giovedì 24 novembre 2011

La possibilità di una vita come avventura

Appunti dall’intervento di Julián Carrón
alla Giornata d’inizio anno di Gs.
Mediolanum Forum, Assago (Milano), 29 ottobre 2011




ALL’ALTEZZA DEI PROPRI DESIDERI
Sono contento che sia arrivato così presto il tornante in cui rivedersi, per riprendere la strada in questo nuovo anno che abbiamo davanti a noi, che è una opportunità, come tutto quello che ci offre la vita,
una grande promessa che ciascuno può affrontare o lasciar perdere,
perché niente nella vita dell’uomo è meccanico e automatico, ma tutto è un dono, un’offerta, una proposta alla vita. E per questo la vita può
diventare una avventura o uno “schifo”.
Che cosa vuol dire prendere sul serio il bisogno di vivere, le esigenze che ribollono dentro di noi? Lo dice bene uno di voi in questa lettera che mi ha mandato: «Mi capita spesso di rileggere il saluto che hai
fatto al Triduo a noi ragazzi di Gs. Ogni volta nel rileggerlo sento risvegliarsi la mia natura, ciò che sono veramente: desiderio di bellezza, di giustizia, di amore e verità. Che grandezza questa domanda! Che
grandezza questa esigenza che mi ritrovo addosso tutti i giorni, momento per momento. Ma se è tanto grande questa esigenza, ancora più
grande è la letizia che mi pervade quando decido [ecco la decisione]
di starci dietro. E quale stupore nel sorprendermi la sera grato, ma allo
stesso tempo manchevole di una totale soddisfazione delle mie esigenze! Come se nemmeno la cosa più bella vissuta nel giorno o nella vita
sia in grado di soddisfarmi. Ed è così! E che gratitudine nel rendermene conto! Mi accorgo giorno per giorno di non essere esauribile da niente! Mi stupisco che questa mia esigenza non viene mai pienamente soddisfatta, mi accorgo che questa strada a tornanti mi dona tanto, ma che
d’altra parte prosegue e promette molto altro. Mi stupisco che l’uomo è tale solo nel desiderio, e quando non vuole desiderare, quando
si accontenta [quando decide di non prenderla sul serio], la sua umanità viene meno. Io stesso ho passato due settimane in questo stato di
soffocamento e oppressione, dovuto all’incapacità, da parte mia, di amare. Ora posso dire di essermi ripreso, ma voglio capire se quello che
ho ricavato da questa esperienza è giusto o se invece è un ulteriore sbaglio. Per due settimane mi ha accompagnato un insostenibile malessere. Mi sono accorto che in quei giorni non mi stavo domandando
il perché delle cose, ma semplicemente facevo quello che mi capitava
senza ascoltarmi, senza chiedermi cosa veramente desideravo. Così mi
sono trovato a fare sempre qualcosa di diverso da quello che volevo
fare, a non essere dove volevo essere, a non guadagnare mai nulla da
quello che vivevo, nemmeno quando era qualcosa di incredibile. Ecco
l’origine del mio stare male: il vuoto che si era creato nel trascurare
la mia domanda, la realtà che mi circonda e il rapporto tra questi due
fattori. Quanta amarezza in quei momenti! E davvero non mi sentivo più vivo e libero, ma soffocato e oppresso. Cioè: nel non dare spazio a quel che sono veramente, lentamente morivo. Basta solo un attimo in cui io smetta di amare, di desiderare, di esigere, di chiedere,
perché tutto questo malessere cominci a prendere forma; e togliermelo mi sembra impossibile. Poi però, d’improvviso, la domanda torna
a farsi sentire anche più forte di prima e, facendola interagire con la
raltà che la genera, cresce, e io riprendo a vivere, e mi sorprendo ad
amare ogni particolare della realtà, tanto da stare le ore a fissare i fiori sulla ciclabile mentre torno a casa (abito fuori città) o gli strani effetti della luce nel cielo. Così, come ho attenzione a questo, ho attenzione a mia madre (nonostante la tensione che c’è tra noi), alla scuola e a tutto quanto mi si presenta. Se quello che ho detto è vero – e ti
scrivo anche per sapere di questo –, riconosco però un fatto: di avere
bisogno di essere educato ad ascoltarmi [a prendere sul serio le mie
esigenze], ad amarmi e ad amare. Ciò che desidero infatti è di essere
sempre fedele a quella mia esigenza per non ritrovarmi mai perso.Voglio coltivare la mia domanda che riconosco essere la mia prima fonte di vita, ciò che mi fa muovere, che mi fa agire, che mi fa conoscere, che mi spinge a misurarmi con tutta la realtà. Non voglio negare
il dolore che riconosco come parte costitutiva della mia vita, ma voglio negare la nullità, quella nullità che rende davvero triste e povero
l’uomo. Mi accorgo di come a rendermi felice, a riempire il mio cuore, sia una domanda che non ottiene mai una risposta ultima, e chiedo di venire educato a non scordarmi mai di questa, ma di renderla
il centro del mio vivere. Tuo compagno di avventura».
Questo è un compagno d’avventura! Perché vuole vivere all’altezza
dei propri desideri. E perché vuole vivere all’altezza dei propri desideri? Perché altrimenti il malessere domina la vita, il vuoto e l’amarezza prendono il sopravvento. È soltanto quando questi desideri sono
vivi in noi che ci sorprende qualsiasi pezzo del reale. È proprio quanto più uno si rende conto di questo (che tutto il mistero della vita sta
nell’essere desti, nell’essere risvegliati nelle proprie esigenze, nella propria umanità) che, allora, uno capisce qual è il suo vero bisogno.
Ma chi può essere in grado di ridestare costantemente il mio io in
modo tale che io possa godermi la vita così, e non invece soffocare perché la realtà non sembra dirmi niente? L’unico che può ridestare costantemente il nostro io ha un nome: Cristo. Cristo è venuto – ci ha
sempre detto don Giussani – perché ha pietà per il nostro niente, per
questo venir meno nelle nostre esigenze, per questo essere travolti dal
torrente delle circostanze e degli stati d’animo. Cristo, vedendo questa nostra situazione – che la lettera citata all’inizio così efficacemente descriveva nel passaggio dalla gioia al disgusto –, ci vuole così tanto bene da dire: «Se non intervengo in loro aiuto, questi poveretti sono
travolti!».
Per questo don Giussani ci dice che Cristo è venuto per ridestare costantemente il nostro senso religioso, le nostre domande. Ricordate quello che abbiamo detto il 26 gennaio, alla presentazione de Il senso religioso: l’inizio della nostra proposta è l’avvenimento cristiano che ci
sorprende oggi così come duemila anni fa ha sorpreso i pastori a Betlemme. Perché è così decisivo l’avvenimento cristiano? Perché esso –
ci dice don Giussani – risuscita, riaccende, risveglia il nostro io, le nostre esigenze, il nostro desiderio di vivere, di godere, di amare, di implicarci nelle cose, potenzia questo senso religioso, questo insieme di
esigenze e di evidenze che la lettera che ho appena letto descrive. Rileggerete poi la lettera pezzo per pezzo, perché è tutto lì. Vivere questo introduce una letizia e una gratitudine senza fine; mentre quando questo viene meno, tutto diventa piatto.
Noi sappiamo che tante volte siamo stupiti: ci alziamo con la “luna
storta”, ma poi capita di alzare lo sguardo e vediamo un cielo stupendo, e tutto incomincia a migliorare. Ma poi decadiamo, come abbiamo sperimentato tante volte.Allora come possiamo aiutarci? Don Giussani dice che noi abbiamo bisogno di una educazione, perché altrimenti, se non siamo educati a rapportarci bene al reale, siamo come un sasso travolto dalle circostanze, portato di qua e di là senza rendersi veramente conto; e alla fine ci stufiamo. Per questo dice don Giussani:
«Noi non siamo abituati a guardare come presenza una foglia presente, un fiore presente, una persona presente, non siamo abituati a fissare come presenza le cose presenti» (L. Giussani, Milano 1 febbraio
1995, cfr. «Vivere sempre intensamente il reale», Tracce-Litterae communionis, n. 9, ottobre 2011, p.V). Per chiarire questo vi leggo una lettera che mi ha scritto un universitario di Roma: «Nel novembre dello scorso anno, ho avuto un incidente che mi ha costretto fermo a letto per più di tre mesi. È stata una grande fatica. Non mi potevo muovere, ero impossibilitato a qualsiasi attività, qualsiasi, non potevo nemmeno studiare a causa degli antidolorifici che prendevo, che mi impedivano qualsiasi attività che richiedesse un minimo di concentrazzione. Tre mesi a letto, fermo, immobile. Ricordo però che un paio di
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mesi dopo aver ricominciato a camminare, guardando delle foto di me
a letto con degli amici intorno, andai da mia madre e le dissi quasi
d’istinto: “Guarda che bella foto! Comunque, è stato proprio un bel
periodo!”. Riguardando indietro posso dire che, nell’immensa fatica
dello stare fermo a letto, in tutta la smania di voler presto rialzarmi in
piedi, c’era qualcosa che non mi rendeva infelice; anzi, ero ultimamente lieto nella fatica. Per due motivi. Il primo è che in tutto il dolore sono
stato sempre sostenuto, in un modo libero e gratuito […]. Mi accorgevo di una totale dedizione a me: totale e dettagliata. Il secondo motivo è che le cose, anche le più piccole, non erano più scontate: ero sorpreso per un piatto di pasta un po’ più elaborato, per la compagnia che
vedevo intorno a me, per il fatto che le mie sorelle prima di addormentarsi mi mettevano vicino al letto la padella per la notte, senza che lo
chiedessi. Fino ad arrivare, una mattina, mentre un’ambulanza mi portava in ospedale per alcune visite, a stupirmi di rivedere il cielo: io, che
ci fosse il cielo, lo sapevo già, ma finalmente mi ero accorto che c’era,
che era lì. [Quando uno se ne rende finalmente conto, per una volta
nella vita, capisce quante volte per lui il cielo non è stato presente] Non
facevo niente, non potevo fare niente, eppure, in tutto il dolore, in tutta la smania, non ero infelice. Tutto era preso per il valore che aveva,
niente era più scontato. […] Ora, dopo quattro mesi dall’aver ricominciato a camminare, mi accorgo che quella tensione verso le cose è già
scemata: il piatto di pasta più elaborato è ridiventato un piatto di pasta normale, le cose sono ancora una volta sotto l’ombra della mia misura e del mio compiacimento [la vita è diventata di nuovo piatta]…
Qual è la strada che può restituirmi quella condizione, che può farmi vivere sempre quell’esperienza [del sorprendermi delle cose presenti]?».
Don Giussani ci dice che le cause di questa situazione sono due. Prima: il nostro normale uso della ragione è ridotto. Seconda: siamo sottomessi alla divisione tra il riconoscimento e l’affezione. E fa un esempio: «All’inizio dell’evo moderno: Petrarca ammetteva tutto il dottrinale cristiano [era d’accordo con quello che gli veniva detto sulla fede
cristiana], eccome, lo sentiva anche meglio di noi, ma la sua sensibilità o affettività fluttuava autonoma» (L. Giussani, Ciò che abbiamo di
più caro. 1988-1989, Bur, Milano 2011, p. 156). Guardate, quello che don
Giussani descrive di Petrarca è quello che la lettera iniziale dimostra:
in una mattina, si passa dalla bellezza più commovente allo schifo. Questa è la nostra fluttuazione. Per questo si capisce quanto noi abbiamo
bisogno – se non vogliamo rimanere per tutta la vita come un sasso
travolto dal torrente, dalla fluttuazione dei nostri stati d’animo – di
una educazione. Ci dice ancora don Giussani: guardate, ragazzi, che
il problema interessante è renderci conto della realtà; e che cosa ci offre don Giussani per questa educazione? Come possiamo imparare a
usare la ragione in modo giusto per vincere questa fluttuazione che
ci porta costantemente a vivere questi alti-e-bassi che ci confondono
in continuazione? Nessun’altra cosa ci può aiutare di più che il capitolo decimo de Il senso religioso, che lui definisce «la chiave di volta del
nostro modo di pensare» (cfr. L. Giussani, «Un uomo nuovo», Tracce-Litterae Communionis, n. 3, marzo 1999, p. IX).
2. LO STUPORE DELLA «PRESENZA»
Da dove parte don Giussani per aiutarci? Dal rompere l’ovvietà. E
quale è l’ovvietà? Che noi non ci rendiamo conto, tranne in rare occasioni, che c’è il cielo, che c’è il fiore, che c’è la mamma, che c’è la sorella: tutto per noi è quasi scontato, come se fosse ovvio. E per aiutarci ad affrontare questo problema don Giussani ci dice: immaginate che
adesso vi portassi in un mondo che solo io conosco, andiamo tutti insieme a fare un viaggio, chiudete gli occhi, e poi, quando siamo tutti
lì, aprite gli occhi con la consapevolezza che avete adesso; la prima cosa
che vi trovate davanti è un giorno bellissimo, chiaro, con il Monte Bianco davanti a voi. Dice Giussani: quale sarebbe la primissima reazione
al contraccolpo di quella presenza? E guardate che questa immagine
non è una finzione.Vi racconto una cosa capitata a un mio amico del
Brasile quest’estate: era a La Thuile con un gruppo di brasiliani, portoghesi e mozambicani (tutti di lingua portoghese); sono andati a fare
una gita al Colle San Carlo, lì vicino; e mentre camminavano stava pensando: «Quando arrivo al belvedere,farò guardare a tutti il Monte Bianco, canteremo qualche canto, cercherò di farli stare zitti perché possano godere il panorama».Ma mentre era preoccupato pensando a queste cose, appena arrivati, vedendo davanti a loro il Monte Bianco – per
tanti era la prima volta –, sono rimasti tutti in silenzio. Mentre erano
lì tutti zitti hanno sentito arrivare un secondo gruppo che era rimasto dietro, le persone camminavano parlando ad alta voce e il mio amico ha cominciato di nuovo a pensare – come non avesse imparato niente da quel che gli era appena capitato – a cosa avrebbe detto al loro arrivo: «Li farò stare zitti, farò questo, farò quello…». Pensava queste cose
e intanto sono arrivati: l’imponenza della presenza del Monte Bianco è stata così cogente, così imponente, era così bello quello che avevano davanti, che anche questi hanno preso a fare silenzio.
Questo episodio mi ha fatto capire ancora una volta perché don Giussani ci propone di supporre di nascere adesso, con la consapevolezza
che abbiamo. Quale sarebbe il primissimo sentimento davanti al reale? Sarebbe uno stupore che ti lascia senza parole, che ti lascia muto
davanti a una tale bellezza: «Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”.
Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene
espressa nel vocabolario corrente dalla parola “cosa”» (L. Giussani, Il
senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-140).
Guardate i termini che usa don Giussani: dominato, investito dal contraccolpo, stupefatto, riempito di quella meraviglia, di quello stupore che nessuna situazione può evitare. Come è capitato a uno dei vostri professori che, vedendo i suoi studenti un po’ distratti, ha pensato: «Il contrario dell’essere distratti non è essere attenti, ma attratti».
La questione è se c’è qualcosa che ci attrae, perché allora cattura tutta la nostra attenzione; e quando ci troviamo davanti al reale così attratti, stupiti, dominati, allora la vita acquista uno spessore, una intensità, una potenza che uno vorrebbe per sempre, che uno vorrebbe
in ogni istante: che le cose fossero così presenti, che le riconoscessi così
potentemente presenti, che questa attrattiva fosse vincente sulla mia
fluttuazione. Senza questo saremo sempre come un sasso travolto dal
torrente delle circostanze, degli stati d’animo, dei cambiamenti.Ma questo ci dice che noi abbiamo bisogno di non dare per scontato quel dato,
perché il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da
cui lui dipende. «Tradotto empiricamente è la percezione originale di
un dato» (Ibidem, p. 140): «dato» implica qualcosa che «dia».
Immaginate per un istante se noi riconoscessimo ogni cosa come data,
come dono; immaginate soltanto quando vi fanno un regalo, come vi
piace, come vi esalta, come siete grati, come vi cambia la vita. Immaginate che noi imparassimo a vivere la vita riconoscendo tutto come
dato (non soltanto in qualche momento occasionale in cui vi fanno
un regalo), perché tutto mi è dato; ma noi lo diamo per scontato come
se fosse un diritto, o qualcosa di ovvio. Invece se noi imparassimo –
come l’amico di Roma in ospedale – a vedere le cose come non ovvie,
come date, come dono, la vita sarebbe veramente un’altra cosa; che è
quello che è, perché non dobbiamo fare così per convincerci che ci è
dato: ci è dato, la verità di quello che ho davanti è che mi è dato!
Ma noi tante volte non lo riconosciamo. Come ci educhiamo a che
prevalga in noi la coscienza del «dato»? Dice don Giussani: «La stessa parola “dato” è vibrante di una attività, davanti alla quale sono passivo: ed [allora] è una passività che costituisce l’originaria attività mia,
quella del ricevere, del constatare del riconoscere» (Ibidem, pp. 140-
141). Immaginate che io vi faccia un regalo. Qual è la prima vostra attività? Riceverlo, accoglierlo, non prima di tutto fare qualcosa voi; la
prima vostra attività è una passività, un accoglierlo, un rendervi conto che vi è stato dato, ma questo tante volte noi lo saltiamo, saltiamo
il fatto che la mamma ha preparato la cena, che c’è il cielo, che viviamo ora, saltiamo tutto questo. Mi ricordo che una madre mi aveva raccontato che andava in macchina verso casa con il figlio e il figlio le dice
che aveva voglia di una pizza. «Va bene, faremo la pizza». Ma poi arrivano a casa e trovano il papà che sta cucinando, non la pizza, ma un
pollo. Allora il ragazzo incomincia ad arrabbiarsi: «Ma io volevo la pizza!». E la madre gli dice: «Ma ti rendi conto che il tuo papà sta facendo la cena per noi? Che dopo aver lavorato per tutto il giorno per mantenere la famiglia è arrivato a casa e pensando a noi si è messo a cucinare?». Il ragazzo ha cominciato a capire, a non dare per scontato che
il papà fosse lì a preparare la cena, e ha cominciato a cambiare, è andato dal papà a ringraziarlo per quello che stava facendo; e poi il pol-
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lo era pure buonissimo... Perché la questione non era il pollo o la pizza, ma il rendersi conto che c’era uno che gli voleva così bene, che lo
aveva così a cuore, tanto da preparare la cena.
Questa è l’educazione che occorre: che ciascuno di noi possa essere aiutato a riconoscere come dato quello che sembra ovvio. Qual è la
tentazione nostra? Saltare il renderci conto, il “ricevere” il fatto che il
papà sta facendo la cena. E così perdiamo il meglio. La maggioranza
delle volte – amici – perdiamo il meglio, perché il meglio non è il pollo o la pizza (che puoi mangiare un’altra volta), il problema è che non
ci rendiamo conto che abbiamo uno che ci vuole bene, lo abbiamo davanti; il ragazzo l’aveva davanti, ma l’aveva ridotto e quindi non aveva capito tutta la portata di quello che stava davanti ai suoi occhi. Ed
è occorsa la mamma, che gli ha fatto imparare a usare la ragione in modo
vero per aiutarlo a capire veramente che cosa stava succedendo, per
fargliene capire tutta la portata, perché altrimenti sarebbe rimasto nella apparenza. Questo gli ha fatto vincere la fluttuazione del suo stato
d’animo e ha cominciato a capire tutta la portata di quello che il papà
stava facendo. Noi questo dobbiamo impararlo, che la prima nostra
attività è una passività, è un imparare a ricevere, a constatare, a riconoscere quello che abbiamo davanti, perché quando ci rendiamo conto di questo succede quello che ci dice il don Gius nell’ultimo punto
del capitolo decimo. Che cos’è successo in questo ragazzo che si è reso
conto di questo? È la portata di quello che sta facendo il papà ad averlo risvegliato. Immaginate il ragazzo che si sta rendendo conto di quello che sta succedendo davanti ai suoi occhi: «Quando è risvegliato nel
suo essere dalla presenza [del papà], dalla attrattiva e dallo stupore, ed
è reso grato, lieto [di avere un papà così]. [E allora] […] l’uomo prende coscienza di sé come io e [percepisce tutto lo stupore dentro di sé]
riprende lo stupore originale con una profondità che stabilisce […]
la statura della sua identità» (Ibidem, p. 146).
Qui don Giussani ci offre tutti i segni per sorprendere se noi stiamo vivendo bene la realtà, perché se uno vive bene il rapporto con la
realtà il suo io si ridesta, si illumina. Quando succede qualcosa a qualcuno di voi, gli chiedete: «Ma cosa ti è successo?». Perché lo domandate? Per quello che vedete sulla sua faccia: è più contento, risplende
nel suo volto qualcosa tanto è vero che quello che vedete vi fa dire: «Ma
cosa ti è successo? Perché sei così contento oggi?». Noi sappiamo che
gli è successo qualcosa che lo ha stupito perché l’io si è risvegliato e
questo lo ha reso lieto e grato.
Se noi ci rendiamo conto di questo, che il nostro io è stato risvegliato dalla presenza delle cose, dalla presenza delle cose presenti, siamo
lieti e grati indipendentemente da tutto il resto, siamo lieti e grati; anche quando uno si è alzato con la “luna storta” vede il cielo ed è lieto
e grato, e allora riprende coscienza di sé, si rende conto del valore della vita e riprende lo stupore originale con una profondità che stabilisce la statura della sua identità. È impressionante perché noi pensiamo che la statura della nostra identità sono i nostri voti a scuola, o quello che riusciamo a guadagnare quando lavoriamo, o i ruoli che svolgiamo nella vita; invece don Giussani ci dice che la portata della nostra identità è la capacità che abbiamo di stupirci davanti alle cose; perché tanti hanno soldi, tanti hanno titoli universitari, tanti occupano
ruoli di responsabilità, ma non si stupiscono più e la vita per loro è
piatta. Allora, qual è il dono più grande, il regalo più grande che a noi
è stato dato, più di qualsiasi altro?
«In questo momento – continua don Giussani – io se sono attento
[cioè se smetto di essere un bambino], cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che
io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”. È l’attimo adulto della
scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro» (Ivi). Ma
chi si è reso conto oggi di essere “dato”? Se io vi sfidassi questa sera e
dicessi: «Alzi la mano chi oggi si è reso conto, non ha dato per scontato, non ha dato per ovvio che c’è, che esiste», la maggioranza di noi,
la stragrande maggioranza di noi non la alzerebbe. Capite come lo diamo per scontato!? Il dono più grande: non le cose, non gli altri, ma io
a me stesso!
Questa è l’educazione di cui noi abbiamo bisogno, perché se io me
ne rendessi veramente conto adesso, con quale gratitudine vivrei il rapporto con Colui che mi sta dando a me stesso ora. Dovete pensarlo,
perché tutti possiamo ripetere questa frase senza renderci veramente
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conto del perché è così. Se ti viene un infarto adesso, potresti darti un
istante di più di vita? Un istante di più?! Tutti noi che ti vogliamo così
bene, con tutto il nostro sforzo, con tutti i nostri tentativi, possiamo
tutti insieme prolungarti un istante la vita? Tutto il mondo potrebbe
dartela? Fino a questo punto è un dono! I nostri genitori hanno contribuito a trasmetterci la vita, ma che loro non sono l’origine ultima
lo si vede dal fatto che neanche loro sono in grado di prolungarci un
istante di più la vita. Lo vediamo bene quando un nostro amico muore in un incidente di moto: i genitori darebbero la vita per il figlio, ma
non sono in grado di ridargli la vita. La vita ci è data da un Altro, è la
cosa più evidente; e io mi facevo questi esempi per capire fino in fondo quello che dice don Giussani: che la cosa più evidente, che «l’evidenza più grande e più profonda è che io non mi faccio da me».
Allora, se io prendessi consapevolezza veramente di me stesso, mi rendessi veramente conto di me, come dovrei dire: «Io»? Io sono Tu che
mi fai ora! Guardate quando uno si innamora: il fatto che l’altro ci sia
introduce in me una vibrazione, una intensità, una felicità, un’esplosione che io con tutta la mia energia non sono in grado di darmi, tutti i miei tentativi, tutti i miei sforzi non sono in grado di darmi neanche un istante di quella intensità che mi dà la presenza di un altro. Che
vibrazione introduce dentro di me la presenza dell’altro! Allora, se succede con la persona di cui mi innamoro (che è un niente come me),
figuratevi che cosa accade il giorno che io mi rendo veramente conto di Colui che mi dà l’essere! Con che vibrazione dovrei dire: «Tu» a
Colui che mi fa ora! Fin quando non arriviamo a vibrare così – la vibrazione dell’innamorato ne è solo un pallido riflesso, un pallido esempio –, noi ci perdiamo il meglio! Mi dispiace. Non viviamo con consapevolezza, con intensità, con verità quello che sta succedendo. Tante volte per noi dire: «Tu» a questo Tu che mi fa è come dire: «Bottiglia», è uguale a niente. «Già lo so»: non lo sai, e ti perdi il meglio con
la tua presunzione del cavolo!
È per questo che uno non si stanca di leggere quel grande testimone che ci ha dato il Mistero, don Giussani, perché lui non può dire: «Tu»
senza tutta la vibrazione con cui uno può immaginare di dire: «Tu»
alla persona a cui vuole bene, anzi molta di più. Per noi questo è così
lontano che a volte mi dicono che è una complicazione. Immagina di
sentirti dire che vibrare dicendo: «Tu» davanti alla ragazza di cui sei
innamorato è una complicazione! Ma perché nasce questa obiezione?
Perché a noi manca quella modalità di vivere la realtà, di vivere la consapevolezza di questo Tu nella sua verità, perché non siamo stati educati a questo.
Mi facevo questi esempi. Immaginate quando cominciate a imparare matematica, è un po’ artificioso stare attenti a non sbagliare ogni
passo.Vi piacerebbe che fosse immediato, appena vedete il problema,
intuire la soluzione. Ma per arrivare fin lì occorre avere la pazienza di
imparare passo dopo passo, dopo passo, dopo passo, dopo passo; e quando uno inizia ad avere una familiarità con la materia, allora sì, appena vede il problema, potrà dire: «Chiaro! Questa è la strada per risolverlo». O quando uno incomincia a suonare il pianoforte, gli piacerebbe subito eseguire Mozart, invece occorre cominciare a fare esercizi con le dita che sembrano ingessate. E tante volte, dicendo queste
cose, a noi sembra una complicazione, così come all’inizio ci sembra
artificioso quello che ci propone don Giussani, e non abbiamo la pazienza di farlo, ci sembra complicato e scambiamo la ragione con il sentimento perché ci sembra più facile, più immediato: «Se lo sento esiste, se non lo sento non esiste!». Questa è la nostra filosofia, dopodiché in una mattina possiamo passare dalle stelle alle stalle, e non dico
quante volte in una giornata!
Per questo occorre che uno si voglia veramente bene fino al punto
di accettare il percorso educativo che ci propone don Giussani, per godere tutto il reale senza perdersi il meglio, perché noi ci perdiamo il
meglio se davanti al reale non scopriamo il Tu che domina la vita, il
Tu che fa vibrare la vita in qualsiasi situazione, il Tu che mi fa stare sempre in compagnia anche se sono da solo, il Tu che determina tutto anche se sono triste, il Tu che mi accompagna anche se sono solo, il Tu
che è Colui che qualsiasi piccola cosa del reale grida, dalla foglia alla
persona presente. Tutto grida questo Tu, ma noi non arriviamo quasi mai a riconoscere questo Tu davanti al reale, e per questo non c’è
qualcosa che ci attira abbastanza per vincere la fluttuazione. È soltanto insieme a un Tu che ti attira così potentemente che ti senti a posto.
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Questo è il cammino che ci propone don Giussani: che questo Tu nel
rapporto con il reale, nel modo di vivere il reale, diventi sempre più
nostro, perché tutto quello che ci dà ha la natura di segno. Il fiotto implica la sorgente. Conoscere significa accettare di compiere il percorso dal fiotto alla sorgente. Questo è l’uso vero della ragione, e allora
io posso dire di essere «Tu che mi fai» con tutta la mia consapevolezza di uomo. «Questa è la preghiera: la coscienza di sé fino in fondo che
si imbatte in un Altro» (Ibidem, p. 147), per cui essa è l’unico gesto umano in cui la statura dell’uomo è totalmente realizzata. Quante volte preghiamo così? Spesso è soltanto un dire parole senza entrare in rapporto con questo Tu che mi fa ora.
Dal riconoscimento di questo Tu che mi fa ora dipende tutto l’equilibrio della vita, e potete vedere se questo è una esperienza per voi.
Don Giussani ci lascia tutti i segni per vedere se facciamo la stessa
esperienza di cui lui parla: se possiamo entrare – dice lui – come «un
bambino tra le braccia del padre e della madre […] in qualsiasi situazione dell’esistenza con una tranquillità profonda, con una possibilità di letizia» (Ibidem, p. 148). Immaginate un bambino, se arriva in una stanza buia fugge, gli viene paura; con la mamma che gli
prende la mano il bambino entra ovunque. Che compagnia ci può
fare entrare in qualsiasi circostanza con questa tranquillità profonda e con questa possibilità di letizia? Solo il riconoscere questo Tu
che è all’origine del mio io, perché dire: «Io sono» vuol dire: «Io sono
fatto».
3. «VIVERE SEMPRE INTENSAMENTE IL REALE»
Allora, e concludo, «la formula dell’itinerario al significato ultimo
della realtà qual è? Vivere il reale». Così come abbiamo detto, «l’unica condizione […] è vivere sempre intensamente il reale» (Ibidem, p.
150). Ma che cosa vuol dire vivere intensamente il reale? Non essere
più accaniti implicandoci con le cose ma rimanendo nell’apparenza;
molti giovani pensano di vivere più intensamente il reale perché si agitano di più o fanno più cose, ma ritornano a casa vuoti. Che cosa vuol
dire vivere intensamente il reale? Che cosa vuol dire avere un rapporto vero con gli amici, che cosa vuol dire avere un rapporto vero con
la persona a cui vuoi bene, affinché tu non ritorni a casa vuoto? Come
sappiamo, dice don Giussani, se viviamo intensamente il reale? Se non
soffochiamo. Dice: «Il positivismo [il restare nell’apparenza] che domina la mentalità dell’uomo moderno […] esclude l’invito a scoprire il significato che ci vien rivolto proprio dall’impatto originario e immediato con le cose» (Ivi). Noi rimaniamo tante volte all’apparenza
che ci soffoca. Abbiamo un segno: soffochiamo, siamo positivisti, restiamo soltanto all’apparenza.
Allora che aiuto, che compagnia ci dobbiamo fare per imparare a vivere il reale in un modo così vero che non ci faccia soffocare! Questa
è la promessa di questo inizio d’anno. Questa è la promessa che ci offre e che ci ha testimoniato sempre don Giussani, che se viviamo il reale nella sua verità possiamo respirare sempre in qualsiasi circostanza;
altrimenti – per usare una immagine usata dal Papa nel suo viaggio in
Germania – noi viviamo la realtà come se fossimo in un bunker senza finestre (soffocate soltanto a pensarci...). Che cosa dobbiamo imparare? A spalancare le finestre, ad aprire tutte le finestre per capire la realtà,fino alla sua origine, per riconoscere che noi siamo in rapporto con
il Tu che fa respirare in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza.
Questa è l’avventura più affascinante del vivere. Tutto il resto, amici, è agitazione; possiamo agitarci in tanti modi, fare di qua o fare di
là, ma se noi non scopriamo, se non andiamo fino in fondo dell’unico Tu che ci fa respirare e se non diventa familiare il rapporto con questo Tu che ci fa respirare in qualsiasi circostanza, possiamo cambiare
le circostanze, ma continueremo a soffocare.
Questa è la promessa, e questa è la strada; questa è l’educazione di
cui parlava la prima lettera che ho letto, questo è quello che impedisce di fluttuare costantemente; altrimenti, come tutti i vostri compagni, sarete travolti da qualsiasi circostanza fino a stancarvi e a diventare scettici. Soltanto chi accetta questa strada e la verifica potrà scoprire la verità, che cos’è veramente godere la vita, che cos’è veramente vivere con intensità tutto. Per questo occorre la vostra disponibilità, la vostra libertà e la vostra decisione.

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