martedì 15 novembre 2011

Un nuovo patto di cittadinanza per i giovani europei


Di fronte alle incertezze della crisi

La crisi finanziaria ed economica che scuote l’Europa alle sue radici non potrà essere risolta solo con le necessarie misure contabili e fiscali per il risanamento dei bilanci. Tutte le democrazie europee, infatti, sono attraversate da conflitti sociali evidenti o latenti che influiscono in modo decisivo sulla formazione del consenso politico, fino a dividere, spesso in modo assai netto, le stesse forze politiche.
Ma la questione di fondo che attraversa la crisi europea è quella del rapporto intergenerazionale. Una questione che, nelle implicazioni e nella dimensione odierna, non ha precedenti nella storia dell’occidente.
Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi l’Europa ha conosciuto una grandiosa stagione di crescita e di sviluppo economico e sociale, che si è coniugato anche con una altrettanto straordinaria era di radicamento e diffusione della democrazia e dei diritti di cittadinanza. Milioni di cittadini tedeschi, francesi, inglesi, italiani, olandesi, e poi anche spagnoli, portoghesi, greci, hanno visto accrescere il loro benessere, il loro tenore di vita personale e familiare. A questi, più di recente, si sono aggiunti milioni di polacchi, ungheresi, cechi, rumeni e bulgari. Hanno potuto vivere con una migliore sanità, garantire la scuola a tutti i loro figli, godere di condizioni di lavoro più equilibrate e di maggiori diritti. Soprattutto ha dato stabilità e coesione alle società la scelta dei Governi di attribuire adeguate condizioni di garanzia sociale per l’età anziana, con pensioni per tutti, a volte anche assai convenienti rispetto a quanto si era monetariamente versato negli anni lavorativi. Alcuni economisti sono propensi a ritenere che le ragioni di questa generosità siano state solo causate dalla costante tentazioni dei Governi in carica a fare concessioni con la spesa pubblica ai propri elettori con il solo fine di mantenere il consenso elettorale.
Se si guarda però alle generazioni anziane oggi in vita — di chi, cioè, è nato tra il 1920 e il 1945, che in Europa costituiscono più del 10 per cento della popolazione — si deve porre in luce che queste persone sono in prevalenza nate sotto regimi totalitari, sono cresciute in un clima di forte costrizione sociale, hanno vissuto direttamente o tramite i genitori gli orrori della guerra, hanno dovuto lavorare in condizioni difficili e senza particolari protezioni sociali. Queste stesse persone, dopo la guerra, si sono rimboccate le maniche e si sono tuffate, di slancio, nella ricostruzione, assicurando condizioni di stabilità finanziaria ed economica ai loro Paesi.
La maggior parte degli anziani, dei pensionati con più di 65 anni, vive inoltre con assegni non superiori ai 1500 euro mensili, nella media europea. Non si può certo dire che questa sia una condizione di grande agiatezza. Semmai, la straordinarietà positiva di questa odierna condizione risiede nel confronto con le generazioni precedenti che avevano vissuto enormi stenti individuali.
Se ci si sposta a osservare la situazione della generazione nata subito dopo la guerra, tra il 1946 e il 1960, quella dei cosiddetti baby boomers, si può notare che questa ha potuto ancora di più godere dei benefici del welfare State. Per oltre mezzo secolo lo Stato sociale ha tenuto con solidità e forza, fino a creare un vero e proprio modello europeo, basato su di un insieme di diritti radicati. Un modello che, nelle sue interpretazioni migliori — come quello tedesco — non si fonda solo sulla spesa pubblica, ma ha saputo coniugare responsabilità sociali dell’economia e delle imprese, in un intreccio equilibrato di compiti.
La crisi finanziaria ed economica ha fatto però emergere taluni limiti di questo modello, specie quando la spesa pubblica diviene esagerata, o anche solo assistenziale, e ogni cittadino tende ad adattarsi passivamente, invece di concorrere a superare le difficoltà.
Qualche studioso, esperto di questi temi, tende così a ipotizzare che sia possibile tornare un po’ indietro, ovvero separare questo straordinario status di diritti che distingue i cittadini europei anche da quelli americani, e non solo da quelli asiatici o dei Paesi in via di sviluppo.
La principale ragione di queste posizioni risiede nella constatazione della attuale condizione dei giovani. Si tratta di una angolazione quanto mai giusta e opportuna. Infatti, le generazioni più giovani — di quanti cioè sono nati dopo gli anni Settanta, e oggi hanno tra i 16 e i 40 anni — vedono pericolosamente in crisi la loro condizione sociale, perché tutti gli Stati hanno elevati debiti strutturali. La strada pericolosa che molti Governi hanno intrapreso negli anni recenti, è stata quella di cominciare a ridurre le spese sociali, con un approccio conservativo verso le generazioni più anziane e di forte liberismo per le nuove.
I giovani, così, hanno così visto decrescere la loro influenza sociale. Circa un terzo dei giovani europei non è stabilmente inserito nel mondo del lavoro. Una buona parte di coloro che sono stati inseriti ha visto rapidamente diminuire le proprie prospettive sociali. I coefficienti di rendimento delle contribuzioni previdenziali sono, ovunque, diminuiti e le prospettive di sicurezza pensionistica e di reddito, ma anche di servizi sanitari, sono divenute più deboli e incerte. La maternità non è socialmente protetta e non ci sono adeguati incentivi per le famiglie.
Poco lavoro, insufficiente riconoscimento anche delle competenze di studio acquisite, debole status sociale e incerta prospettiva: questo è lo scenario di molti giovani europei. Il quadro è reso più incerto e confuso dal veloce invecchiamento delle popolazioni, dalla crisi economica che impaurisce la gran parte del corpo sociale, dalla contemporanea necessità strutturale di aprire le porte dell’Europa a una vera integrazione di parecchie decine di milioni di lavoratori stranieri.
Si manifesta, dunque, per i governanti europei, e per quelli dei singoli Stati nazionali, una sfida epocale: come far vivere il modello sociale europeo nelle generazioni più giovani e, ancor di più, come saldamente trasferirlo a quelle future? La vera tenuta dell’Europa si giocherà più su questi aspetti di fondo che sui differenziali di spread dei titoli dei diversi Stati.
Solo una prospettiva di creazione di nuova ricchezza può, infatti, rendere credibile la scommessa da affrontare. È una sfida che si può davvero vincere se si riuscirà a porre i problemi con grande chiarezza, a spiegarli ai diversi gruppi di interessi, ma anche alle intere comunità, a tutti i cittadini.
Si dovranno cancellare ingiusti privilegi in ogni campo, ma anche proporre misure di più intensa giustizia sociale. Si dovrà dare un po’ più di valore a ciò che di utile si può fare per gli altri, anche secondo le proprie capacità. Si dovrà recuperare almeno un po’ della profondità spirituale dei Padri fondatori dell’Europa comune, di quelle personalità illuminate, ma anche assai semplici, che pensavano la politica come un intreccio di idee e di costante coinvolgimento serio delle responsabilità e dell’impegno dei cittadini. Bisogna integrare le generazioni: un nuovo patto per rafforzare i legami sociali e nelle comunità locali, in un quadro di nuova cittadinanza europea. Per una vera ripresa dello sviluppo e della competitività è, infatti, necessaria una più forte coesione sociale. L’Europa, negli anni recenti, è stata incerta e slegata di fronte alle sfide che emergevano. Specie quei Paesi che sono in maggiore difficoltà hanno il dovere di proporre e di fare di più. Ci vorranno alcuni anni, ma è il momento di indicare la rotta, e di condividerla. La politica deve ritrovare il coraggio di guardare lontano, ben oltre il destino individuale di chi la interpreta.
http://www.osservatoreromano.va di Michele Dau

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