sabato 19 novembre 2011

Cosa resta quando tutto crolla. Crisi non è necessariamente sinonimo di catastrofe

Stralci dell’intervento di Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, pronunciato il 17 novembre al Teatro Capranica di Roma durante l’incontro «La crisi sfida per un cambiamento». All’incontro — introdotto da Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Comunione e Liberazione — hanno partecipato anche Giorgio Israel e Antonio Polito.

«E Dio vide che (…) era cosa buona (…) era cosa molto buona». Questa affermazione, ripetuta ben sei volte nel primo capitolo della Genesi, esprime la convinzione fondamentale del popolo d’Israele sulla realtà: è buona, anzi molto buona. Come può Israele avere una convinzione così certa della positività della realtà dopo che tutta la sua storia è stata attraversata da sofferenze, tribolazioni e travagli di ogni genere?

Questo atteggiamento sorprende ancora di più, se lo collochiamo nel contesto culturale dei popoli vicini. Infatti, l’esperienza del dolore aveva portato gli altri popoli a una ben diversa convinzione: che, cioè, la realtà non è tutta positiva. È quello che esprime il manicheismo: ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, che si riverberano in una creazione buona e in una cattiva. Come mai questa visione manichea non ha preso il sopravvento anche in Israele? Soltanto a motivo della sua storia.
L’esperienza che il popolo d’Israele ha fatto di Dio, pur in mezzo a tutte le sue tribolazioni, è stata così positiva che non ha potuto che affermare la Sua bontà. Dio si è rivelato con tutta la sua potenza salvatrice. E da questa esperienza hanno concluso: Lui, il salvatore, è anche il creatore. C’è solo un unico principio buono all’origine di tutto. Dunque, la realtà è positiva. È stata la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo che ha educato gli ebrei a guardare la realtà nella sua verità.
Ma quello che più colpisce è che questa positività della realtà il popolo d’Israele l’ha veramente compresa proprio nel momento della crisi. Con la perdita del tempio, della monarchia e della terra, andando in esilio, Israele è stato spogliato di tutto quanto identificava come il fondamento della sua fede. È Isaia che Dio manda in soccorso del suo popolo per aiutarlo a guardare bene la realtà che ha davanti: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose? Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, che ha creato i confini della terra» (Isaia, 40, 12s., 26-28).
Quando tutto crolla, c’è qualcosa che permane: la realtà e gli occhi educati per guardarla. Col volantino «La crisi sfida per un cambiamento», firmato da Comunione e Liberazione, vogliamo aiutarci a guardare la realtà a partire dalla nostra esperienza. Si tratta di un giudizio sulla situazione in cui siamo immersi, che rischia di far crollare l’Italia e l’intera Europa. Davanti a questo dato ciascuno è chiamato a prendere posizione. La chiave di volta è sintetizzata dalla frase: la realtà è positiva. Ma è vero che la realtà è positiva? Questa è la sfida che noi vogliamo lanciare a tutti, a noi per primi, perché siamo immersi in una situazione che ci offusca, per cui non riusciamo a guardare bene il reale. Con questo giudizio non offriamo un’interpretazione della crisi valida per i soli cattolici, come a dire: “per noi” la realtà è positiva, perché la compagnia, il nostro stare insieme, ci “convince” a pensare così, a consolarci così.
La nostra pretesa è che si tratti di un’evidenza che tutti possono riconoscere. Anche a questo livello ci viene in soccorso Giussani: «Una positività di fronte alla vita, alla realtà, non la induciamo dalla compagnia (sarebbe una magra consolazione), ma ci è dettata dalla natura; la compagnia ci rende più facile accettare questo, anche attraversando condizioni brutte, situazioni complesse» (Luigi Giussani, Si può [veramente?!] vivere così?, Milano, Bur, 2011, pp. 292-293).
La realtà può essere percepita come positiva perché è positiva. È ontologicamente positiva la realtà. Perché? La realtà è positiva perché c’è. Tutto ciò che esiste c’è perché il Mistero ha permesso che accadesse, provoca e mette in moto la persona, rappresenta un invito al cambiamento, un’occasione di un passo verso il proprio destino. Ogni circostanza è strada e strumento del nostro cammino: è segno. In quanto c’è, la realtà è provocazione, e quindi occasione di risveglio dell’io dal suo torpore. Perfino la crisi, perché essa urge con le sue domande.

«Una crisi — dice Hannah Arendt — ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 229).
Ma l’irriducibile positività di cui parliamo non si rivela meccanicamente, bensì solo a chi accetta la sfida della realtà, a chi prende sul serio le sue domande, a chi non retrocede davanti alle urgenze del vivere. Quante testimonianze ci sono di persone per le quali le difficoltà sono diventate occasioni di cambiamento! Ciò che è successo è stato misterioso tramite per una ripresa del proprio io e per una comprensione più profonda della natura della realtà, che si pensava già di conoscere. La realtà è positiva per il Mistero che la abita. Ma che cosa occorre per cogliere questa positività? Un uso della ragione secondo la sua vera natura di conoscenza del reale in tutti i suoi fattori. La ragione, infatti, può cogliere la realtà come “dato” vibrante di un’attività e di un’attrattiva, come provocazione, e quindi come invito.
Eppure, se ci guardiamo intorno, vediamo che purtroppo questo uso della ragione è molto raro, quasi introvabile. Se la ragione non coglie questo mistero che costituisce il cuore della realtà, l’uomo cede alla tentazione di intendere in modo sentimentale o moralistico l’affermazione: «La realtà è positiva», come se significasse che essa è desiderabile e gradita, piacevole. Come mai accade questo?
Per la nostra fragilità e per il condizionamento del contesto culturale e sociale, per il potere che ci circonda, quando s’imbatte in una realtà che mostra un volto negativo e contraddittorio, la ragione, che pure è originalmente aperta al reale, indietreggia, trema, si confonde. E la realtà, da segno che spalanca, diventa tomba in cui tutti, tante volte, soffochiamo.
Esattamente a questa situazione drammatica il Mistero, entrando nella storia, è venuto a portare il Suo contributo decisivo. Cristo è venuto al culmine della storia del popolo d’Israele proprio per questo: ridestare il nostro io perché possiamo affrontare qualsiasi sfida. Cristo non si è incarnato per risparmiarci il lavoro della nostra ragione, della nostra libertà, del nostro impegno, ma per renderlo possibile, perché è questo che ci fa diventare uomini, che ci fa vivere la vita come un’avventura appassionante anche in mezzo a tutte le difficoltà, anche e soprattutto in tempi di crisi, quando tutto diventa questione di vita o morte, per non perdere la testa e l’anima. Cristo è diventato nostro compagno, mettendoci nelle condizioni ottimali per guardare la realtà secondo la sua vera natura, e non per fare di noi dei “visionari”.
In questa situazione si capisce la rilevanza epocale della battaglia, portata avanti nell’indifferenza generale da Benedetto XVI, per la difesa della vera natura della ragione, per «allargare la ragione», per una «ragione aperta al linguaggio dell’essere», cioè per un io in grado di affrontare qualsiasi sfida. Proprio a questo livello Cristo dimostra la sua eccezionalità: restituendo l’uomo a se stesso. Perciò un uso vero e compiuto della ragione è una verifica della fede, è la documentazione potente e inconfondibile del rapporto riconosciuto e vissuto con Cristo contemporaneo a ciascuno di noi.
Il cristianesimo non si aggiunge dall’esterno, come una sovrastruttura, come un pietismo, alla vita dell’uomo, ma chiarisce, educa e salva la natura stessa dell’uomo, ferita ma non annullata dal peccato originale. Se davanti al contesto attuale non viviamo la realtà nella sua vera natura, vuol dire che la fede non è vissuta nella sua autenticità, non è fede cristiana. Allora la fede è inutile. Invece, paradossalmente, la crisi può rappresentare la possibilità di verificare la convenienza umana della fede, la sua ragionevolezza. Se noi accettiamo questo lavoro, potremo riempirci di una tale ricchezza di esperienza da poterla condividere con tutti, e scopriremo in che cosa consiste l’incidenza storica dei cristiani.
Julián Carrón
da http://www.osservatoreromano.va
Testo integrale: http://www.clonline.org/articoli/ita/jcRoma171111.pdf

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