Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo XI, Rizzoli, Milano 2010, pp. 153-165.
• Il viaggio
• Ojos de cielo
Quello che abbiamo cantato è quello che occorrerebbe imparare questa sera. «Tu ascoltavi tutti parlare, poi ci parlasti di te, di quel mondo lontano, lontano, lontano ma vero. Poi caddi nel tranello dell’odio e del potere», e comincia a fare la strada: «Il sole del mattino mi trovò sulla strada a rincorrere il tempo che avevo perduto. Ho attraversato i monti, ho attraversato il mare e ora voglio con te continuare il mio viaggio. Io ti cerco in tutte le case, a tutti parlo di te e quel mondo lontanolontano, ora [ora!], è sempre più vero!». La questione è questa: se strada facendo il mondo è sempre meno vero o la realtà, la strada, lo rende sempre più vero.
Sono stato ai funerali di Giovanni, il ragazzo universitario che è morto venerdì in un incidente stradale, qui a Milano; studiava veterinaria. Tutte le volte che celebro o partecipo a un funerale di un giovane mi commuove pensare ai genitori, che possono ricordare i momenti passati con i loro figli; e mi dico: che prova, che dolore! Come fa una persona a sostenere una cosa così, a non diventare matta? E l’unica cosa che dicevo è: Signore, abbracciali, solo la certezza in Te può sostenerli. Poi la mamma ha raccontato della tua telefonata, in cui tu le dicevi di avere la certezza
che il bene di cui lui è fatto segno ora è più grande del bene che aveva potuto dargli lei come mamma. Ho pensato: è proprio così. Ma, leggendo il decimo e soprattutto l’undicesimo capitolo de Il senso religioso, don Giussani dice che la sola esigenza del cuore è di per sé prova del fatto che c’è una risposta. E così io pensavo a quella mamma; il fatto di aver avuto il figlio per ventidue anni e il fatto di avere l’esigenza e il desiderio che suo figlio sia vivo è già prova che la risposta c’è. Ma io domando: è possibile a un essere umano – un papà, una mamma – sostenere questa cosa senza Cristo? È possibile che la ragione possa titanicamente affermare questo senza Lui, senza essere abbracciati?
Questa è una domanda decisiva, e su questo avete inviato delle lettere, perché tutti sentiamo l’urgenza di una domanda così. La sola ragione ci può sostenere davanti alle contraddizioni della vita? Questa è una domanda che dobbiamo tenere aperta, e spero che alla fine della Scuola di comunità, con il percorso che faremo, riusciremo a rispondere. Tutti – o almeno tanti – sono stati scossi dalla Scuola di comunità scorsa, quando ho fatto un’affermazione decisa: «Questo non è un problema di fede, è un problema di ragione».
L’ultima volta alla fine hai detto: «Tutto ciò che c’è, in quanto è accaduto, in quanto il Mistero ha permesso che accadesse – perché tutto ha un’origine in quel Tu –, per il fatto che è accaduto, è una provocazione alla nostra vita, cioè un invito al cambiamento, è un’occasione di un passo verso il destino, è per noi, è via, è strumento del nostro cammino, è segno, diciamolo: la realtà è segno.
Questa è la natura ultima della realtà, e quello che la crisi mette davanti a tutti è questa sfida, a noi e agli altri, perché la sfida è per tutti». E poi venerdì, ad Assago, hai detto: «La positività si rivela solo a chi accetta questa sfida». A me queste righe hanno aperto un mondo che prima non guardavo così e che adesso inizio a guardare. Che la positività della realtà non coincida con ciò che è gradevole o desiderabile, questo l’avevo presente; ma adesso tu ci stai portando dentro una cosa a me nuova, nuova. Ho tanti esempi; l’ultimo che volevo raccontare riguarda l’incontro con una ragazza che un amico mi ha segnalato perché ha perso il lavoro, una ragazza appena diplomata che mi dice che è stata bocciata in quarta superiore. Io butto lì una frase di circostanza:
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«Guarda, beh, non è uno dei problemi più grandi della vita». E lei mi dice: «No, io dalla bocciatura sono stata salvata!». Ho fatto un salto sulla sedia, perché la bocciatura, per un ragazzo delle superiori (sei in quarta, devi ritornare lì, i tuoi compagni vanno avanti), è un inciampo, una circostanza non gradevole – non certo drammatica come quella che abbiamo appena sentito descrivere, ma comunque non desiderabile –; e lei mi dice, tranquilla, che è ciò che l’ha salvata.
Non voleva tornare in quella scuola, ma ci è tornata per insistenza della mamma, e lì ha incontrato dei nuovi compagni, un ambiente dal quale lei è stata spalancata. E poi mi dice: «Io, prima di quella bocciatura, ero disoccupata con la vita, e da quel momento tutte le circostanze in cui mi sono imbattuta da lì in poi [da lì in poi], belle o brutte, non hanno fatto altro che spalancare, che aumentare la mia vivezza». E qui viene la questione: che cosa è positivo? E questo è oggettivo: non
qualcosa che per forza è gradevole, ma qualcosa che mi fa conoscere sempre più qualcosa di me e del Mistero, dello scopo per il quale ci sono.
Dopo ci torniamo su.
A me è accaduto questo fatto. Un mese fa vengono alcuni amici romagnoli a cena a casa mia con altre famiglie. Tra queste ci sono i genitori del bambino di cui parlava il Tracce di ottobre: non doveva neanche nascere per una grave malformazione; non solo è nato, ma compie quasi cinque mesi. Qualche giorno fa un’amica che era venuta a casa nostra mi manda un messaggio e mi racconta quello che le era accaduto il giorno prima, cioè che una coppia di loro amici li aveva chiamati, lei e suo marito, urgentemente, sembrava una cosa gravissima; insomma, il mondo gli
era crollato perché aspettavano il quarto figlio: problemi economici, età, di icoltà. Questa amica mi scrive e mi dice: «Io ho dovuto scegliere; potevo fare il solito discorso giusto su come stare di fronte a questa cosa, e invece ho scelto di raccontargli il contraccolpo che avevo vissuto io incontrando quei genitori, e li ho invitati a leggere l’articolo su Tracce. Qualche giorno dopo
questi amici mi richiamano, io vado a trovarli e li trovo che erano completamente diversi da tre giorni prima, avevano una crepa che tre giorni prima non avevano, si era aperta una crepa dentro il loro solito modo di guardare la realtà (e anche questa nuova gravidanza)». Mi sono domandato: cosa vuol dire che questa malattia, questo dramma di questi due genitori rispetto a questa diagnosi sul figlio è positiva? Perché hanno introdotto una sfida, una novità in me e nei loro amici che è
arrivata come un passaparola, come una novità di sguardo diverso sulla realtà, fino a questi due che neanche conosco, non so neanche chi sono, se sono cristiani o no.
In che cosa consiste la novità di questo sguardo?
La novità di questo sguardo è, come lei me l’ha raccontata, che si era introdotta in loro una possibilità che prima neanche potevano immaginare, che cioè questo nuovo bambino fosse un dono per loro. Questo lei l’ha letto nel loro sguardo tre giorni dopo, mentre tre giorni prima leggeva solo il soffocare, solo una definizione ridotta della realtà, compreso quel bambino.
Grazie.
A me ha colpito molto quando, all’incontro di venerdì ad Assago, tu, in maniera anche molto impetuosa, hai affermato più volte che la realtà è positiva perché c’è, sulla scia di quello che dice il decimo capitolo de Il senso religioso: «Il primissimo sentimento dell’uomo è quello d’essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende». Leggendo il capitolo undicesimo, l’ho sentito molto consono alla mia esperienza, perché le giornate sono piene delle esigenze che sono descritte lì; però capisco anche che io, tante volte, in nome dell’esigenza che affiora in me, faccio fuori il dato della realtà. Per esempio, in nome dell’esigenza di giustizia faccio fuori chi mi fa un’ingiustizia, mentre invece tu non ti sposti nel percorso dal primo punto, cioè dal primo paragrafo del decimo capitolo che descrive il dato oggettivo della
realtà. E quindi mi sorge la domanda: perché io, invece, mi sposto?
Mi premeva ascoltare queste testimonianze perché adesso possiamo capire che cosa è a fuoco. Leggo questa lettera, perché riassume gli elementi che sono venuti fuori: «Caro Julián, ti scrivo perché è da un po’ di tempo a questa parte che stai gridando ad alta voce – e lo hai fatto anche
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all’incontro di venerdì scorso sulla crisi [al Forum di Assago, non soltanto qui, nel nostro cortile!] – che la realtà è positiva perché c’è. Rispetto a tutta questa insistenza mi è nata una domanda: io mi accorgo, per la mia esperienza, che uno sguardo così sulla realtà, il cominciare a percepirla come una cosa positiva mi viene solamente dall’incontro. Solo da quando ho incontrato Cristo ho incominciato a percepire questa cosa, perché prima per me la realtà è sempre stata una gabbia, dallo
studio ai problemi della mia famiglia; solo nel momento in cui io ho incontrato Ciò che veramente corrisponde al mio cuore, ho cominciato anche a pormi in maniera diversa rispetto a quel che avevo davanti. Perciò, in sintesi, capisco che il punto della questione è Cristo, non la realtà. Tu ci hai detto che su questo punto, su questo uso allargato della ragione, sul fatto che la realtà è positiva perché
c’è, noi possiamo sfidare tutti. E allora ti chiedo: come è possibile questo? Come è possibile che io dica a un mio amico che soffre che la realtà è un’occasione senza che costui abbia mai conosciuto Gesù? Uno può arrivare a guardare la realtà come descrive don Giussani ne Il senso religioso senza avere incontrato Gesù? Forse non ho capito quello che stai dicendo in questo ultimo periodo. Per questo desidero che tu mi aiuti a chiarificare questa cosa». Insomma, sembrerebbe che tutto si risolva dicendo: “Gesù”. Ma guardate cosa dice subito dopo, come se non avesse niente a che
vedere con quello che ha appena scritto: «Ma ti volevo dire una cosa. Io non riesco a non sentire il fastidio che provoca in me l’affermazione “la realtà è positiva”. Questo per l’influsso del potere per cui io sempre sono tentato di ridurre la parola “positiva” a “desiderabile” o “gradita”, come ci hai detto tu; eppure, io proprio non ci riuscirei a gridare questa cosa come stai facendo [la potremmo dire tra di noi, nel nostro cortile, nel nostro oratorio, ma gridarla a tutti, no!] perché rompe
totalmente la misura, la mia misura [non lo può dire perché rompe continuamente la sua misura]. Ancora penso che la positività del reale dipende dal fatto che le circostanze siano buone o cattive [come tutti, e allora uno si domanda: a che cosa serve Cristo?]. Non riesco a scrollarmi del tutto di dosso questo retropensiero che riemerge ogni volta io sento dire che “la realtà è positiva”». Questa è
una fotografia del nostro problema! Senza la fede non posso dire: «La realtà è positiva», ma una volta che ho la fede, basta dire: «Cristo»?! Ma per noi che cosa significa dire: «Cristo»? Che cosa è Cristo? Una consolazione? È soltanto un tranquillante? Guardate che frattura tra Scuola di comunità e vita, tra quello che diciamo qui e quello che possiamo dire sulla piazza pubblica. Allora
incominciamo a mettere a fuoco che cosa non abbiamo ancora capito – non importa, capiremo, non vi preoccupate – dal 26 gennaio: che cosa è la fede, cioè che cosa è l’incontro con Cristo per ridestare tutte le esigenze dell’uomo. Vediamo che c’è una modalità di vivere e di concepire il rapporto tra Cristo e la ragione come giustapposte. E in che cosa si vede che sono giustapposte? Che dire: «Cristo» non coincide con un uso della ragione che mi consenta di dire che la realtà è positiva
(«Sento tutto il fastidio davanti a questa affermazione»!). Ma in molti pensate che è perché non dite: «Cristo». E invece no, questo amico dice «Cristo», e così ha fotografato la questione. Tante volte mi son sentito rimproverare che io parlo della ragione e non di Cristo – questo amico sta parlando di Cristo –, o che io parlavo del cuore e non di Cristo – questo amico sta parlando di Cristo –; ma c’è una modalità di parlare di Cristo che è perfettamente inutile per la vita! Non è che non si parli di Cristo, ma Cristo è affermato senza che qualcosa succeda nel soggetto, nel suo rapporto con il reale.
Attenzione: qui non stiamo affermando che si può vivere la realtà senza Cristo – ci mancherebbe! –; il problema è che cosa intendiamo per fede, perché vediamo che c’è una modalità di dire: «Cristo» che è perfettamente inutile, perché non è in grado di togliere il fastidio e, come lui dice, «non è in grado di rompere totalmente la mia misura». E che cos’è la “misura” se non la ragione come misura? E a cosa conduce vivere la ragione soltanto come misura? Al fatto che io vivo e mi rapporto alla realtà come tutti, e non riesco a concepire che la positività del reale non possa
dipendere dal fatto che le circostanze siano buone o cattive: «Non riesco a scrollarmi del tutto di dosso questo retropensiero che riemerge ogni volta io sento dire che “la realtà è positiva”». Cioè c’è una modalità di parlare della fede, c’è una modalità di parlare di Cristo, che non è in grado di allargare la ragione, e quindi tutto dipende da quando la realtà coincide o non coincide con la mia
misura. Quando la realtà va oltre la mia misura, quando la sfida della realtà va oltre la mia misura, è cattiva. Noi sappiamo qual è la vera natura della ragione, l’abbiamo imparato da sempre ne Il senso
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religioso: questa apertura alla totalità, che tutto il capitolo decimo ci documenta e l’undicesimo capitolo ancora di più, quando parla del positivismo, del segno, delle esigenze. Ma questa apertura, come vediamo, non regge e si chiude. Quell’impeto con cui uno nasce dal seno di sua madre, quella curiosità infinita del bambino, viene meno. Per questo il 26 gennaio abbiamo detto che è soltanto Cristo che svela il senso religioso, lo educa e lo salva, e che senza questo, senza che Cristo lo sveli,
lo educhi e lo salvi, il nostro senso religioso (cioè la nostra ragione, la nostra libertà, la nostra affezione) viene meno. Allora abbiamo detto che Cristo è l’unico che può salvare il senso religioso perché è soltanto Lui che ritorna a spalancare l’io, tutta l’esigenza dell’io. Allora, in che cosa sappiamo che c’è Cristo? Sappiamo che c’è Cristo non perché diciamo: «Cristo» – come tante volte
lo diciamo, nominalisticamente, e non si vede, non Lo si può riconoscere –; sappiamo che c’è Cristo, che Cristo è all’opera in mezzo a noi, perché è in grado
di risvegliare il senso religioso, cioè la ragione, la libertà e l’affezione.
E per questo il senso religioso è la verifica della fede, dell’incontro
accaduto, perché c’è una modalità di parlare del cristianesimo in cui
in fondo non succede niente, tanto è vero che non è in grado di scalfire neanche un istante la ragione o l’affezione. Perciò non capiamo quando diciamo
– non è un altro slogan, mi raccomando! – che il cristianesimo è un avvenimento.
Perché la domanda è: che cosa succede nell’io quando avviene il cristianesimo? Succede qualcosa che è utile per la vita, per il rapporto con il reale, oppure
non succede niente? O succede soltanto un sentimentalismo superficiale, tanto
che un istante dopo ritorniamo alla misura di prima? Veramente Cristo è in grado
di risvegliare l’umano? E che cosa è l’umano? I capelli? Ti si rizzano i capelli?
O è la ragione, la libertà e l’affezione? Allora non stiamo parlando della
ragione fuori dell’avvenimento cristiano, ma stiamo facendo la verifica se l’avvenimento cristiano è in grado di farci usare la ragione così, di
risvegliare la ragione così.
Proprio per questo continuo a dire che è un problema della ragione.
E non perché la ragione possa essere vera ragione senza l’Avvenimento, ma
proprio perché è quel che salva la ragione! E per questo alla Giornata
d’inizio anno, rispondendo alla domanda: «Dove nasce e come si realizza una
ragione così?» (era tutto qui), rispondevo: «Una ragione capace di riconoscere
il reale in tutta la sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento
cristiano [sto forse parlandone senza Cristo?].È in forza dell’avvenimento
cristiano che la ragione compie la sua natura di apertura davanti allo svelarsi stesso di Dio. Si capisce perché don Giussani dice che “il problema
dell’intelligenza è tutto dentro” l’episodio di Giovanni e Andrea […].
Per questo motivo il 26 gennaio scorso […] abbiamo iniziato ricordando che “il cuore della nostra proposta è [...] l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso”». E come so che è successo questo, in che cosa si vede? O è soltanto un’affermazione a vanvera? È un nominalismo? Se stiamo dicendo che il cristianesimo è un avvenimento, in che cosa posso riconoscere che accade? Perché non sto dicendo un pensiero, non sto dicendo un sentimento, non sto dicendo uno stato d’animo: sto dicendo un avvenimento! E mi
domandavo: da che cosa si vede che è entrato nella nostra vita? E citavo ancora don Giussani: «Dal fatto che “questo avvenimento – dice don Giussani – resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di ‘senso religioso’” […]. Questo è il motivo per cui l’avvenimento cristiano rende l’uomo uomo, cioè più in grado di vivere secondo le sue evidenze originali, più in grado di essere colpito dal reale, di vivere la realtà secondo la sua verità, perché capace di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità della realtà. Solo una “ragione aperta al linguaggio dell’essere” […], come ha appena detto il Papa in Germania, può raggiungere il reale». Allora, se per noi dire «fede», dire «avvenimento cristiano»,
non significa un uso della ragione nuovo, che cosa vuol dire? Non siamo dei visionari, perché finalmente possiamo usare la ragione secondo la sua natura. Se il nostro cristianesimo, come dice don Giussani, è un cristianesimo senza senso religioso (come può succedere), cioè senza che spalanchi la ragione, ci troviamo ad affermare Cristo nelle nostre pratiche di pietà, ma continuando a essere razionalisti nella vita. Cioè: la frattura tra il sapere e il credere rimane intatta. Questo non è
un problema per gli intellettuali, no, perché io, quando la realtà mi appare in una certa modalità, non
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ci sto più, non riesco a continuare a dire che la realtà è positiva; perché quando dico che la realtà è positiva, questo vale soltanto se lo posso dire razionalmente, altrimenti non potrò mai scrollarmi di dosso il retropensiero che, in fondo in fondo, mi sto solo autoconvincendo. E allora se non abbiamo il coraggio di dire a noi stessi che la realtà è positiva, figuratevi se lo abbiamo per aprire bocca e dirlo a un altro! Capite che così il nostro contributo come cristiani è perfettamente inutile? Perché se noi continuiamo a vivere la realtà come tutti, che cosa importa agli altri quel che facciamo la domenica mattina a messa o il mercoledì sera qui? È perfettamente inutile. Allora qui si capisce quello che ci ha detto un intervento di questa sera: quando una persona si trova davanti a uno che vive in un modo diverso e nuovo davanti a un figlio con malformazioni, lì si apre una crepa nel
solito sguardo, cioè si spalanca la misura, si apre una possibilità. Che cos’è aprirsi alla possibilità? Che cosa ci ha insegnato don Giussani della ragione? Che è salvare la categoria della possibilità.
Senza di questo non c’è la ragione. Perché la ragazzina diceva: «La bocciatura mi ha salvata»?
Perché l’ha spalancata, ha aperto di nuovo le finestre del suo bunker, chiuso sul suo positivismo e sulla sua misura. Allora non è diverso il capitolo decimo dall’undicesimo. Leggo a pagina 155: «Il
segno quindi è una esperienza reale che mi rimanda ad altro. Il segno è una realtà il cui senso è un’altra realtà». Realtà e realtà! Non realtà e virtualità, ma realtà e realtà! Una cosa virtuale può generare una cosa reale? No; per spiegare una realtà occorre un’altra realtà. Se questo don Giussani lo dice all’inizio, immaginate cosa dice rispetto a ogni esigenza: ogni esigenza ha bisogno, proprio
per questa natura di segno, di trovare un’altra realtà senza la quale non ci sarebbe, non si spiegherebbe. Facciamo l’esempio della giustizia. Qualche mese fa, scrivendo la prefazione al libro Esperienza elementare e diritto di alcuni amici giuristi, mi era capitata tra le mani l’intervista al filosofo Paolo Rossi. Con tutto quello che ha scritto, in un certo modo, la sua impostazione
razionalista non è riuscita a chiudere il cerchio. In che cosa? Dice: «Non me ne importa niente della prova dell’esistenza di Dio. Però ho questo sasso sullo stomaco: non accetto volentieri l’idea che il carnefice e la vittima scompaiano insieme nel nulla». Che cosa ci dice questo? Che l’esigenza di giustizia che ha quel professore è di una tale natura che non riesce a risolvere la partita. E questo non accade soltanto all’inizio della vita o all’inizio del rapporto con la realtà, perché quanto più uno sente l’esigenza della vita, tanto più si rende acuta l’esigenza. Per questo l’esigenza è proprio ciò che ci impedisce – e così rispondo all’ultimo intervento di questa sera – di spostarci dal reale.
Guardate cosa dice don Giussani, in una battuta, a pagina 159: «Senza la prospettiva di un oltre la giustizia è impossibile». E lo stesso dice sulla felicità, poco sotto: «Non sarebbe uno sguardo razionale e umano alla esperienza di questa esigenza [quid animo satis?], se non leggendone l’implicato riferimento ad Altro». Vale lo stesso rispetto all’amore o rispetto al vero, anzi, sarebbe
un assassinio dell’umano, sarebbe un ritirasi dalla realtà se uno vi rinunciasse. Perché quanto più uno va avanti tanto più vede che – lo dice a pagina 161 – «il mondo “dimostra” qualcosa d’Altro, dimostra “Dio” come un segno dimostra ciò di cui è segno». Allora, come fare questa strada?
Avevamo detto che senza accettare la sfida del reale questo non si svela, perché il significato, cioè la positività della realtà, si svela soltanto a chi, sostenuto in un uso della ragione così, accetta la sfida del reale. Ma noi tante volte, prima che si sveli, già siamo lontani mille miglia, perché non accettiamo la categoria della possibilità, che nel reale c’è una promessa che si svela secondo un disegno che non è il nostro. Ascoltate che cosa dice questa lettera, rispondendo positivamente alla sfida: «Carissimo amico Julián, non posso e non voglio più sottrarmi alle tue provocazioni, e non posso e non voglio più sottrarmi alla sfida continua, insistente, ma così piena di carità, che lanci senza sosta ormai da mesi al mio cuore. Per questo, così messa alle corde, ti dico: sì, Cristo è l’unico che permette all’uomo di reggere gli urti della vita. Il cristianesimo è l’avvenimento accaduto a me, per me, che mi ha fatto riscoprire e ritrovare una stoffa umana [il risveglio dell’umano è ciò in cui si dimostra che Cristo è accaduto] di cui non immaginavo neanche che il mio cuore e la mia ragione potessero essere capaci [per questo quando uno parla in certo modo della ragione è perché non sa che cosa è, né quale novità succede nella ragione quando avviene Cristo]. Cristo, il mio Cristo, è l’unico che può sostenere la mia vita, qualsiasi sia il volto della realtà nella
quale mi imbatto. A me è accaduto di accorgermi [perché non è un problema di dimostrazione: è un
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accorgersi] di tutto questo spettacolo di umanità passando proprio attraverso il dramma della crisi vissuta sulla mia pelle per problemi di lavoro. Non ho nulla da difendere, per cui non mi vergogno a dirti che ho avuto un periodo in cui arrivavo a casa distrutta dopo una giornata di lavoro, perché il filo conduttore sembrava essere dettato solo dal cosa ne sarebbe stato di noi, e io avevo paura. Sì, ero spaventata all’idea di perdere il lavoro, ero preoccupata del mio futuro, del futuro della mia
famiglia, dei miei figli, e ho scoperto quale senso tremendo di angoscia, quale depressione può impadronirsi del nostro cuore quando ti chiedi: e adesso cosa faccio? Sono così impotente? Possibile che non posso far nulla io [non le viene risparmiato niente, è così umanissima la strada, niente visioni, niente soluzioni magiche, attraversando il buio: vi interessa?]? Messa così tanto alle strette perché, come dici tu, il Mistero non ci ha voluto risparmiare neanche la crisi, mi sono lasciata aiutare solo da una cosa, dalla mia domanda [cioè dalla esigenza], dal mio bisogno di una risposta che mi aiutasse a mettere i piedi giù dal letto la mattina senza farmi prendere solo dal nodo alla gola, ma cercando il senso, una risposta in quello che avrei dovuto affrontare. Ecco, qui è stato il punto della mia rinascita umana, perché con un cuore così assetato ho graffiato e scavato con le mie mani quello che mi sembrava solo una realtà piena di fango, nella speranza di trovare un granello di tesoro. Cercando così, domandando così, sono arrivata per grazia ad accorgermi che la realtà mi parlava, che Cristo mi stava parlando dentro la realtà, e ho cominciato a seguire i segni. Seguivo e mi lasciavo condurre; seguivo ed ero portata in braccio e più seguivo, più diventavo capace di leggere i segni, di comprendere il linguaggio dell’essere. Mamma mia, che impressione, che
tremore quando me ne sono accorta, e che commozione ora nel dirtelo. Ma il bello è venuto ancora dopo. Tutto questo stupore non è svanito, non si è sgonfiato [un istante dopo il sentimento è passato], ma si è “saldato” nel mio cuore quando ho capito, ascoltandoti alla Giornata d’inizio anno, che tutto questo regge solo se il mio cuore si innamora di quel Volto che la mia ragione era appena stata costretta a riconoscere nella realtà. Lì ho capito che mi stavo innamorando del Mistero. E,
quando ti innamori, l’unica cosa che desideri è di amare sempre di più, di andare sempre di più a fondo di quel rapporto, di starci il più possibile, e che possa diventare per te sempre più familiare, intimo e tuo, e vorresti essere impastato con Lui, sempre più simile a Lui, e guardare tutto con i Suoi occhi. Sai cosa mi è accaduto? Che mi sono guardata e mi sono ritrovata addosso un desiderio di amare, con dentro un’intensità eccezionale per me, e sto insistendo con i miei amici su questo, e mi rendo conto che non siamo abituati a guardarci così, ad amarci così, con questo rispetto profondo per cui, mentre guardi il volto di un amico, guardi Cristo con la coda dell’occhio. Ma tanto più affondo nei rapporti, tanto più mi ritrovo libera e non pretendo più nulla dagli altri perché sono così contenta io [poggiata su un pieno: non pretendo niente perché sono così contenta io!] di amare io così, di voler bene io così. Pensa, tutto questo sconvolgimento per il mio cuore partendo dalla crisi. Venerdì scorso, mentre ti ascoltavo al Forum di Assago, ero così commossa perché mi vedevo descritta nelle tue parole e tutto per me si chiariva, tutto ha ritrovato la sua unità nella mia vita. Non è che c’è il volantino e poi la Scuola di comunità, e poi la Giornata d’inizio anno; no, no, no, è tutto unito nel mio cuore perché si è svelato il Suo volto ai miei occhi, e ora non posso e non desidero
altro che amare Lui, il mio Cristo, e seguirLo, e vedere dove mi porta, e cosa mi ha riservato. E che emozione infinita e piena di rispetto nel pronunziare ora il Suo nome… Grazie Julián, grazie, perché prendendomi così per mano mi hai portato, e continui a portarmi, dentro Colui che solo può rendere lieto il mio cuore». Chiaro, mi sembra.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 30 novembre alle ore 21.30. Riprenderemo il dodicesimo capitolo de Il senso religioso, (L’avventura dell’interpretazione). Se nell’undicesimo capitolo si è soffermato sulla ragione (la parte finale del capitolo è la scoperta della ragione), lì entra in ballo l’altro grande fattore dell’umano, la libertà. Allora la questione è sorprendere in noi che
esperienza faremo della libertà in questi quindici giorni, così come la descrive, in che modo quello che ci è capitato nella vita è così reale, è stato così reale, che ci consente di essere liberi.
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A quanti desiderano inviare domande o brevi interventi all’indirizzo mail
sdccarron@comunioneliberazione.org, chiedo di farlo entro la domenica sera precedente il nostro incontro della Scuola di comunità.
Abbiamo il Volantone di Natale, che leggo; mi sembra che sia abbastanza pertinente.
«La ragione dell’uomo porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre”. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro [noi non useremmo la ragione così, non Lo desidereremmo, non ci metteremmo in cammino se non ci fosse già venuto incontro]. In Lui
trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione».
(Benedetto XVI, Porta fidei, lettera apostolica per l’Anno della fede).
«Cristo non è “qualcosa” di giustapposto, ma è “qualcosa ‘dentro’”: dentro la tua gioia, dentro la tua stanchezza, dentro la tua connivenza o la tua convivenza, dentro la tua repulsione o dentro la tua simpatia. La coscienza del Mistero presente rende la nostra vita un flusso continuo di novità. Con il riconoscimento di questa drammatica presenza, con questa presenza in cui abita corporalmente la divinità, “inizia” qualcosa di nuovo: oggi, alle undici, all’una, alle sei, alle dieci; domani, alle tre, alle quattro. In qualsiasi momento inizia qualcosa di nuovo».
(Luigi Giussani).
Sarà disponibile la prossima settimana.
Quartino di giudizio di CL «La crisi sfida per un cambiamento».
Suggeriamo alle varie comunità di organizzarsi per proporre incontri pubblici riprendendo i contenuti e utilizzando in proposito anche la mostra 150 anni di sussidiarietà, perché è un complemento meraviglioso per mostrare che quello che si dice nel volantino è perfettamente ragionevole, perfettamente realistico perché tutta la storia dell’Italia lo documenta (come si vede nella mostra) anche in tempi molto più duri di quello che viviamo.
Annuncio che ci sarà un incontro pubblico (come quello che abbiamo fatto a Milano) a Roma, con Giorgio Israel, Antonio Polito e me, giovedì 17 novembre.
Ogni anno riproponiamo due gesti di carità che sono di grande portata:
la Giornata nazionale della “Colletta Alimentare” che si terrà sabato 26 novembre, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare;
la Campagna Tende di Avsi, che quest’anno avrà come titolo «Alla radice dello sviluppo: il fattore umano», a sostegno di progetti, soprattutto educativi, di aiuto in Kenya, Haiti, Egitto e Congo.
Sono molte le persone che incontriamo e che rispondono spontaneamente alla Colletta, e anche altre che si coinvolgono per un impeto di generosità e di gratuità. È diventata una caritativa nazionale, quasi il gesto di caritativa del popolo italiano, ma tanti hanno questo impeto e non ne sanno la ragione. Allora, stando insieme durante la Colletta o durante i gesti della Campagna Tende, possiamo testimoniare l’origine, la ragione profonda di questi gesti che ci educano alla carità molto più di mille discorsi, perché le persone possano avere una ragione che renda questo impeto di generosità stabile, perché lo possano capire. Tra l’altro, la situazione di crisi che la realtà ci pone davanti rende ancora più evidente la ragionevolezza di questi gesti, anzitutto per una nostra educazione: dovendo chiedere a chi incontriamo di aiutare altri nel bisogno, possiamo essere più
consapevoli di tutto quanto abbiamo ricevuto e riceviamo; e poi possiamo scoprire come questi gesti possono educare un popolo ad allargare l’orizzonte alle necessità di tutti.
Attraverso questi gesti possiamo introdurre anche al fatto che il bisogno che abbiamo è di qualcosa di più grande, e se noi partecipiamo alla Colletta e alle Tende, non è per riempire il vuoto con un gesto generoso che poi ci lascia più scettici di prima, ma è per un pieno su cui siamo poggiati e per la gratitudine di aver trovato la risposta a questo bisogno.
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Lasciar perdere questi due momenti educativi per le nostre comunità sarebbe davvero un peccato!
Veni Sancte Spiritus
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