venerdì 28 ottobre 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón, 26 ottobre 2011,

Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo X, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-150. «Vivere
sempre intensamente il reale», Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo
Mondo, Milano 2011, pp. I-XVI.
• Il mistero
• Alecrim
Gloria
Continuando il nostro lavoro sulla Scuola di comunità, vorrei incominciare leggendo qualche lettera
che mette il dito nella piaga della difficoltà in cui tante volte ci troviamo. Mi scrive uno: «Mi è
chiaro lo stupore della presenza. La natura mi colpisce, mia moglie e i miei figli mi stupiscono, un
bel pomeriggio passato insieme agli amici mi stupisce, suscitandomi una sincera gratitudine per
quello che mi è dato. Le cose belle mi richiamano al loro Creatore. Ma la distrazione e le
preoccupazioni gettano un velo su questo giudizio: le difficoltà sul lavoro, i rapporti lavorativi
spesso segnati da un unico criterio di giudizio che è la profittabilità del mio operato (prova a
immaginare in questo periodo quanto c’è da stare allegri), lo stress da prestazione, le
incomprensioni in famiglia, l’incertezza sul futuro. Insomma, le fatiche del vivere mi mostrano
quanto sia invece vacillante e fluttuante l’attrattiva verso la realtà. Il risultato è un disinteressamento
alle cose e un intristimento, una incapacità di riconoscere un positivo in tutta la realtà, anche quella
apparentemente ostile. È certamente un problema di poca fede che vorrei correggere, ma ti chiedo
come è per te, se puoi aiutarci a fare un passo». Mi sembra che descriva bene la situazione di tutti:
in qualche momento non possiamo non dire di essere stati colpiti o stupiti dal reale, ma poi tutte le
difficoltà, le distrazioni, le preoccupazioni, le difficoltà al lavoro, i rapporti eccetera «gettano un
velo su questo giudizio». Allora il risultato è chiaro: mi disinteresso delle cose, mi intristisco. Se
questo prevale, alla fine viviamo come tutti: quando le cose vanno bene va bene, quando vanno
male va male. In questa situazione quello che alla fine viene messo in discussione è il giudizio: ma
la realtà in ultima istanza è veramente positiva o no? Tutte queste cose gettano un velo sul giudizio
o no? La lettera conclude dicendo che è «certamente un problema di poca fede». Che cosa ne dite?
Io dico: no, non è un problema di fede, ma è un problema della ragione! E questa è la sfida
fondamentale che il capitolo decimo lancia a ciascuno di noi. Quando tutto il decimo capitolo de Il
senso religioso dice che la realtà, con tutta la sua radicalità, con tutta la sua imponenza, è positiva,
sta dicendo una cosa vera o no? Questo è il giudizio che dobbiamo dare perché altrimenti noi
dipendiamo da come vanno le cose, e allora «le fatiche mi mostrano quanto sia invece fluttuante e
vacillante l’attrattiva verso la realtà». Per questo emerge una domanda radicale: la realtà è
veramente positiva o no? Dipende da come vanno le cose? Già sappiamo che se dipende da come
vanno le cose, quando vanno bene vanno bene, ma il problema è quando non vanno bene (come
tante volte non vanno)! Allora quando diciamo che la realtà è positiva siamo dei visionari?
Ciascuno può fare il paragone con quello che dice Giussani, perché questo è fare la Scuola di
comunità: noi possiamo dire in pace, con certezza, con un uso pieno della ragione che la realtà è
positiva o ci troviamo, come dice questa lettera, in questa fluttuazione? Quando ci troviamo davanti
alle situazioni, come reagiamo? Davanti alla malattia o davanti alla crisi, o davanti alla difficoltà dei
rapporti, o davanti alla situazione della famiglia, siamo veramente convinti che la realtà è positiva
oppure continuiamo a dirlo soltanto per una sorta di accanimento volontaristico («Dobbiamo dirlo
perché siamo del movimento, perché siamo cristiani»)? Possiamo dire questo con un uso pieno della
ragione? Si capisce la sfida? Da qui non si può recedere, perché se noi non facciamo questo lavoro,2
anche se veniamo qui ogni quindici giorni questo problema non lo risolviamo (e poi il giudizio
dipenderà da come vanno le cose…). Il giudizio dipende soltanto dalle fluttuazioni della nostra
sensibilità? Che questo foglio sia bianco è vero oppure dipende dallo stato d’animo con cui io lo
guardo? Un giudizio: la mia malattia, il dolore ai denti, o il fatto che ho perso il lavoro può mettere
in discussione un giudizio? Se noi diciamo che si introduce un velo sul giudizio, vuol dire che non
abbiamo imparato ancora che cosa è un giudizio. Per questo ci interessa capire bene che cosa è un
giudizio. Perché la realtà c’è, qualsiasi faccia abbia c’è. E questo non dipende dallo stato d’animo
che noi possiamo attraversare. Allora questo vuol dire che dobbiamo re-imparare certe cose che
diciamo: che cosa è un giudizio (perché, appena succede qualcosa nella vita, vediamo che non è
chiaro che cosa è). E perché? Lo dice molto bene una seconda lettera: «Caro Julián, rileggendo la
Giornata d’inizio anno mi sono accorta che soprattutto mi sfugge quell’andare a fondo della ragione
fino a raggiungere il Tu reale da cui scaturisco. Tante volte il contraccolpo non lo sperimento e non
ne sono nemmeno consapevole, ma tante volte sì. Ma che uso della ragione è quello di cui parli? È
un uso, oserei dire, che non conosco. Il passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente,
nella mia esperienza resta astratto. A volte si impone nella vita in certe circostanze il Tu reale, ma
non dura. Niente sembra togliermi in modo definitivo dall’incertezza strutturale; nessun marito,
nessun figlio, nessun cielo, nessuna foglia, neanche il dolore. L’Avvenimento accade, mi strappa
dalle mie idee soffocanti, mi spalanca alla bellezza della vita, all’amore di Cristo, alla gratitudine
per essere salvata mille volte; mi risveglio, sì, per un po’, ma direi che poi si richiude. Va meglio
quando sono fedele alla Messa quotidiana, ma non è neanche quello decisivo [perché tante volte
“adoperiamo” la Messa per non usare la ragione]. Che esista un uso della ragione in grado di
cambiare, di operare carnalmente, di incidere su tutto, sulla dimensione del mio io, io faccio fatica a
concepirlo; la divisione resta». Mi sembra che questo dica in modo palese la difficoltà. Perché?
Perché a noi questo uso della ragione è sconosciuto. Quando parliamo di «positivismo» non stiamo
dicendo una parola complicata, lontana dalla nostra esperienza, stiamo descrivendo ciò che ci
troviamo addosso tante volte: un uso della ragione che rimane soltanto all’apparenza. Per questo il
passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente, resta astratto, perciò pensiamo che dire:
«Tu» sia qualcosa che noi aggiungiamo alla realtà perché siamo un po’ visionari. E, siccome lo
affermiamo soltanto come volontarismo («Perché lo decidiamo noi»), non dura. Se dico: «Questo
foglio è bianco», è un riconoscimento, mi posso riposare e rilassare perché continuerà a essere
bianco anche tra cinque anni. Questo foglio non deve essere bianco perché io sostengo che è bianco,
altrimenti non dura. Immaginate se da qui possiamo passare al dire: dal contraccolpo al Tu, dal
fiotto alla sorgente. Infatti quante volte obiettiamo: «Ma perché devo aggiungere il Tu?»; sembra
una complicazione – lo dicevamo alla Giornata d’inizio anno –, sembra che dire: «Tu» sia qualcosa
che noi aggiungiamo per abitudine volontaristica (e dunque altri, che non siano abituati così come
noi, dicono: «Il niente», «il nulla»). Vedete che possiamo stare qui e non fare questo passaggio,
questo lavoro? Se non accettiamo la proposta di Giussani di un uso vero e completo della ragione,
poi davanti al reale restiamo sempre in questa incertezza strutturale – è micidiale l’acutezza della
nostra amica: poi non c’è marito, né figlio, né cielo, né foglia che mi possa dare la certezza che non
ho –. Allora capite che legame c’è tra l’incontro con Cristo e l’uso della ragione! Se l’incontro con
Cristo non risveglia la ragione e non è una introduzione alla realtà totale – noi siamo insieme per
imparare a usare la ragione così, per aiutarci e sostenerci in questo uso della ragione secondo la sua
vera natura –, tutto quello che facciamo, anche il venire qui ogni quindici giorni, è inutile perché
non riesce a cambiarci sostanzialmente; dopodiché non ci interesserà più, perché se dopo un certo
tempo uno non cambia, perde l’interesse anche per quello che dice di avere, cioè la fede. Per questo
una fede che non ci fa usare la ragione diversamente, non solo ci lascia positivisti, ma ci rende
scettici in quanto la fede non è in grado di ridestare tutta la capacità della persona di riconoscere il
reale. Allora uno deve farsi questa domanda: la presenza delle cose (il fatto che le cose ci sono)
implica veramente l’esistenza di qualcosa d’altro? Cominciamo a usare la ragione! O è soltanto per
modo di dire? Partiamo dall’esempio più facile che abbiamo fatto tante volte, quello dei fiori. La
presenza di un mazzo di fiori sul tuo tavolo implica qualcun altro che te li ha regalati oppure no? La3
presenza della persona amata te la crei tu oppure implica qualcosa d’altro? La presenza del reale la
creiamo noi, si crea da se stessa oppure implica qualcosa d’altro? O noi incominciamo a farci queste
semplici domande, in modo tale da non essere ingabbiati in un uso riduttivo della ragione, o in
fondo la nostra fede sarà sempre qualcosa di aggiunto a un io – come dico sempre – perfettamente
già costituito, come un cappello sopra la mia testa che in fondo è decorativo, non cambia il modo di
guardare, non cambia la realtà delle cose. Perciò la maggioranza delle persone può prescindere da
questo cappello, perché in fondo è un’aggiunta decorativa, non è decisivo per vivere. Questa è la
verifica che stiamo facendo dal 26 gennaio: o il cristianesimo è in grado di ridestare la ragione, in
modo tale da poter riconoscere il reale così com’è; o noi stiamo nell’incertezza permanente, ma
allora la divisione permane, come dice un’altra lettera: «C’è un’altra questione che mi rode, è il
fluttuare dell’affettività [se non si arriva a toccare il reale nella sua origine, rimaniamo fluttuanti
nell’affettività]. Voglio capire come stare davanti alle cose che affettivamente mi determinano in
modo che mi parlino di più della Presenza che le fa, che mi svelino il Suo volto». Infatti, se noi non
arriviamo ad afferrare la realtà, l’affettività fluttua: ora è così, dopo cinque minuti è cosà, e
rimaniamo sempre in balìa di tutto. Per questo, se non incomincio non a ripetere le frasi, ma a
imparare un uso corretto della ragione, quando sono nella mischia, quando mi trovo a soffocare
nelle circostanze, sono finito. Ma questo è tutto o – anche qui – il fatto che io ci sia, pur soffocando,
non ridendo, io, proprio io, adesso, in questa situazione, implica un Tu che mi fa? Perché è allora
che io incomincio a guardare a me stesso come voluto da un Altro, al di là del sentimento che
provo. È proprio perché riconosco questo che posso cambiare il sentimento. Noi, invece,
concepiamo le cose alla rovescia: prima dobbiamo cambiare il sentimento perché è questo che mi
convince che il mio io c’è. No, è la ragione che mi convince che c’è, e per questo posso cambiare il
sentimento! Ma noi rovesciamo i termini e così rimaniamo vittime degli stati fluttuanti del
sentimento, e siamo sempre in balìa di tutto. Come descrive un’altra lettera che leggo, questa
mancanza di conoscenza a che cosa porta? «Ho deciso di scriverti perché mi sembra di essere
arrivata a un punto del lavoro di Scuola di comunità in cui non riesco a “saltarci fuori”. Parto dalla
mia esperienza. Attualmente sono pensionata, ho i figli grandi, non ho nipoti, ho sicuramente la
possibilità di vivere il tempo secondo criteri che mi sono congeniali, come, insomma, in un lungo
periodo di vacanza. Mi sono impegnata nell’aiutare persone che possono avere bisogno di me –
sono medico – nella preparazione infermieristica, in consulenze eccetera, ciò che faccio lo faccio
volentieri, non mi ha costretto nessuno, ho scelto io di farlo, ma poi è sorta una domanda: gli
impegni che porto avanti possono dare il senso alla mia giornata? La risposta è no. Non sono il
significato della mia giornata, ma anche se facessi altro... Persino il rapporto con i figli mi viene da
dire che non dà il significato della mia giornata, mi accorgo che desidero qualcosa d’altro, qualcosa
di grande, qualcosa che possa corrispondere fino in fondo al mio cuore, e al mattino mi alzo
desiderando che questo qualcosa di grande mi possa accadere. Il punto però è questo: perché Cristo
sia un’esperienza vera deve accadere ora, incontrabile ora, io vivo aspettando che accada ora, ma
non Lo incontro in ciò che vivo, e a me questo sembra una contraddizione. Non mi spaventa il
desiderio dell’infinito che ho, perché lavorando sulla Scuola di comunità ho veramente capito che
avvertire una mancanza è un positivo (perché uno avverte la mancanza di qualcosa che ha
sperimentato e conosciuto, non di qualcosa che non conosce). Dimmi, come posso ancora lavorare
per essere sempre più vera?». Vedete come non vediamo come presenza le cose presenti? Questa
amica dice di avvertire questo desiderio dell’infinito. Ha incominciato a capire, non ha capito fino
in fondo ancora; perché questo desiderio dell’infinito è un positivo, perché? Perché ha sperimentato
e conosciuto qualcosa. Il desiderio dell’infinito è già il primo segno della Sua presenza, ma non se
ne rende conto. Siccome non usiamo la ragione secondo la sua natura, non compiamo questo
passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente, dal riconoscere il desiderio dell’infinto a
riconoscere Colui che mi dà questo desiderio dell’infinito, che me lo ridesta in continuazione
(perché alla sua età, pensionata, tanti sono già scettici, assolutamente). Che uno abbia questo
desiderio dell’infinito ancora così vivo, ce lo diamo noi stessi o è una cosa presente come presenza?
Questa è la modalità con cui io incomincio a riconoscere che c’è Uno che ancora mi ridesta. Perché,4
come dicevamo la volta scorsa, se uno si trova davanti a questo desiderio così imponente di infinito,
deve chiedersi lealmente: ma questo desiderio di infinito noi, che siamo così poveracci, ce lo
ridestiamo da noi? O questo è il primo segno della Sua presenza? Allora vuol dire che su questo
punto abbiamo ancora tantissimo lavoro da fare, come dice quest’ultima lettera: «Ho capito
finalmente il punto per cui per anni sono stata bloccata [e qual è stato il punto?]. Ho sempre usato il
mio pensiero religioso e le parole del movimento come alibi per non lavorare. Più o meno
inconsapevolmente, il fatto di pensare e di conoscere la risposta al mio bisogno umano, Gesù Cristo,
mi ha bloccato nella ricerca. Ho ripetuto “Cristo” senza veramente cercare. Lo sapevo già e questo
me Lo ha fatto diventare [guardate che conseguenza!] sempre più estraneo e “antipatico”, e per
contro io sempre più scettica, miope e delusa [una fede senza senso religioso, una fede che, invece
che svegliare il senso religioso, appiattisce il senso religioso perché penso di sapere già, porta allo
scetticismo, alla miopia e alla delusione]. Ricordo come ho reagito anni fa al titolo degli Esercizi:
“Cristo me trae tutto tanto è bello”. Segretamente io mi sono domandata: ma dove? Non rispondeva
mai alla mia nostalgia e la Sua pretesa diventava sempre più insopportabile perché deludente. Sono
rimasta nel movimento un po’ per abitudine, ma soprattutto perché grazie al Cielo tu e altri amici
non smettete di far vibrare quel qualcosa di me che ho scoperto essere il mio io più profondo, sede
di tutta me stessa, e da sola io so bene che non so starci davanti. La tua continua insistenza mi ha
fatto capire che c’è in ballo davvero la possibilità di qualcosa di grande per me, e ho deciso di
seguire. Seguendo davvero ho capito che non ho mai seguito, perché a me in fondo non è mai
interessato scoprire niente né di me né della realtà, mi sono sempre accontentata della convinzione
altrui [come ripetendo delle cose che scoprivano altri]. Ma al cuore questo non basta. Mi sono
guardata in azione: che spavento! Artificiosa, non libera nei rapporti, sempre alla ricerca di un
consenso [perché se uno non scopre qualcosa di vero è sempre alla ricerca del consenso degli altri],
ferma su me stessa, impietosa nel giudizio sugli altri. Seguire. Ho preso sul serio la Scuola di
comunità e i suoi avvisi, quindi ho cominciato a dedicare il mio tempo alla lettura attenta dei testi e
ho cercato di partecipare il più possibile ai gesti proposti. Seguire. La preghiera: ho incominciato ad
andare a Messa tutti i giorni, chiedendo che mi svelasse il mio e il Suo vero volto. L’origine di tutti
questi “seguire” è stata e continua a essere la sincera domanda che qualcosa di me e della realtà si
sveli a me stessa [che cosa ci mette in moto? La consapevolezza del bisogno: quando siamo
veramente consapevoli del bisogno incominciamo a muoverci]. Lo scontro-incontro con la realtà mi
ha fatto vedere la mia impotenza a trattenere ciò a cui tengo, non sono capace di salvare nulla della
mia giornata, e le persone a cui voglio bene mi scappano via, sono costretta a cercare qualcosa che
salvi me e i miei cari. Impegnata così [impegnata così!], la giornata è diventata interessante, i
suggerimenti dati uno spunto autorevole, è stupido non prenderli in considerazione; le parole lette e
ascoltate entrano in dialogo con la mia ricerca e ne cerco la compagnia [incomincia a cercare la
compagnia che la aiuta a questo]. Sono ancora titubante, ma trovo il coraggio di mettere a tema con
alcuni amici certe domande non più con l’affanno di dire la cosa giusta, ma di scoprire il nesso tra
Lui e me, mi slego dall’immagine di me che mi sono costruita e mi scopro libera nel rapporto con
gli altri. L’avventura è ricominciata [è così: l’avventura ricomincia quando noi ci lasciamo generare
dal carisma, cioè quando lo prendiamo sul serio, quando semplicemente incominciamo a seguire].
Tutto ha ripreso interesse e gli attimi sono passi [attenzione: gli attimi sono passi della strada], non
più istanti ingarbugliati, e mi sorprendo a guardarmi con tenerezza, non più con spavento, e mi
commuovo del fatto che potrei perfino innamorarmi di Chi riesce a farmi stare così bene con me
stessa. E già che ti ho scritto prendo l’occasione di chiederti conferma di questo». Ma la conferma
ce l’ha lì, ce l’ha lei nell’esperienza che sta facendo. Come dice Giussani, la fede è un’esperienza
presente dove uno ha la conferma della verità dell’esperienza che fa, come per lei: l’avventura è
ricominciata, la realtà è diventata interessante, i suggerimenti sono spunto, gli istanti sono passi;
non è che ha bisogno di una conferma “esterna” dell’autorità, perché l’autorità, il seguire è dentro
l’esperienza che fa, e qui si vede in modo solare. All’inizio, nella prima parte, c’era un certo
riferimento all’autorità, esterno, perché non era coinvolta nella sua persona, adesso si vede che
l’autorità fa parte dell’esperienza; in che cosa si vede? Che cambia l’esperienza. Si vede5
dall’esperienza stessa. Perché? Perché l’esperienza è totalmente diversa. Come dico sempre: gli
ingredienti sono gli stessi, la minestra è diversa. In che cosa si vede? Nell’esperienza stessa. Lei lo
dice sinteticamente con una parola: seguire. Cambia l’esperienza. Prima era un seguire senza
prendere sul serio la proposta – non è che fosse contro, non è che stesse facendo niente di diverso,
semplicemente non prendeva sul serio le ipotesi di lavoro per verificarle –; siccome, a un certo
momento, per il bisogno che aveva ha cominciato a prenderle sul serio, allora è incominciata la
sorpresa. La sorpresa: perché per lei è una sorpresa pensare che adesso comincia l’avventura che
prima era bloccata. Colpisce leggere queste vostre lettere, perché dicono meglio di qualsiasi
spiegazione che cos’è la vita. Gente normalissima, come ciascuno di noi, che semplicemente prende
sul serio quello che ci diciamo e comincia a verificarlo, a vincere, a rispondere a tutte le cose, a
usare la ragione in modo diverso, a non fluttuare come prima, a sperimentare una pienezza e
un’intensità che prima non conosceva. Dico questo perché è una speranza per ciascuno di noi; non
lo dice un “personaggio”, no, lo dice una persona come noi. Qual è la differenza? Non il ruolo, non
la carica, non la responsabilità che ha, ma che nella semplicità prende sul serio la proposta che
viene fatta, e succede questo che ho appena letto. Io sono il primo a restare senza parole davanti a
quello che succede nelle persone quando incominciano – come dice lei – a seguire.
Volevo provare a raccontare come il lavoro di Scuola di comunità sta illuminando l’esperienza del
mio ritorno a scuola dopo un anno di assenza. Ho scoperto che un uso non ridotto della ragione
c’entra con una possibilità di novità continua e di ripresa proprio nell’istante. I primi giorni del
mio ritorno a scuola ero molto preoccupata, perché un po’ temevo di non farcela fisicamente e un
po’ avevo il sospetto che il ritorno alla vita normale fosse un di meno rispetto alla possibilità di
vivere intensamente il reale; dopo i fatti eccezionali di cui ero stata fatta oggetto nell’anno rispetto
alla mia malattia, temevo che tornare alla normalità significasse un di meno, in qualche modo.
Quando, poi, all’ultima Scuola di comunità tu ci hai detto che il cristianesimo è la modalità
sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose, ho capito che la Giornata d’inizio anno l’avevo
già fatta fuori ed ero da un’altra parte, e questo mi ha interrogato molto rispetto al mio ritorno al
lavoro. È vero che la stanchezza aumentava, ma questo mi ha costretto ogni giorno a verificare
quel punto della contingenza, perché non mi ero mai accorta come adesso che se io sto in piedi è
solo e unicamente perché mi appoggio a un Altro, e questo io lo vedo tutte le mattine proprio
andando a scuola. Poi ho cominciato piano piano a osservarmi in azione, e mi sono accorta che
rispetto al passato c’era tutta una serie di cose che quest’anno facevo in modo diverso: interrogare
i ragazzi, correggere i compiti, trattare alcuni studenti particolarmente di icili; ho cominciato a
domandarmi il perché. Io l’anno scorso non ho fatto corsi di aggiornamento, non mi sono
preoccupata del metodo di insegnare, e tornando a scuola non avevo programmato di cambiare
qualche cosa, però poi ho scoperto che il cambiamento dipendeva dal fatto che io ero diventata
molto più certa, per tutto quello che avevo visto, che entrando in classe c’è Uno che vince e che io
sono chiamata a riconoscere questo, innanzitutto. E questa cosa mi ha liberato dal mio sospetto che
la normalità non fosse un’occasione di vivere intensamente il reale, e poi mi ha fatto anche sentire
unite due cose che per me erano divise, cioè la mia malattia e il mio lavoro, che per me erano
sempre una contraddizione aperta, non capivo come potessero essere collegate. L’altra cosa che
sto scoprendo è che l’uso vero della ragione consiste, per il mio lavoro, nella possibilità di
riprendere realmente nell’istante, e quindi mi capita spessissimo che proprio da un istante all’altro,
nel momento in cui io mi accorgo che io sono Tu-che-mi-fai, questo riapre una possibilità che
altrimenti facilmente decadrebbe. Sto scoprendo che anche se io non sono una che molla di fronte
alle di icoltà, c’è un modo di non mollare che è un tuo proposito che appiccichi sul reale, e questo
dopo un po’ ti lascia senza fiato perché comunque, anche se le cose vanno bene, il tuo proposito ti
affanna, ti logora; e comunque esaspera l’altro, perché in questo modo tu non guardi quello che
hai davanti, ma insegui quello che hai in mente tu. La settimana scorsa è successo un episodio che
mi ha illuminato in questo senso. Il giorno del nubifragio pazzesco che c’è stato a Roma io sono
arrivata a scuola mezza morta, come molti romani, e a scuola c’era il caos più totale (corrente che6
non c’era, alunni che arrivavano mezzi distrutti), e il mio primo pensiero è stato: questa è una
giornata persa perché in queste condizioni è impossibile fare lezione. Poi, accorgendomi di quello
che stavo dicendo, ho capito che la mia ragione era già stata travolta dal nubifragio, perché stavo
dicendo che non c’era niente da fare in quella situazione. E mi sono detta: ma perché questi che
stanno qui, che sono riusciti ad arrivare a scuola, non li dovrei trattare come una presenza, che
cosa me lo impedisce? Da quel momento sono accadute, semplicemente dentro i dialoghi che
nascevano dalla lezione di storia o da quello che era il lavoro di tutti i giorni, tutta una serie di
spunti proprio belli. Uscendo da scuola ero contentissima, ma non perché ero riuscita a fare
lezione e quindi non avevo perso tempo, ma perché, per usare l’immagine che usavi tu la volta
scorsa, avevo attraversato le turbolenze in qualche modo: questo rischiare e il voler trattare quella
situazione presente come una presenza, mi aveva consentito di uscire più contenta anche in
giornate in cui ci sono tante cose che mi feriscono e che mi farebbero soffrire. E quindi anche
rispetto a tutte le cose che non capisco e che mi farebbero soffrire, queste esperienze che sto
vivendo – rispetto all’uso allargato della ragione – mi fanno essere certa che, comunque, c’è un
punto in cui io sono fatta in ogni istante, e che questa cosa mi sostiene e mi libera continuamente.
E questa coscienza che cosa c’entra con la tua malattia? Perché la tua malattia è stata positiva?
È stata positiva perché io in quella circostanza che non ho scelto mi sono accorta realmente che
c’era Qualcuno che mi faceva nell’istante e che attraverso anche questa situazione mi consentiva di
verificare la mia fede in continuazione. Vedere che c’era Uno che mi faceva compagnia mi ha
cambiato, ma mi ha cambiato nelle cose che poi riguardano il lavoro, non solo rispetto alla
malattia.
Quando diciamo che la circostanza è positiva stiamo dicendo questo, e stiamo dicendo che ci rende
più noi stessi, tanto è vero che possiamo vivere la normalità con una diversità rispetto a prima; la
circostanza non è soltanto un momento di passaggio che dobbiamo sopportare, è che introduce uno
sguardo nuovo su di me, tanto che posso incominciare a fare lezione diversamente e posso
affrontare la normalità senza la solita riduzione, perché la malattia (o la difficoltà) mi ha costretto a
non rimanere all’apparenza, a usare la ragione per poter vivere in un modo più vero. E si vede che
uno lo ha imparato perché, quando finisce un certo periodo, continua a usare la ragione
diversamente: è diventata sua una modalità nuova di stare nel reale.
In questi ultimi tempi mi sono trovata spesso ad accorgermi delle cose come presenti. Per esempio,
io faccio il dottorato, ho un laureando con me e lui ha un modo di fare che proprio non sopporto. A
un certo punto, però, invece di guardarlo volendo che facesse quello che dicevo io, mi sono fermata
e mi sono accorta che lui era lì e che tutte le cose che a lui interessavano, e che a me magari
interessavano di meno, potevano essere un’occasione anche per me di imparare da quello che a lui
piace. Però io non ho fatto nulla per trovarmi in questa posizione, e allora la mia domanda è
questa: qual è il mio lavoro per accorgermi sempre delle cose come presenti? Che cosa vuol dire
educare la ragione ad aprirsi al linguaggio dell’essere? Mentre ci pensavo mi è successa una cosa
che forse mi ha fatto capire un po’ la risposta, però vorrei chiederti un aiuto. Ieri ero in
metropolitana e stavo leggendo la Giornata d’inizio anno; a un certo punto, entra un tizio che
suona la fisarmonica, e io ho incominciato a pensare: ma guarda questo se doveva entrare qui, io
stavo leggendo, ora mi disturba, e in un primo momento cerco di concentrarmi sul testo. Poi, a un
certo punto, penso: ma qui Carrón che cosa sta dicendo? Di cogliere le cose come presenti, e io
questo qui non lo sto neanche considerando; allora alzo gli occhi e mi metto ad ascoltarlo. Mi
sembra che fare seriamente il lavoro di Scuola di comunità, in qualche modo, mi aiuti a guardare
le cose come presenti, però vorrei capire se c’è altro, se è questo e se c’è altro.
È così se non rimaniamo soltanto all’apparenza. Che cosa vuol dire riconoscere le cose presenti
come presenza? Che una foglia, che sta lì e non ti disturba – e allora non può neanche costringerti a
fare un lavoro perché non ti disturba, perché non ti dà fastidio –, grida una presenza? Che noi
incominciamo a intravedere, almeno, le cose presenti senza darle per scontate, cercando di
immedesimarci, per sperimentare che cosa potrebbe diventare la vita se io incominciassi a rendermi7
conto di non dare niente per scontato, niente, niente, niente, non so che cosa, niente! Cioè a
guardare le cose presenti come presenza. Al posto della foglia mettete qualsiasi altra circostanza,
pur dolorosa, pur soffocante, e anche in quella situazione provate a guardare le cose presenti come
presenza. Quando siete incastrati o state soffocando, le cose non sono presenti? Se guardassimo le
cose presenti come presenza, che respiro ciò porterebbe all’istante in cui stiamo soffocando! Se noi
non intravediamo questo, chi ce lo fa fare? Se noi non intravediamo che cosa guadagneremmo nella
vita nel fare questo lavoro che ci propone don Giussani – che, come vedete, non è altro che quello
che ci propone il Papa –, non colmeremo mai la distanza che sentiamo tra noi e le loro
preoccupazioni educative, è micidiale! Perché a noi verrebbe subito da pensare che qualsiasi altra
cosa è più importante, ma loro insistono senza sosta in questo. E noi su questo facciamo veramente
fatica, per questo se attraverso gli esempi e le testimonianze che leggo, non intravediamo dove le
persone incominciano a vedere che cosa potrebbe dire per la vita questo, chi ce lo fa fare? Perché,
come abbiamo detto alla Giornata d’inizio anno, se soffochi è perché sei positivista. Punto.
Soffochi? Non prendertela con la circostanza, non prendertela con il marito o con la moglie, non
prendertela con il datore di lavoro, non te la prendere con qualcosa fuori di te! Soffochi? Positivista!
Perché il capo può essere così, la moglie può essere così o il datore di lavoro può essere così o la
circostanza può essere così, ma nessuna di queste cose può impedire che io viva questa circostanza
in un modo non positivista, cominciando a respirare; altrimenti l’unica cosa che posso fare è
sperare, aspettare, attendere che qualcosa succeda che… No, io posso cominciare a vivere qualsiasi
circostanza in un modo diverso perché questa è la novità che ha introdotto Cristo! Ha introdotto una
novità nella vita che mi consente di usare la ragione secondo la sua vera natura, e perciò comincio a
guardare, come dice Giussani, le cose presenti come presenza. Senza di questo qual è la
convenienza umana della fede? Se, infatti, non ci è stato promesso che a noi sarà risparmiata la
fatica di tutti, perché dovremmo perdere tempo e stare qui questa sera, se non per aiutarci e
sostenerci in un uso della ragione, in un modo di vivere la realtà secondo la sua vera natura? L’ha
detto il Papa: ragione e natura nella loro correlazione, perché soltanto una ragione nella sua
correlazione con la realtà può essere non ridotta, e una realtà in correlazione con la ragione può
essere non soffocante. Senza di questo noi viviamo come tutti, e il cristianesimo è soltanto
un’aggiunta che non cambia, come dicevi, la normalità. Ma noi abbiamo visto uno che poteva
continuare a gridare la positività della realtà anche a ottant’anni, e tutti sappiamo il dolore che
sopportava. Almeno qualche crepa nella nostra monolitica convinzione che non c’è altro da fare una
testimonianza così la introduce! E un desiderio di partecipare a questa strada lo introduce!
Dobbiamo aiutarci e domandare che questa intuizione diventi operativa, affinché possiamo anche
noi respirare come don Giussani in qualsiasi situazione.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 9 novembre alle ore 21.30. Riprenderemo il
capitolo undicesimo de Il senso religioso, su cui avevamo fatto già gli Esercizi della Fraternità
dell’anno scorso e che potete riprendere.
Come avete visto sul sito di CL è uscito un documento di giudizio sulla situazione, un giudizio del
movimento di CL: «La crisi sfida per un cambiamento». È una documentazione di quanto stiamo
dicendo, cioè è un tentativo di guardare la realtà a partire da quello che abbiamo detto questa sera,
perché non possiamo affermare che la realtà non è positiva davanti alle montagne o alle stelle, se
non possiamo dirlo davanti alla crisi! Per questo, che cosa sostanzialmente dice il volantino? Già
cominciamo a ricevere delle reazioni a questo: «Il giudizio sulla crisi è arrivato come aria fresca.
Finalmente un aiuto concreto a guardare questa cosa che ancora non mi ha toccato personalmente
ma che investe diverse persone intorno a me e che si profila minacciosa all’orizzonte. Soprattutto
mi è sembrato un esempio chiarissimo di cosa voglia dire fissare come presenza le cose presenti.
Che la crisi c’è lo sappiamo tutti, ma normalmente io passo alle conseguenze: cosa fare, che
strategia adottare, come è meglio muoversi, cioè salto il dato, il dato che ho davanti agli occhi e non
ne conosco la vera natura. Invece nel volantino l’incipit è chiaro [questa è la sfida: la realtà è8
positiva, primo perché mette in modo la persona; prima di tutte le strategie la crisi è un dato che mi
mette in moto, dunque è un’occasione]. Al gruppetto di Scuola di comunità, lavorando proprio sul
quartino sulla crisi, dopo un lungo discutere, è proprio emerso chiaramente che di fronte alla crisi ci
possono essere due reazioni. Una, di chi guarda la crisi come un’occasione: la realtà è ultimamente
positiva, e si mette in moto; l’altra, di chi si arrabbia e si ribella [e scende in piazza a lanciare
sanpietrini contro le banche]. A un certo punto della discussione, un amico ha chiesto: ma qual è la
differenza tra le due posizioni? Da che cosa nasce una posizione come quella descritta nel
volantino? Mi è sembrata una domanda decisiva, soprattutto perché ha smascherato tante mie
riduzioni. Pur avendo presenti alcuni fatti in cui in me ho sorpreso una posizione di apertura rispetto
alla realtà che avevo davanti, in quel momento, di fronte alla sua domanda, non avrei saputo
rispondere che con teorie e, sotto sotto, mi sono accorta che avrei ridotto la questione a una
differenza di atteggiamento psicologico; invece quella domanda è diventata anche mia». Tante volte
pensiamo che fare il capitolo decimo de Il senso religioso è come una sorta di introspezione
psicologica, ma siamo matti? Non abbiamo altro da fare? Stiamo parlando della natura della realtà,
non della introspezione psicologica! Stiamo parlando della natura, della realtà e dell’io. Ma noi il
sentire dire Giussani: «Scendere al profondo del mio essere», lo confondiamo con una sorta di
introspezione psicologica – per dire che siamo veramente “fuori” noi; noi, non gli altri!
Allora qual è il punto, come dice questa lettera, il punto più rivoluzionario e decisivo del documento
«La crisi sfida per un cambiamento»? Proprio all’inizio, dove si propone e si mette in opera quel
cambiamento di prospettiva di concezione che è il contenuto del capitolo decimo de Il senso
religioso e della Giornata d’inizio anno: la realtà è positiva. Ma come si capisce dai primi dialoghi
avuti, per tutti la realtà non è positiva, tanto è vero che basta che appaia un’altra cosa per mettere in
dubbio e in discussione o per incominciare la fluttuazione che abbiamo visto; perciò ci si difende da
essa, la si maledice, la si incolpa e si vorrebbe fuggire lontano, non negarla e, se non è possibile,
nascondersi. La vera sfida allora è questa: perché noi possiamo dire che la realtà è positiva? Perché
se noi non possiamo dirlo con convinzione, noi, davanti alla crisi, rimaniamo zitti, zitti! Ci uniremo
al corteo dei lamenti – spero non ai sanpietrini, ma almeno dei lamenti, sì –. Ma qui vediamo che
noi non diventeremo una presenza, se non affrontiamo, ciascuno personalmente, e insieme come
comunità, la sfida del reale, la sfida della crisi. Altrimenti davanti ai compagni, ai colleghi, agli
amici che abbiamo e che hanno perso il lavoro o che attraversano delle difficoltà, noi non apriamo
bocca perché non sappiamo che cosa dire. Allora questo urge, prima di tutto, in ciascuno di noi.
Perché noi possiamo dire che la realtà è positiva? Attenzione, non si tratta di una interpretazione
“cattolica” della realtà, come a dire: siccome abbiamo una certa partenza, un’idea precostituita, un
preconcetto religioso, interpretiamo la realtà come positiva anche se in realtà è negativa, e per
questo non lo possiamo dire a tutti perché altri non condividono la nostra fede; invece altri che non
hanno questa partenza la interpretano diversamente e possono permettersi di dire che la realtà è
negativa, cioè possono dire pane al pane e vino al vino perché non sono costretti dalla loro
ideologia. No! Questa è la sfida: non si tratta di “battezzare” la realtà, ma di riconoscerla nella sua
vera natura. Per questo è veramente la verifica di quello che ci diciamo, perché quando leggiamo il
capitolo decimo de Il senso religioso o facciamo la Giornata d’inizio anno, pensiamo che sono
momenti “interni”, per gli addetti al lavoro, per quelli che sono già convinti nell’ovile, ma sulla
realtà noi non possiamo dire queste stesse cose, ne dobbiamo dire altre. Ma adesso abbiamo
stampato un giudizio dove diciamo le stesse cose applicate alla realtà; stanno in piedi o non stanno
in piedi? Perché se non stanno in piedi, non sta in piedi solo il giudizio del quartino, ma non sta in
piedi l’inizio d’anno, non sta in piedi il capitolo decimo de Il senso religioso; si capisce? Allora
questa è la sfida, che don Giussani e il Papa portano avanti, questa è la battaglia: è vero o non è vero
il giudizio che la realtà è positiva? Capite che questo non lo possiamo risolvere semplicemente con
le nostre chiacchiere e con una compagnia sentimentale. O con un modo di stare insieme che ci
risparmia questo uso della ragione così. Questo non vuol dire che lo dobbiamo fare
individualisticamente; dobbiamo accompagnarci a farlo, ma accompagnarci perché diventi
personale, di ciascuno di noi, perché altrimenti non potremmo stare davanti alla crisi. Per questo noi9
non battezziamo o ribattezziamo niente, in gioco c’è il riconoscimento operato dalla ragione della
realtà nella sua natura ultima. Tutto ciò che c’è, in quanto è accaduto, in quanto il Mistero ha
permesso che accadesse – perché tutto ha un’origine in quel Tu –, per il fatto che è accaduto, è una
provocazione alla nostra vita, cioè un invito al cambiamento, è un’occasione di un passo verso il
destino, è per noi, è via, è strumento del nostro cammino, è segno, diciamolo: la realtà è segno.
Questa è la natura ultima della realtà, e quello che la crisi mette davanti a tutti è questa sfida, a noi e
agli altri, perché la sfida è per tutti.
Nel quartino si parla di quella tradizione ebraico-cristiana per la quale la realtà è percepita come
ultimamente positiva. Questo vuol dire che è qualcosa che noi “aggiungiamo” in forza della nostra
tradizione? No. È che la nostra tradizione, la nostra fede, ridestando il senso religioso, ridestando la
nostra ragione, ridestando la nostra capacità di stare nel reale e di trattare la realtà secondo la vera
natura, ci consente di percepire come positiva la realtà perché è positiva; il che è diverso
dall’aggiungere qualcosa alla realtà come fossimo dei visionari: il fatto che la fede ridesta il senso
religioso ci consente di percepire la realtà secondo la sua vera natura. È ontologicamente positiva la
realtà. Il problema è che noi cediamo alla tentazione di intendere in modo sentimentale e
moralistico l’affermazione: «La realtà è positiva», come se positiva significasse desiderabile o
gradita. E poiché ci sono circostanze, dati che non possono essere percepiti come desiderabili, allora
ci sembra di barare, di giocare sporco, dicendo che la realtà è positiva. Perché? Perché se noi non
arriviamo a vedere una foglia presente come presenza o una malattia come presenza, o qualsiasi
cosa come presenza di un Tu che è all’origine, noi non riusciamo a dire che la realtà è positiva. Per
questo se riduciamo la realtà all’apparenza, non possiamo dire che è positiva, come mi diceva poco
fa un amico raccontando di Marco Simoncelli, il motociclista morto durante una gara; davanti a uno
che faceva una battuta sulla sua morte, una suora presente ha detto: «È una disgrazia che sia morto,
o è una fortuna che uno possa trovare la meta?». Nel modo di reagire davanti a una disgrazia si vede
tutto il nostro atteggiamento. Non è che uno lo desidera – non sappiamo qual è il disegno di Dio –,
ma siamo certi che è arrivato alla meta o che ha avuto sfortuna? Se non abbiamo risposta per
Simoncelli, non abbiamo risposta neanche per noi e per i nostri cari, né per i nostri ammalati. La
realtà è positiva perché c’è. In quanto c’è, la realtà è provocazione, è segno, e quindi occasione di
cambiamento, di risveglio dal mio torpore, come diceva prima l’amica insegnante, la malattia può
essere l’occasione del risveglio che dà frutti inaspettati, sorprendenti, come abbiamo visto. Ma un
riconoscimento così della realtà che cosa implica? La ragione, un uso della ragione secondo la sua
vera natura di conoscenza del reale secondo tutti i fattori; un uso vero e compiuto della ragione,
perché la ragione è fatta per cogliere la realtà come dato vibrante di un’attrattiva, come
provocazione e come invito, ci siamo detti. Ma per la nostra fragilità e per il condizionamento del
contesto, per il potere che ci circonda, questo uso della ragione tante volte, come abbiamo sentito in
una lettera, è strano. Questo è il contributo che è venuto a darci Cristo. Siccome siamo in questa
situazione, Cristo si è incarnato, è diventato carne, non per risparmiarci questo lavoro della ragione,
ma per diventare compagno, per ridestare tutta la possibilità della ragione di riconoscere il reale
come è. Quando Giussani dice che Cristo è venuto, come abbiamo detto il 26 gennaio, per
risvegliare il senso religioso, sta dicendo che è venuto per farci diventare uomini in modo tale che
possiamo guardare la realtà secondo la sua vera natura, senza essere visionari. Ecco, se noi
facciamo questo, possiamo dialogare con tutti, altrimenti dialogheremo soltanto con il nostro
ombelico nella nostra stanza, perché ci farà paura parlare con chiunque altro. Per questo non
perdiamo di vista che stiamo sempre facendo la stessa strada dal 26 gennaio; adesso vediamo
perché il senso religioso così vissuto, del quale la ragione è un segno palese e la realtà è un altro
segno, è la verifica della fede, perché se noi davanti a queste situazioni non viviamo la realtà nella
sua vera natura, vuol dire che la fede, la nostra fede, come diceva don Giussani, è mancante del
senso religioso, è una fede che non è in grado di ridestare l’umano. Ma di una fede che non è in
grado di ridestare l’umano, di salvare l’umano, chi se ne frega? È un ostacolo più che un aiuto. Per
questo ci interessa fare la verifica anche con il quartino, che è uno strumento per giocarci nel reale e
fare la verifica non soltanto qui, alla Scuola di comunità, ma nel reale, giocandoci con tutti sulla10
crisi. Per questo vorremmo usare questo quartino per una battaglia culturale pubblica, di CL in
quanto tale, come una modalità di stare noi nel reale, di dare un contributo ai nostri colleghi, ai
nostri amici, per portare loro la speranza che abbiamo in noi, ma una speranza che non può essere
portata ragionevolmente in questo contesto se non per un uso vero della ragione. Non possiamo
diventare credibili soltanto essendo “pii”, ma diventando veramente uomini con l’uso della ragione,
come succede al Papa, che va al Parlamento tedesco e sfida tutti con un uso della ragione diverso,
perché il nostro contributo sarà decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della
realtà, altrimenti ci possono non mettere in galera, ma saremo nella società come persone
insignificanti per gli uomini. Tale impegno non si esaurisce nel breve periodo, ma ci accompagnerà
per i prossimi mesi. Il quartino è stato pensato per aiutare noi stessi e chiunque incontriamo a
trovare ragioni adeguate per vivere la crisi come sfida per un cambiamento, come per ridestare la
speranza che per ciascuno c’è una possibilità anche nella crisi. E questo lo possiamo portare
soltanto noi come cristiani, soltanto noi, perché a tutti gli altri già vedete cosa succede. Il giudizio
che sottende il quartino è che l’impeto di ciascuno è un bene per tutti, perché l’energia dell’io non si
esaurisce in se stessa, ma costruisce un popolo. E la storia dell’Italia è una dimostrazione di questo,
come abbiamo visto nella mostra 150 anni di sussidiarietà: nella storia d’Italia, davanti a situazioni
molto peggiori della nostra le persone si sono messe insieme e hanno costruito l’Italia. Vediamo che
è stato possibile. Non è che quello che proponiamo non sia realistico, l’esperienza di 150 anni
documenta che è stato più realistico di qualsiasi altra teoria. Per questo i momenti pubblici promossi
direttamente dal movimento, possono essere associati alla mostra sui 150 anni di sussidiarietà.
Come esempio per tutti e come suggerimento di un’immagine, che invitiamo a proporre ovunque, si
svolgerà un primo incontro a Milano, venerdì 4 novembre alle ore 21 presso il Mediolanum
Forum Assago, per lanciare a tutto campo il contenuto del quartino, come un esempio che ciascuno
di voi, nelle vostre comunità, possa riproporre secondo la modalità che ritenete più conveniente.
È disponibile su App Store l’applicazione del libretto verde dei Canti per iPhone, iPad e iPod touch.
Prossimamente sarà disponibile anche quella de Il libro delle ore.
Concludiamo il nostro incontro pregando per l’incontro che avremo domani col Papa e coi
rappresentanti delle altre religioni, ad Assisi.
Veni Sancte Spiritus

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