instancabile bussare alla porta della nostra dimenticanza, della nostra distrazione che ridesta in noi ancora di più il desiderio di essere suoi» (J. Carrón, «Carrón: da chi ha sbagliato un’umiliazione per Cl», la Repubblica, 1 maggio 2012). Non c’è giudizio del mondo che possa vincere sull’affermazione di chi siamo: siamo Suoi.
Sotto Natale un’amica raccontava che un giorno sua figlia è tornata a casa dalla scuola media un po’ turbata. C’era stata l’annuale festa natalizia ed era rimasta colpita da un suo compagno che aveva perso il papà. Allora questa ragazzina ha detto: «Mamma, io non so se ce la farei ad essere felice al suo posto», perché lo vedeva spesso contento, anche alla festa l’aveva visto contento. Allora sua mamma, come fanno di solito le mamme, ha cercato subito di “correre ai ripari” spiegandole che la madre di quel bambino è una gran donna, che non gli mancherà nulla, eccetera. Ma tutte queste spiegazioni, certamente vere, alla figlia non bastavano, perché lei aveva visto una cosa ancora più vera, nella sua semplicità di bambina aveva visto più in profondità: era stata ferita. Il Mistero aveva aperto una breccia e si era affacciato. Lei aveva intravisto in quel suo compagno una grandezza straordinaria, inimmaginabile, aveva visto che aveva un destino (noi siamo fatti per la felicità), e per questo si era fatta subito una domanda su di sé, perché anche lei aveva un destino.
E noi abbiamo fatto un Meeting questa estate per cercare di dire che cos’è questo destino: la natura dell’uomo, la sua consistenza, quello per cui si alza ogni mattina e si impegna in tutte le sfide che si trova ad affrontare, la sua grandezza è il rapporto con l’infinito.
Allora possiamo vedere che Dio ci ha dato questo anno per renderci più consapevoli di quello che noi siamo, dell’ideale al quale siamo attaccati e per cui viviamo, e ce lo ha chiarito attraverso le circostanze che ci ha dato, anche quelle magari non sempre immediatamente desiderabili.
Proprio per questo, incominciando il nuovo anno, ti chiediamo: che cosa vuol dire tutto quello che ci è capitato? Che cosa permette di imparare a vedere quello che c’è dentro le circostanze e che tante volte si fa così fatica a vedere? Questo lo sentiamo particolarmente urgente perché, senza poter riconoscere la vera consistenza delle cose, è molto arduo percorrere il sentiero per il compimento del proprio destino umano.
JULIÁN CARRÓN
Mi auguro, anzitutto, che ciascuno riprenda quanto ha appena detto Davide, perché è una testimonianza di che cosa vuol dire fare un cammino, è una sintesi del percorso fatto che ci aiuta tutti a fissarlo con consapevolezza nella memoria, in modo tale che non si perda.
Che cosa c’entra - mi chiede - tutto quanto ci è capitato e continua a capitarci con l’urgenza di imparare a vedere quello che sta dentro le circostanze e che tante volte facciamo così fatica a vedere? Questo lo sentiamo particolarmente urgente perché, senza poter riconoscere la vera consistenza delle cose, è molto arduo percorrere la strada per il compimento del proprio destino umano.
1. CONSISTENZA E CIRCOSTANZE
La fatica a percepire quel che sta dentro le circostanze ha a che vedere con la «egemonia culturale e sociale [che] tende a penetrare il cuore» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», op. cit., p. 11) di ciascuno di noi. Colpisce che Benedetto XVI - non cede su questo punto -, rivolgendosi alla Cei, abbia cominciato proprio da qui, da questa riduzione che non è senza conseguenze: «La razionalità scientifica e la cultura tecnica, infatti, non soltanto tendono ad uniformare il mondo, ma spesso travalicano i rispettivi ambiti specifici, nella pretesa di delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste. Così il potere delle capacità umane finisce per ritenersi la misura dell’agire [...]. Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme di venire soffocato, calpestato e perduto» (Discorso all’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012).
Ma come può essere sfidata questa riduzione della ragione? È sfidata dalla realtà, dalle circostanze, come don Giussani - tenetelo sempre a mente - ci ha indicato nel decimo capitolo de Il senso religioso: le domande della ragione si destano nell’impatto con la realtà. «La vita è questa trama di circostanze che, assediandoti, ti toccano e ti provocano (“provocano”: qui c’è la radice della più bella parola cristiana sulla vita: “Vocazione”)» (L. Giussani, Certi di alcune grandi cose. 1979-1981, Bur, Milano 2007, p. 387).
Ci sono tantissime testimonianze di questo, ne leggerò solo qualcuna.
«Sono psicologa in ospedale, dove mi occupo di gravidanza. Una donna e suo marito hanno cercato per molto tempo un figlio e a febbraio, finalmente, la gravidanza tanto attesa arriva. Un mese dopo, alla donna viene diagnosticato un tumore ai polmoni con metastasi diffuse in gran parte del corpo. Al primo contatto non le viene data alcuna speranza di sopravvivenza. Con il proseguimento della gravidanza le viene consigliata l’interruzione. Prima di conoscerla personalmente, incontro un’ostetrica che mi riferisce che loro hanno cercato di entrare il meno possibile nella stanza di questa donna perché il carico da portare è troppo. E un ginecologo dice: “Io cerco di entrare solo per lo stretto indispensabile, perché è un finale già stabilito”. La prima volta che incontro questa donna in stanza presento, come faccio di solito, il servizio offerto dall’ospedale, ma mi accorgo di essere in imbarazzo e mi fermo poco. La volta successiva entro in punta di piedi, rimango da sola con lei, che mi racconta di sé, del dolore acuto nel corpo, della difficoltà a comprendere come, dopo un miracolo (essere rimasta incinta, quello che tanto desiderava), possa esserle stata data una punizione (il tumore con le metastasi). Più rimango davanti a lei, più la mia solita veste professionale da sola non regge, non trovo appigli, mentre si aprono dentro di me le stesse domande sue, lo stesso grido, che mi porto fuori dalla stanza, dove inizio a intuire che la mia capacità professionale non c’entra, che c’è di più [pensiamo di cavarcela con la nostra razionalità scientifica, ma la realtà ci spinge, ci sfida ridestando le stesse domande: c’è di più!]. Quella donna incinta e malata mi rimette di fronte a tutta la mia umanità bisognosa dentro il mio ruolo professionale».
La ragione del valore delle circostanze è semplice: «Dio non fa nulla per caso» (L. Giussani, Qui e ora. 1984-1985, Bur, Milano 2009, p. 446). Questa è l’unica lettura vera del reale, delle circostanze. Altro che dietrologie (in cui tante volte ci fermiamo fino a stancarci)! Le circostanze, belle o brutte che siano, tutte, sono modi attraverso cui il Mistero ci chiama. Non sono, come tante volte noi le interpretiamo secondo la nostra misura (cioè il nostro razionalismo), la fregatura da sopportare. Hanno uno scopo ben preciso nel disegno di Dio.
Quale scopo?
Lo si capisce bene a partire dalla concezione di realtà che don Giussani non si è mai stancato di comunicarci e di testimoniarci. Rileggiamo che cosa diceva davanti a una sfida ancora più drammatica di adesso, quando intorno al sessantotto il movimento fu decimato: «Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati. Questo vale innanzitutto per la vita della persona, ma ultimamente e più profondamente per la vita della sua Chiesa, perciò, analogamente, per la vita di ogni comunità [...]. Dio non permette mai che accada qualche cosa, se non per una nostra maturità, per una nostra maturazione. Anzi [ecco il test che Giussani propone per verificare se stiamo diventando più maturi], è proprio dalla capacità che ognuno di noi e che ogni realtà ecclesiale ha (famiglia, comunità, parrocchia, Chiesa in genere) di valorizzare come strada maturante ciò che appare come obiezione, persecuzione, o comunque come difficoltà, è dalla capacità di rendere strumento e momento di maturazione questo, che si dimostra la verità della fede» (L. Giussani, «La lunga marcia della maturità», Tracce, n. 3/2008, p. 57).
In che cosa consiste, dunque, la nostra maturazione? È la maturazione della nostra autocoscienza, è la generazione di un soggetto in grado di avere consistenza in mezzo a tutte le vicende della vita. Perché le circostanze introducono una lotta: «Allora, è la lotta che ci tiene svegli, e questa lotta è la trama normale della vita: ci tiene svegli, cioè ci matura la consapevolezza di ciò che è la nostra consistenza o la nostra dignità, che è un Altro» (L. Giussani, Certi di alcune grandi cose. 1979-1981, op. cit., p. 389). Le circostanze, perciò, ci sono date perché maturi in noi la consapevolezza di ciò che è la nostra consistenza, affinché noi prendiamo veramente coscienza che la nostra consistenza è un Altro.
Per vedere bene qual è la modalità con cui noi di solito affrontiamo queste sfide, basta che facciamo un paragone col canto che abbiamo appena cantato, Il mio volto, e che ci lasciamo colpire da esso. Perché questo canto - mi sono sorpreso a pensarlo spesso negli ultimi tempi - sarebbe quasi impossibile che qualcuno di noi lo scrivesse oggi... «Mio Dio, mi guardo ed ecco scopro / che non ho volto; / guardo il mio fondo e vedo il buio / senza fine [verificate che cosa facciamo noi quando vediamo il buio senza fine, come lo affrontiamo, come reagiamo, come ci agitiamo, e poi paragoniamolo con quel che dice il canto]. // Solo quando mi accorgo che tu sei, / come un’eco risento la mia voce / e rinasco» (A. Mascagni, «Il mio volto», Canti, Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2007, p. 203). Quante volte, davanti al buio, ciascuno di noi si sorprende a fare il percorso che descrive il canto? E invece quante volte arriviamo al buio e ci agitiamo cercando una conferma al di fuori dell’esperienza per aggrapparci a qualcosa? Per questo dico: oggi chi sarebbe in grado di comporre un canto così? Immaginate, invece, se ogni volta che uno è nel buio, facesse quello che il canto dice: guardare il fondo, senza rimanere a un uso ridotto della ragione, fin quando riconosce il Tu che è al fondo di ogni buio. Che autocoscienza di sé acquisterebbe ogni volta! Che capacità di vivere nella verità di sé, non determinato costantemente dal buio, non dovendo costantemente fuggire dal buio, perché ha incontrato lì, in fondo al buio, in fondo al reale, in fondo a se stesso, che cosa lo costituisce! E qual è il segno? Non che ho altri pensieri o altri sentimenti. No! Lo riconosco da un fatto reale: che io rinasco.
Come dice questa lettera: «Carissimo Julián, la vita, seguendo, diventa ogni giorno più affascinante. Ogni istante in cui prendo coscienza di chi sono e del rapporto con il Signore che, solo, rende la mia persona salda e lieta, diventa la possibilità di camminare verso il mio compimento. Sono una casalinga, ho tre figli; e sono una grande avventuriera. Non mi sono mai sentita schiacciata dalla solitudine inevitabile che la mia vita mi regala e dalla fatica di un lavoro che non risulta pubblico (come cambiare pannolini o preparare pappe ai bambini), perché davvero, finalmente, dando credito alla verità di quello che sempre ci dici (come sempre ci diceva don Gius), tutte le volte che si affaccia sull’orizzonte del quotidiano un qualche senso di soffocamento o di menzogna, mi accade di pensare a te, penso al mio io, a Chi lo sta facendo in quell’istante, e immediatamente scopro il rapporto unico e grande che mi costituisce, e tutto torna al suo giusto posto e respiro l’aria fresca della mia libertà, l’aria fresca della Sua presenza. Io voglio solo ringraziarti perché in questi anni sto iniziando realmente a conoscere e a seguire don Giussani, e perché non passa giorno in cui ogni circostanza - oserei dire anche il mio male, il mio peccato - mi accorgo e domando che possa essere la grande occasione per fare il mio passo certo e consapevole verso il mio destino. Questa è la grande speranza per me, per i miei cari e per tutto il mondo».
Allora capite perché le circostanze sono parte essenziale della vocazione: perché ci sfidano, perché se a volte non fossi nel buio più buio, potrei vivere senza accorgermi del Mistero, senza il bisogno di rendermi veramente cosciente di che cosa sono e del fatto che Lui c’è; e così rinascere. «Autocoscienza è la capacità di riflettere su di sé fino in fondo [che non vuol dire rimanere in una introspezione psicologica]. Ma se uno riflette su se stesso fino in fondo in modo totalmente cosciente, incontra un Altro, perché dicendo “io” in modo totalmente autocosciente, m’accorgo che io non mi faccio da me» (Raduno di sacerdoti, 9-16 settembre 1967, La Verna (Ar), Archivio Cl). E quando mi rendo conto che non mi sono fermato a metà strada, che sono arrivato a questo Altro? Per un ragionamento? Per un sentimento? Per un autoconvincimento? Perché rinasco!
Io mi domando: in tutto questo periodo in cui siamo stati così sfidati dalle circostanze, quante volte ci è capitato di essere costretti a fare questo percorso, fino a rinascere nel riconoscimento del Tu? Io, vi confesso, ho dovuto farlo una infinità di volte, altrimenti vi garantisco che non sarei più qua. Perché uno può essere dall’altra parte del mondo e gli arriva per email l’ultimo articolo del giornale che ci attacca pesantemente, e lì non c’è spazio per la fuga: o uno si lascia determinare dalla reazione e ridurre a questo per tutta la giornata, o ricomincia a fare un percorso e riconosce ancora una volta di non essere quello che dicono i giornali, ma legame con Uno che lo fa. Davanti a ogni circostanza e a ogni sfida, che sono costanti, io sono costretto a decidere se rimanere nel lamento oppure se guardarla come la possibilità attraverso cui il Mistero chiama me al rinnovamento della mia autocoscienza.
Il problema non è che ci tolgano il buio, o che ci risparmino certi attacchi; «il vero nostro problema è uscire dall’immaturità» (L. Giussani, «La lunga marcia della maturità», op. cit., p. 70), cioè iniziare a dire “io” da uomini veramente coscienti di quel che sono. Per questo è il tempo della persona. Perché la nostra immaturità non è generata - come a volte pensiamo - dagli altri o dalle circostanze o dagli attacchi che ci troviamo ad affrontare. Non confondetevi: gli altri non hanno il potere di generare questa nostra immaturità, ma mettono soltanto in evidenza che c’è, ci rendono coscienti fino a che punto siamo inconsistenti, ce lo fanno scoprire; ci fanno scoprire che tante volte noi siamo più determinati dalle circostanze che dall’autocoscienza. Allora la questione non è lamentarsi delle circostanze - quanto tempo perdiamo in uno sterile lamento! -, ma uscire dall’immaturità.
Il Signore vuole farci uscire dall’immaturità generando un soggetto così consistente che sia in grado di sfidare qualsiasi buio, qualsiasi circostanza, qualsiasi problema. Altrimenti noi nel reale non ci saremo, tenteremo di fuggire, come vediamo accadere intorno a noi: i medici non entrano più nelle stanze dei malati perché c’è troppa realtà per starle davanti. E noi pensiamo di poter stare davanti a tutte le sfide senza avere consistenza?
Così si introduce uno sguardo diverso sulle circostanze, e si capisce qual è il senso della vita come vocazione: «Vivere la vocazione significa tendere al destino per cui la vita è fatta. Tale destino è Mistero, non può essere descritto e immaginato. È fissato dallo stesso Mistero che ci dà la vita. Vivere la vita come vocazione significa tendere al Mistero attraverso le circostanze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo ad esse. [...] La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare» (L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, SEI, Torino 1995, pp. 49-50) (non quelle che scegliamo noi, come se le potessimo decidere noi, ma tutte).
Che il Signore ci faccia camminare al destino attraverso circostanze avverse è qualcosa di misterioso, la Bibbia ce lo ricorda sempre: «Le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Quando facciamo attenzione ci accorgiamo che questo, paradossalmente, è così conveniente per la generazione di un soggetto che senza di questo noi ci perderemmo nella banalità più assoluta, nella distrazione più superficiale, nella riduzione più tremenda. Perché tutte le circostanze attraverso cui il Mistero ci fa camminare al destino sono per risvegliare il nostro soggetto umano, in modo tale da avere il vigore che gli consente di vivere in qualsiasi contingenza. È la verifica della fede, è la verifica dell’avvenimento cristiano: se il cristianesimo è in grado di generare un soggetto consistente, non fuori dalla realtà, non nella nostra stanza, ma nel reale così come il reale ci sfida. E qual è il vigore, qual è la forza dell’io? Dove si trova? La forza dell’io è soltanto nell’autocoscienza. Perciò tutte le circostanze per cui il Signore ci fa passare sono per maturare in noi «l’autocoscienza, una percezione chiara ed amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino e dunque capace di affezione a sé vera, liberata dall’ottusità istintiva dell’amor proprio. Se smarriamo questa identità, nulla ci giova» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», op. cit., p. 12).
2. GLI ELEMENTI DELLA NOSTRA AUTOCOSCIENZA
Gli elementi della nostra autocoscienza ce li ha ricordati il Papa nel suo messaggio al Meeting di Rimini, lo scorso agosto.
a. Dipendenza originaria: «Fatti»
«Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore. L’uomo è una creatura di Dio [tutti sappiamo queste frasi, tutti le sappiamo, io per primo, ma se non le riscopriamo rispondendo alle circostanze, rimangono lì nel cassetto delle nostre conoscenze inutili, e poi tutti siamo spiazzati da qualsiasi circostanza; per questo, vi prego (come chiedo per me stesso) di non soccombere alla tentazione di pensare che già lo sappiamo. Non lo sappiamo! Altrimenti vivremmo con una intensità che noi tante volte nel quotidiano ci sogniamo]. Oggi questa parola - creatura - sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare “scomoda” poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro - non gestibile dall’uomo - che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati». Questo non ce lo può togliere alcuna circostanza, alcun potere, alcun attacco, perché costituisce la verità di noi più dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti o delle nostre reazioni, o degli altri: non sono gli altri a definire che cosa siamo noi; noi siamo questa dipendenza originaria, e quando questa dipendenza originaria non è così consapevole, allora siamo in balìa di tutti, lo vediamo al lavoro, nei rapporti, con gli amici, leggendo i giornali, stando da soli. Eppure, sottolinea Benedetto XVI, «questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, 10 agosto 2012).
«Ma il peccato originale?», ci domandiamo spesso.
Continua il Papa: «Il peccato originale ha la sua radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri progenitori a questo rapporto costitutivo, nel voler mettersi al posto di Dio, nel credere di poter fare senza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo [cioè il desiderio di respirare, il desiderio di uscire dal bunker], quasi una firma impressa col fuoco nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. [...] “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua”. [...] Non solo la mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di “falsi infiniti” che possano soddisfare almeno per un momento» (Ivi). Siamo talmente costituiti da questo Mistero che ci vuol bene, che neanche noi, con tutto il nostro male, possiamo ridurre questa sete. Allora questa sete grida, grida, grida Lui, grida che c’è qualcosa in me che resiste, che permane dopo tutte le mie distrazioni, dopo tutto il mio male, dopo tutto il mio confondermi. Dite se non rimane la sete, che è il segno di qualcosa di irriducibile, un dato: siamo fatti per l’infinito. Questo è il nostro destino.
Questo dato è il primo elemento della nostra autocoscienza, di una percezione chiara e amorosa di sé. La dipendenza originaria costituisce la verità di noi: siamo frutto di un atto di amore di Dio. Siamo! E nessuno sbaglio, nessuna distrazione, nessuna circostanza, nessun dolore può cancellare il fatto che io ci sono. E se ci sono, il Mistero che mi fa mi sta gridando, per il fatto di esserci: «Tu sei un atto di amore Mio. Tu sei fatto per Me ora, sei fatto a Mia immagine e somiglianza». E allora acquista tutta la sua portata la frase che tutti “sappiamo” e che ci farebbe respirare, se noi ne prendessimo consapevolezza: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27). Questo, ci dice don Giussani, è il fondamento dell’affezione a sé (e noi che tante volte andiamo a mendicare le briciole che cadono dalla tavola di qualche potente!): «L’affezione a se stessi non può essere motivata da quel che si è; è motivata dal fatto che si è, è la sorpresa di sé come dono di qualcosa d’altro, come grazia, come sorpresa di essere, come fatto di un altro. Se la prima cosa che fa Dio è amarti, qual è l’imitazione più immediata di Dio? L’imitazione di Dio è la sorpresa di amarsi, di volersi» (Memores Domini, 8 ottobre 1983, pro manuscripto). «Se uno non ha amore, se uno non ha tenerezza per se stesso, imita Dio in niente; se uno non imita Dio nell’amare, non può imitare Dio, perché la prima cosa, e fondamentale, con cui Dio si rivela all’uomo che è fatto a Sua immagine e somiglianza, la prima somiglianza con Dio è amare sé. Perché la prima cosa che fa Dio è amarti» (Memores Domini, 3 maggio 1987, pro manuscripto).
Ciascuno può fare il paragone tra la coscienza che ha di sé e ciò che dice don Giussani; non per lamentarci di quanto siamo ancora inconsistenti, ma per gustare una promessa, per riscoprire la possibilità di non perdere quel che ci diciamo.
b. Avvenimento cristiano: «Suoi»
A noi è successo un altro fatto, che costituisce il secondo elemento della nostra autocoscienza e che risponde a una domanda che spesso anche noi ci facciamo e che il Papa ha formulato così: «Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa [guardate che verbo usa!] sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, op. cit.).
Come ciascuno di noi sa che è successo proprio così, che queste non sono parole dette a vanvera?
Perché anche noi, come Giovanni e Andrea, siamo stati presi, fino al punto che ciascuno può dire: mai sono stato me stesso come quando Tu mi sei accaduto. Questo è il contenuto dello sperimentare Cristo. Il secondo dato del contenuto della mia autocoscienza, dunque, è Cristo che mi è successo nella vita, che mi ha fatto sperimentare me stesso con una intensità, con una grandezza, con una pienezza che io non riesco a riprodurre con tutti i miei tentativi. Il contenuto della mia autocoscienza, del sentimento di me, è che il mio io sei Tu, Cristo. Tu sei me, Tu sei il mio vero io. Per questo si può sintetizzare il contenuto della mia autocoscienza con le parole di san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Ciascuno può guardare e vedere fino a che punto è questa autocoscienza di Cristo a dominare le giornate, oppure se è una frase scolpita sul muro, ma di cui non abbiamo un contenuto reale di esperienza.
Il Papa ci ricorda la gioia e la gratitudine che invadeva la vita dei primi cristiani: «Infatti, nel Cristianesimo delle origini era così: l’essere liberato dalle tenebre dell’andare a tastoni, dell’ignoranza - che cosa sono? perché sono? come devo andare avanti? -, l’essere diventato libero, l’essere nella luce, nell’ampiezza della verità. Questa era la consapevolezza fondamentale. Una gratitudine che si irradiava intorno e che così univa gli uomini nella Chiesa di Gesù Cristo» (Benedetto XVI, Omelia alla S. Messa a conclusione dell’incontro con il “Ratzinger Schülerkreis” , op. cit.). Tutti sappiamo quanto Giussani fosse talmente dominato da questa coscienza, al punto tale da fare dire al cardinale Martini: «Ecco, tu, ogni volta che parli, ritorni sempre a questo nucleo, che è l’Incarnazione, e - con mille modi diversi - lo riproponi» (C.M. Martini citato in J. Carrón, «Carrón: sono addolorato, potevamo collaborare di più», Corriere della Sera, 4 settembre 2012). Che cos’era, ogni volta, sentirlo parlare!
A questo punto il Papa tira le fila: «Nulla allora [dopo l’Incarnazione] è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino». È stupefacente come prosegue il Papa: «Scopriamo così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella a cui il Servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, op. cit.).
Capite? Vivere la vita come vocazione è camminare al destino attraverso ogni cosa, che non è più banale e insignificante, ma acquista la capacità di richiamarci all’autocoscienza. Le circostanze ci sono date per risvegliare questa autocoscienza, non perché le circostanze possano darci quello che abbiamo detto (il fatto di esserci e il fatto che Cristo ci accada), ma perché le circostanze ci aiutano a scoprire carnalmente, sperimentalmente che cosa vuol dire Cristo e che cosa vuol dire il fatto che io ci sono, perché il Signore ci fa camminare al destino attraverso tutte le circostanze che fa capitare. Per questo: «Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita» (Ivi).
Il Signore richiama tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di essere uomini, fatti per l’infinito. E questo è quello che documenta la Rivelazione, che tutto quanto ci è dato, ci è dato per la nostra maturazione, per crescere in questa autocoscienza. Perciò questo è il tempo della persona, il tempo di ciascuno di noi, perché ciascuno è chiamato, attraverso circostanze particolarissime, a rispondere a Cristo che chiama. E rispondere alla situazione e alla provocazione è impossibile, se non ci mettiamo in gioco con tutto noi stessi. Perché, solo la persona può non soccombere a questa situazione, proprio per la natura dell’io. Quello che è in gioco in tutto questo è la lotta accanita per non ridurre l’io a tutti i fattori antecedenti.
3. LA STRADA DELLA CERTEZZA
Questo lo documenta in modo spettacolare san Paolo. Anche a lui l’incontro con Cristo ha segnato la vita, tanto da capovolgere tutto ciò che considerava un valore: «Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,3-11).
Ma anche a lui, che aveva questa chiarezza su Cristo, niente è stato risparmiato, anzi; basta guardare le circostanze che ha dovuto affrontare: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28). È impressionante! Ma attraverso tutto ciò in cui il Signore lo ha fatto passare, che cosa è emerso sempre più potentemente alla coscienza di san Paolo? Che «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio» (2 Cor 4,7-15).
Tutto quello che gli viene dato è per lui, è per conoscere di più Gesù, la forza della Sua risurrezione, la potenza di Colui a cui lui ha affidato la vita. Questa è una umanità tutta traboccante di gratitudine, che nasce ancora più consapevolmente perché il Mistero non ha risparmiato alcunché a Paolo. Queste circostanze, che sono parte della Rivelazione - le lettere di san Paolo sono parte della Rivelazione, non sono aneddoti o aggiunte decorative -, dicono il metodo di Dio: Dio non ci risparmia alcunché affinché possa crescere questa gratitudine sconfinata. Allora vivere la vita come vocazione con questa coscienza (che cioè portiamo questo contenuto in vasi di creta) è la strada per non essere appiattiti nell’ottusità e nella opacità della nostra coscienza, in modo tale che la certezza di Cristo possa diventare sempre più nostra. Noi non metteremo in discussione le nostre “idee” su Cristo a meno che Lui stesso non sfondi costantemente la nostra riduzione, facendoci sperimentare Chi è.
L’esito di questo metodo di Dio lo descrive lo stesso Paolo: la certezza acquisita. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).
Se noi non siamo vincitori in mezzo a tutta la situazione di egemonia culturale in cui siamo chiamati a vivere, qual è la ragionevolezza della fede? Perché sarebbe ragionevole credere in Cristo? Invece se qui, proprio qui, in mezzo a tutto quello che stiamo dicendo, a tutto quello che stiamo vivendo, a tutte le sfide che ci troviamo ad affrontare, vediamo che siamo più che vincitori in Lui (non per merito nostro, ma perché Cristo ci ha amati), questo genera una consistenza che è unica. La persuasione di cui parla san Paolo è la certezza dell’autocoscienza. Chi non desidera almeno un grammo di questa certezza? Allora, è solo se noi vediamo all’opera la contemporaneità di Cristo che siamo veramente vittoriosi. Essere vittoriosi non vuol dire «prendere il potere». Essere vittoriosi vuol dire vedere la vittoria di Cristo, anche se siamo spogliati di tutto. Essere vittoriosi significa essere traboccanti della Sua presenza.
Per questo, dobbiamo decidere dove troviamo la risposta al desiderio di felicità che ci scopriamo addosso perché siamo fatti per l’infinito. Solo così potremo collaborare alla missione della Chiesa, che «non è l’accanimento del proselitismo, ma una testimonianza che lascia trasparire l’attrattiva di Gesù, è lo struggimento perché tutti siano salvati» (A. Scola, Alla scoperta del Dio vicino, Centro Ambrosiano, Milano 2012, p. 31), come ci ha ricordato il cardinale Scola nella sua recente lettera pastorale.
Davanti a testimoni come san Paolo possiamo vedere che cosa può diventare Cristo per noi, in modo tale che, anche nelle circostanze più pressanti, sempre di più il contenuto della nostra autocoscienza ci riempia di silenzio, urga dentro di noi la memoria di Cristo come la cosa più preziosa, la cosa più desiderabile, a cui dare tempo, a cui dare spazio, a cui dare il nostro cuore. Se non abbiamo sempre di più il desiderio di questa memoria, se non ci sorprendiamo desiderando questo silenzio per dare spazio alla memoria, noi siamo già vinti, perché abbiamo ceduto sul contenuto dell’autocoscienza e quindi l’abbiamo svuotata di quel che ci è capitato e ce la siamo fatta riempire da quello che vuole il potere. Essere in silenzio è vivere questa coscienza di Cristo, è la capacità di pensare e invocare Cristo.
Per questo, per imparare a pregare bisogna amare il silenzio, cioè il sentimento profondo di sé come persona incamminata verso una meta che è il mistero di Cristo. Deve diventare maturo, sempre più maturo e grande il silenzio. Se noi non arriviamo a fare in modo diverso quello che facciamo di solito, se il silenzio non è prendere coscienza di sé per riempire la nostra persona (a volte già riempita di tutte le distrazioni, di tutte le preoccupazioni, di tutte le cose da fare), se noi non diamo lo spazio al prendere di nuovo coscienza di noi, saremo travolti da tutt’altro. Perché il silenzio è riprendere coscienza del proprio rapporto con la grande presenza del mistero del Padre.
È così che possiamo, poi, affrontare il reale con negli occhi, nella coscienza, Lui. Come il cieco nato. Non che il cieco nato lo guarisca e poi lo tiri fuori dal reale per paura che gli venga tolto quello che gli ha dato. No. Con negli occhi quella Presenza che l’ha guarito, Gesù lancia il cieco nella mischia, non lo tira fuori. Cioè: Cristo genera un io in grado di vivere il reale, come il cieco che ha la semplicità di riconoscere che prima non ci vedeva e adesso ci vede. La sua coscienza era determinata da quello che gli era successo. Con questa autocoscienza può stare davanti a tutti, non perché sia più potente, ma per questa semplicità nell’aderire a quello che gli è capitato. Questa è la potenza dell’autocoscienza - e nell’ultimo arrivato! -, e tutti i sapienti tra i farisei nulla hanno potuto rispetto a un io che aveva questa autocoscienza.
Così possiamo stare davanti a qualsiasi circostanza, come ci ha testimoniato una nostra carissima amica davanti alla morte, in un dialogo che ha avuto con il marito (che me lo ha scritto) quando ha saputo quello che stava per succedere: «Mi ha detto: “Io sono tranquilla, non ho paura, perché c’è Gesù. Ora nemmeno sono più angosciata per te e per i bimbi, perché so che siete nelle mani di un Altro”. E io: “Ma non sei triste?”. “No, non sono triste. Sono certa di Gesù, anzi, sono curiosa di quello che mi capiterà, di quello che il Signore mi sta preparando. Forse dovrei essere triste, ma non lo sono. Mi dispiace solo che la tua prova sia più grande della mia”. “Ma va’”. “Certo, sarebbe stato meglio il contrario”. E io, sorridendo perché già incredibilmente confortato dal miracolo appena visto, le dico: “È proprio vero, soprattutto per i bambini”. Questo è stato senza dubbio uno dei più bei momenti dei diciassette anni (dodici di matrimonio e cinque di fidanzamento) passati insieme. Se non il più bello». Con una consistenza così si può guardare tutto, fino alla soglia del destino.
Noi abbiamo un testimone a cui non è stato risparmiato alcunché: don Giussani. «Mia forza e mio canto è il Signore» (Es 15,2): «Mentre diciamo così, non diciamolo con gli occhi sbarrati e riempiti della presenza degli altri! Ma diciamo questa parola, ripetiamo questa frase con negli occhi la presenza di Cristo, che è la verità di tutto quel che c’è qui, la verità ultima di tutto quel che c’è qui: “Ogni cosa in Lui consiste”. [...] “Mia forza”, perciò mia arma di battaglia, e “mio canto”, vale a dire mia dolcezza che rimane nella battaglia, bellezza che mi trascina nella battaglia, che mi dà sostegno nella battaglia, durasse un’ora o durasse cento giorni. Anzi, c’è la battaglia che è tutta la vita. Che nel vivere io tenga presente Gesù! Questo l’amicizia nostra ci promette: un aiuto a incrementare, ad avanzare, a camminare dentro questa memoria, Dio santo! È una promessa dentro ogni battaglia - mentre c’è la battaglia, attraverso tutto il tempo della vita che sia lotta e fatica - a entrare sempre di più dentro il Tu; perché il “Tu” è a un presente: “Mia forza e mio canto sei tu”. Ecco, che questo Tu coincida con la Sua faccia, coincida col Suo nome. Nome: è una presenza in tutta la sua forza e suggestività, potenza e dolcezza» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, pp. 184-185).
Così - con questo negli occhi - possiamo disporci a iniziare il prossimo 11 ottobre, nella grande compagnia di tutta la Chiesa, l’Anno della Fede che il Papa ha voluto indire per «riscoprire e riaccogliere questo dono prezioso che è la fede, per conoscere in modo più profondo le verità che sono la linfa della nostra vita, per condurre l’uomo d’oggi, spesso distratto, ad un rinnovato incontro con Gesù Cristo via, vita e verità» (Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, op. cit.).
TESTO IL MIO VOLTO:
Mio Dio, mi guardo ed ecco scopro
che non ho volto;
guardo il mio fondo
e vedo il buio senza fine.
Solo quando mi accorgo che tu sei,
come un eco risento la mia voce
e rinasco come il tempo dal ricordo.
Perché tremi mio cuore? Tu non sei solo,
tu non sei solo;
amar non sai e sei amato, e sei amato;
farti non sai e pur sei fatto, e pur sei fatto.
Come le stelle su nei cieli,
nell'Essere tu fammi camminare,
fammi crescere e mutare, come la luce
che cresci e muti nei giorni e nelle notti.
L'anima mia fai come neve che si colora
come le tenere tue cime, al sole del tuo amor.
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