venerdì 14 ottobre 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 12 ottobre 2011

Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo X, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-150. «Vivere
sempre intensamente il reale», Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo
Mondo, Milano 2011, pp. I-XVI.
• Le stoppie aride
• Il mio volto
Gloria
«Nell’essere tu fammi camminare». Domandiamo che questo sia il cammino di quest’anno.
La Giornata d’inizio anno, come abbiamo visto, è una proposta alla ragione e alla libertà di ciascuno di noi per rispondere alle urgenze del vivere. Ma questa proposta si capisce soltanto nell’esperienza, perché noi dobbiamo essere fermi su quella decisiva indicazione che ci ha sempre dato don Giussani: la realtà si fa trasparente nell’esperienza. Perciò la verità della proposta non si raggiunge nei pensieri e nelle intenzioni: si raggiunge verificandola nell’esperienza. Per questo ciascuno è
chiamato, sfidato a verificare la proposta nel reale, nella vita, in modo tale che possa apparire davanti ai nostri occhi la sua verità; altrimenti saranno parole, e penseremo di avere capito. Ma non si capisce che cos’è l’amore leggendo libri sull’amore, anzitutto; si capisce se si fa esperienza! Per questo il lavoro che facciamo qui non può sostituire questa esperienza. Il nostro radunarci è un
accompagnarci insieme alla verifica di un’esperienza presente, confermata dall’esperienza stessa.
Qui stiamo insieme per testimoniarci il lavoro che abbiamo fatto, in modo tale da aiutarci gli uni gli altri, perché il lavoro che fa uno è un bene per tutti, la scoperta che fa uno è un bene per tutti, la grazia data a uno è un bene per tutti; e per raccontarci fatti che ci aiutano a capire la verità della proposta. Questo rapporto tra il lavoro personale e la verifica comune è decisivo affinché ciascuno
di noi possa essere aiutato, sostenuto, accompagnato nell’esperienza che stiamo facendo.


Io inizio da zero, cioè da quando tu ci hai richiamato alla Giornata d’inizio anno quella frase del don Gius secondo cui noi non trattiamo le cose presenti come presenti, dalla foglia in avanti. Ed è proprio vero questo, ed è vero anche che quando invece faccio un lavoro e davanti alle cose vado fino in fondo e arrivo fino a riconoscere Lui, quando arrivo lì cambia tutto, perché è vero che si
muove anche l’affettività e riaccade quell’unità. Ma questo accade una volta al millennio, invece tutto, tutto, tutto richiede da me un lavoro così, che non faccio mai, se non perché sono obbligato dalla realtà. Mi sono spaventato perché ho detto: ma io dove vivo? Se tratto tutte le cose “normalmente” e non arrivo mai alla verità di queste cose, a vedere Lui, in che realtà vivo io tutto il giorno? Dopo la Giornata d’inizio anno la cosa evidente è che è spaventosa questa distrazione, tanto che non mi accorgo neanche della grandezza del problema che don Giussani mi ha riposto.

Questo che dici è un lavoro che di solito non facciamo mai, e questo ci mostra fino a che punto noi siamo abituati, come dicevamo alla Giornata d’inizio anno citando don Giussani, a un uso debole della ragione. E come conseguenza di questo uso debole della ragione, vediamo che permane la frattura tra il riconoscimento e l’affettività. È importante che noi seguiamo davvero don Giussani,
perché noi facilmente pensiamo che ci sono altre questioni più decisive; e invece lui insiste che la vera questione è questa! Siamo disponibili a seguirlo o no? Perché di solito non lo facciamo mai: quante volte in vita nostra abbiamo letto Il senso religioso o il capitolo decimo, e quante volte l’abbiamo seguito in questo? Perciò è importante fin dall’inizio che non diciamo: «Ma questo io lo
so già...». La prima consapevolezza che dobbiamo avere è che questo non lo sappiamo affatto. E non lo sappiamo non perché non capiamo le parole: non lo sappiamo perché non l’abbiamo mai
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rischiato nella vita come ci dice lui! Infatti in tanti mi dite e scrivete: «Ma questo lavoro io non lo faccio mai». Sembra niente riconoscere questo, ma è il primo passo decisivo. Perché la conseguenza – come diceva chi è appena intervenuto – è: «Io non vivo nel reale». Vivere senza seguire il cammino proposto da don Giussani non è vivere il reale, perché così non raggiungo mai il reale per quel che davvero è. Allora possiamo agitarci per tante cose, ma quello che domina è la distrazione,
e la cosa più grave è che non ce ne rendiamo conto. E pensiamo sempre che ci sia qualcosa di più interessante da fare, di più decisivo da fare; poi possiamo anche riempirci la bocca di «Giussani, Giussani, Giussani», ma Giussani non lo seguiamo neanche morti perché su questo punto ce ne freghiamo di lui! Come mi scrive un amico: «Mi accorgo che quello che hai detto alla Giornata d’inizio anno è decisivo per la mia vita e ho bisogno che tu possa correggermi in questo lavoro.
Essere presenti al presente, poter vibrare con tutto me stesso di fronte alle cose presenti è quello che io più desidero, è quello di cui ho più bisogno, perché mi rendo conto che per me diventa insopportabile vivere con i pazienti, con la mia famiglia, con la mia morosa, con gli amici,aspettando la mia soddisfazione l’attimo dopo quello presente, cioè è insopportabile vivere come se il presente non ci fosse, come se quello che ho davanti agli occhi non potesse interessare la mia vita
[per questo desideriamo sempre che finisca l’attimo presente e che arrivi quello dopo, e così via: è insopportabile!]. E mi accorgo però che lo stupore di fronte all’essere e alle cose di cui parli, e a cui hai detto che dobbiamo riessere educati, io lo riduco nel 99% delle volte a uno stupore sentimentale, a una reazione che come tale non dipende da me e fluttua secondo la mia sensibilità e il mio stato d’animo. Mi rendo anche conto che questa attenzione all’essere, alla realtà, non può essere il frutto di un mio pensiero o di una mia intenzione buona e giusta; meglio, lo può essere, ma non dura perché del mio sforzo mi stufo subito, perché invece che rendere la vita più intensa la rende pesante.
È immediato, è facile riconoscere la differenza tra uno che è stupito e uno che pensa che dovrebbe stupirsi». Allora, il primo segnale della decisività del percorso che ci fa fare don Giussani è che se non lo faccio, la vita risulta insopportabile.


Nonostante l’abbia letto tante volte, non sono sicura di avere afferrato esattamente l’esperienza che ci vuole indicare don Giussani. Vorrei capire meglio quando il riconoscimento di questa presenza inesorabile è un vero atto della ragione e quando è solo un contraccolpo sentimentale.

E questa è la seconda questione importante di quel che stiamo dicendo. La differenza fondamentale è che un contraccolpo sentimentale ci lascia fluttuanti, cioè rimaniamo nel nostro stato d’animo sballottato, come se veramente non ci fosse qualcosa a cui attaccarci. Per questo mi piace l’esempio del sasso travolto dal torrente. Uno che è travolto dal torrente in che cosa vede se è soltanto un momento sentimentale o se afferra veramente qualche pezzo del reale? Che smette di fluttuare, che
ha qualcosa a cui aderire. Senza questo, io continuo a vivere dipendendo dallo stato d’animo; può cambiare in un momento, e nell’istante successivo è di nuovo in balìa della fluttuazione. Io mi rendo conto che c’è veramente un uso adeguato della ragione per il cambiamento che introduce in me. E questo lo vedo quando tutto il mio io è preso da quello che ho davanti. Per questo non trovo altra formula migliore di quella che usa don Giussani: tutto il problema della ragione e dell’intelligenza è contenuto nell’episodio di Giovanni e Andrea, perché tutti e due sono stati presi,
così presi che da allora, anche sbagliando migliaia di volte, sono sempre rimasti Suoi. Questo «Suoi» non può rimanere se non perché essi, in mezzo a tutte le cose, hanno afferrato qualcosa per sempre.


Mentre facevi la lezione ad Assago, mi ha colpito moltissimo una cosa di cui non mi ero mai accorta: la nostra storia usa la parola «presenza» per definire sia la natura ultima della realtà, sia l’avvenimento di Cristo ora, sia il nostro compito. Noi usiamo la stessa parola per dire tre cose che nel vocabolario del mondo si dicono con tre espressioni diverse (Cristo, la realtà, l’io). Mi ha fatto
molto colpo perché è come il suggerimento che io ho bisogno della Sua presenza per accorgermi che la realtà è una presenza, e questo mi rende presenza.
Ripeti questo. Ripetilo come l’hai detto che è una formula chiara.
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Che io ho bisogno della presenza di Cristo per accorgermi che la realtà è una presenza, ed è questo che mi rende presenza. Sennò il mio compito, per esempio nel mio lavoro, è sempre politico o ideologico. Il lunedì dopo la Giornata d’inizio anno sono entrata in una classe che mi preoccupa molto quest’anno, ho fatto una lezione bellissima e quando sono uscita mi sono domandata: perché è stata così bella? Che cosa è successo di così interessante?
È successo che io non ero dominata dalla mia lezione, ma dall’accorgermi di quello che accadeva nei ragazzi, e perciò mi sono messa veramente in dialogo con l’altro. È quando ti accorgi dell’altro come presenza che sei una presenza, se no non lo sei mai; puoi essere un capopopolo, puoi indottrinarli, ma non una presenza così.
E quel giorno che cosa ti ha fatto riconoscere come presenza quelli lì?
Quello che era successo il sabato prima.

Mi sembra molto interessante questo uso della parola «presenza» secondo le tre accezioni. La natura della realtà: le cose presenti come presenza. La natura del cristianesimo: una Presenza eccezionale. E la natura del compito: diventare una presenza per gli altri, nella realtà, nel mondo, nella storia. Invece questo essere presenza tante volte è come senza nessi, si percepisce in un certo modo dualisticamente, come mi scrive una persona: «Mentre parlavi ad Assago più volte mi sono entusiasmata e commossa fino alle lacrime, non a causa di una inclinazione sentimentale, che non ho, né perché stavo soltanto ascoltando una dottrina nuova, ma perché quel che sentivo era vero. In quel che hai detto e nelle parole del don Gius che ci hai ripetuto mi sono sentita guardata ancora come la prima volta, in un modo che senza dimenticare nulla né operare facili sconti mi ha ridetto,
abbracciandomi, chi sono e di cosa è fatto il reale. Mi hai ripetuto che il mio desiderio di essere non è un’utopia, ma ciò che, rendendo interessante la strada percorsa fino qui, ha cominciato davvero a diventare carne. E poi la cura con cui è stato preparato ogni particolare del gesto. Non era un’altra cosa che si aggiungeva alle tue parole, bensì un frammento effimero ma sacramentale di quella Presenza. Mi sono sentita spuntare dentro un po’ di quella baldanza ingenua che mi ha consentito di ridire proprio come mie le parole del salmo responsoriale della domenica: “Con Te mi getterò nella mischia, scavalcherò le mura”, e che mi sta facendo affrontare il lavoro e le varie incombenze quotidiane come l’alveo della grande domanda che tutto sia vero e quindi salvato. A fronte di questo mi ha un po’ sorpreso la posizione di alcuni amici a cui raccontavo di queste cose, che mi hanno detto: “Sì, è vero, ma poi ci dimentichiamo”, oppure: “Sì, ma poi guarda la vita, io vorrei capire qual è il lavoro da fare”, o ancora: “Sì, sì, ma poi, come ci giochiamo nell’ambiente?” [tutto staccato!]. Altre volte è stata una posizione anche mia, ma ora mi accorgo che quei “ma” e “però” distruggono ed esemplificano quel non vibrare di cui parlava il don Gius, che non consente di fermarsi neppure un momento di fronte a quel che hai detto, guardandolo e guardandosi con un istante di simpatia totale [non c’è neanche un momento di quella “passività” di cui abbiamo parlato]. Sembra che il lavoro di scoprire il reale come presenza, in fondo, sia ancora una premessa,
che prima o poi ci svelerai il mistero per essere presenti nell’ambiente [è impressionante: siccome questo ci sembra astratto, poi dobbiamo aggiungere qualcosa che ci renda presenti nell’ambiente!], per aiutarci fra noi, per essere contenti di quel che viviamo». È il dualismo, fatto e finito! Infatti, che cosa ci rende veramente una presenza? Che cosa ci fa riconoscere le cose presenti come
presenza? Fate questo test (io l’ho fatto su di me): alla fine dell’estate che cosa avete raccontato agli amici quando li avete visti di nuovo? Che cosa è stata presenza per voi durante l’estate, tanto che avete sentito il bisogno di raccontarla agli altri? Quegli aspetti, quei fatti in cui c’era qualcosa che vi aveva stupito. E perché vi aveva stupito? Perché lì c’era qualche eccedenza (che non si poteva
ridurre alle solite cose), per cui siamo stati facilitati da questa imponenza a riconoscere le cose presenti come presenti. Questo è quello che abbiamo raccontato. Le cose sono diventate così presenti per noi perché erano piene del Mistero che ci stupiva. La realtà è interessante, la realtà ci ha
interessato questa estate per quella possibilità di cogliere il Mistero presente in quelle cose. E sappiamo bene che cosa diventa la vita quando succedono queste cose. Attraverso queste cose noi siamo educati a riconoscere sempre di più ogni cosa presente, dalla foglia in poi, perché la presenza eccezionale di Cristo in questi fatti, in quello che succede, li rende così presenti a noi da farci venire
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fuori dalla distrazione in cui cadiamo costantemente. E questa è la modalità con cui il Mistero ci educa a riconoscere, poi, tutto come presenza, tutto some segno. E solo quando incominciano a vivere il reale così diventiamo una presenza. Il nostro diventare presenza non è un’aggiunta al modo di rapportarci al reale: è proprio il modo di rapportarci al reale! Lì noi facciamo la verifica se la nostra è diventata una presenza, perché questo è quello che fa la differenza; altrimenti nel reale
viviamo stufi come tutti, soffocando come tutti, e poi facciamo qualche gesto per dire che siamo presenti (che è un modo ridicolo di concepire la presenza). Per questo, poi, tante volte anche il grande gesto che facciamo – e quando occorre farlo si fa – non ha l’autorevolezza necessaria; perché non vedendoci presenti nel reale, nel quotidiano, che interesse ha il grande gesto?
L’autorevolezza, la possibilità di ascolto del gesto grande, del gesto che proponiamo a tutti, c’è se si è suscitata una curiosità rispetto a come viviamo il quotidiano, cioè se siamo diventati una presenza.
Se noi non superiamo questo dualismo le tre accezioni di «presenza» non coincidono più, e il cristianesimo diventa un’astrazione e allora dobbiamo «fare qualcosa» perché diventi concreto. Ma don Giussani ci ha detto che il cristianesimo è la modalità sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose! Noi diventiamo una presenza vivendo le solite cose con una diversità che è il fattore costitutivo di una vera presenza. Una presenza non è più grande perché più numerosa o più
spettacolare. Ci sono tante cose enormi, spettacolari, che non sono significative, che non sono presenza; perché la vera presenza non è nella sua spettacolarità o nel numero delle persone coinvolte, ma è nella sua diversità! E questa diversità nasce soltanto da questo modo di imparare il rapporto vero con il reale. Senza di questo non c’è niente da fare.


Volevo raccontare un episodio che mi è successo quest’estate. Parto per le mie vacanze al mare un po’ insofferente a tutto, soprattutto a me stessa. Con noi c’era una mamma dell’asilo di mio figlio, assolutamente sconosciuta, e io cercavo di evitarla perché se non sopportavo me stessa, figurati gli altri. Un giorno la incontro per caso, lei mi racconta che suo marito non è stato bene e io mi sono
sorpresa della mia libertà nel consigliarle le cose (proprio una libertà per cui mi dicevo: «Ma io non sono io»). E mi sono accorta che era Cristo che accadeva in me; da lì ho guardato tutto con una gratitudine incredibile: mio marito e i miei figli e il mare. La cosa che mi ha stupito è stato come guardavo la mia normalità dopo, cioè con il cuore commosso, e l’istante era pieno veramente della Sua presenza.

Grazie.

In Cattolica è arrivata la mostra del Meeting sui 150 anni dell’Unità d’Italia; venerdì noi guide vecchie la stavamo spiegando alle nuove guide; alla fine una delle nuove guide ci chiedeva:«Quindi tutta la tesi della mostra è che nelle varie epoche storiche un uomo mosso dal desiderio, difatto, ha creato quest’Italia?». E io gli dicevo: «Sì, però un desiderio che è concreto, un desiderio di fare soldi, un desiderio di incidere in un dibattito politico, un desiderio di educare, un desiderio
di sopravvivere». Però subito ci accorgevamo che non bastava… Un’amica delle guide del Meeting diceva: «Però attenti, perché la tesi di Giussani che mettiamo nell’ultimo pannello è ben precisa,dice che le forze che cambiano il mondo sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo, ma la forza che cambia il mondo è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo». E ci siamo accorti di come questa coscienza abbia riaperto tutta l’avventura della mostra: non perché fosse
una frase appiccicata, ma perché richiedeva veramente di dettagliarla nel particolare. E lì – come tu dicevi – arrivi a un punto che vince la paura, e allora lo dici al mondo, e lo dici con una consapevolezza e una dignità di cui ti accorgi. Allora rileggere quella frase è un riconvertirmi a quello che sta accadendo, e tutto è nuovo, tutto è dato: e la prima cosa data a me è il mio cuore
riacceso da quel che sta accadendo. E tutto questo ti fa essere presenza.

E a te – qui non dobbiamo perdere una briciola – che cosa ha fatto fare questo percorso?

Il rispiegare la mostra alle nuove guide.
E?
E ci siamo accorti che la tesi di Giussani aveva un nome e un cognome.
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Ma tu perché sei arrivato fino lì? Per un ragazzo che ti ha fatto una domanda. Se tu avessi lasciato perdere – «Ma che m’importa di questa domanda? Io ho spiegato tutta l’estate la mostra, e adesso arriva uno con le sue obiezioni?» –, non avresti fatto l’esperienza di cui parli. Tu ti sei lasciato
provocare dall’ultimo arrivato, forse. Avere accettato questo dato del reale ti ha fatto fare tutto questo percorso: «Ma il desiderio basta?». E allora sei andato a rileggere l’ultimo pannello che dice che il desiderio non basta, che un Uomo ha posto la Sua tenda in mezzo a noi. L’hai spiegato per una settimana intera, ma non te ne eri reso pienamente conto. Vedete cosa significa che le cose presenti diventano presenti? Ogni circostanza può essere, come in questo caso, l’occasione preziosa
di ricapire tutto. E questa è una novità che, adesso, può fare diventare ancora più interessante spiegare la mostra, no? Altrimenti sarebbe una ripetizione di quello che avete già fatto. Invece se noi siamo disponibili a non lasciar perdere niente del dato che accade, dell’imprevisto che succede, di quella modalità con cui la realtà mi sfida, noi incominciamo a vivere un’avventura appassionante, sempre più appassionante, perché tutto diventa sempre più nuovo. Perché? Perché non abbiamo
lasciato perdere neanche una foglia presente. Immaginate che cosa potrebbe diventare la vita, così! Invece di lamentarci riconosceremmo le circostanze non come un ostacolo, bensì come una risorsa che ci fa ricapire fino in fondo tutto. Ci conviene o no? Ciascuno deve decidere.


Dopo la Giornata d’inizio anno mi sono accorta che da un po’ di tempo vivevo abituata persino a me stessa, e quindi io ero la reazione o il sentimento di me stessa del momento. Per esempio, studiando – adesso sto facendo la tesi –, quello che mi capitava era che se riuscivo a scrivere più di cinque righe, allora ero contenta; e se invece non riuscivo a scrivere niente, allora tutto mi schiacciava. Oppure nei rapporti: se riuscivo a trattare in un certo modo i miei amici, allora ero a
posto ed ero contenta; se no, mi scandalizzavo subito di me e quindi diventavo la somma di tutti i vari stati d’animo. Accompagnata a questo, spuntava sempre quella nostalgia profonda che non mi lasciava e non mi lascia mai tranquilla, e quindi, quando ero tutta inquieta, diventavo la mia inquietudine. Invece questa settimana mi sono accorta di una cosa impressionante, che mi ha fatto
respirare ed essere lieta in tutto quello che vivevo. Ho iniziato a prendere sul serio il lavoro che ci hai proposto, cioè a usare la ragione in modo vero, e quindi non fermandomi alla pura reazione che avevo di me davanti alle cose, ma andando fino in fondo al mio volto, a chi sono. Mi sono iniziata a stupire innanzitutto del fatto che quando mi sveglio non mi do a me stessa, come non mi do da sola il desiderio di essere felice, non decido io di riavere quella nostalgia, e già questo mi ridice che io sono rapporto costante con Chi mi fa. Nemmeno il desiderio e l’irrequietudine me li do io, sono donati. E mi ritrovo così a dire, insieme al Papa: «Egli è più intimo a me di me stesso». Ho iniziato a guardare me stessa non come la somma di tutto quello che provavo, ma come la presenza del mio desiderio presente. Il mio nome è legato a un Tu che mi preferisce costantemente, sia che sia “sversa” sia che riesca nelle cose. E, come hai detto tu, la vita inizia ad avere un punto di appoggio saldo, non sentimentale o fluttuante, non dipendente dagli stati d’animo, ma certo, per quel legame della ragione con la realtà fino alla sua origine. Inizio a stupirmi di me stessa e a non essere in balìa dei miei stati d’animo, delle mie riuscite o dei miei fallimenti; addirittura inizio a guardare con simpatia anche la mia tristezza, al di là della circostanza favorevole o sfavorevole. E
questo dà ragione anche di quello che è successo ieri in università, dove abbiamo fatto un banchetto per raccogliere dei fondi per l’Avsi; ed è stato impressionante, perché davanti a tutte le persone che incontravo con i miei amici ero libera anche dal risultato, perché sapevo chi ero, e guardandoli li potevo rendere partecipi della stessa preferenza che fa essere me.

Grazie. Questo è un esempio rispetto alla domanda che è stata fatta prima: come possiamo riconoscere quando il nostro è un uso non ridotto della ragione e quando c’è soltanto un contraccolpo sentimentale? Perché noi vediamo benissimo che cosa vuol dire attraversare la fluttuazione degli stati d’animo per arrivare a quel fondamento più «intimo» di tutte le fluttuazioni.
E per rendermi conto che io sono più di tutti i miei stati sentimentali non basta il sentimento, occorre un uso vero della ragione. È come uno che è nella palude: per trovare un fondamento sicuro deve scavare fino a toccare la roccia. O quando uno va sull’aereo e ci sono le turbolenze: tenere la
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rotta è l’unica possibilità per attraversare le turbolenze. Noi non possiamo non vivere nelle turbolenze, per tutti gli stati d’animo che ci assalgono in continuazione, ogni cosa ci provoca qualche turbolenza. La questione è se noi rimaniamo nelle turbolenze o nella palude, o se attraversiamo le turbolenze e la palude. Questo attraversamento è l’uso allargato della ragione. E io
me ne rendo conto perché raggiungo qualcosa che è oltre le fluttuazioni dello stato d’animo. E in che cosa si vede? Che io acquisto una consapevolezza di me come rapporto col Tu, e questo mi porta una pienezza che mi rende libero dall’esito delle cose. Che consapevolezza! Mi viene in mente spesso questa affermazione di Gesù quando i discepoli ritornano “carichi” dalla missione in cui li aveva mandati: «Ma non vi rendete conto che questo non vi basta, anche se avete fatto miracoli e avete scacciato i demòni? Non rallegratevi soltanto di questo, non rimanete dipendenti da questo; rallegratevi piuttosto del fatto che i vostri nomi sono scritti nel Cielo, cioè del fatto di essere stati scelti». È come se Gesù li conducesse a una profondità nel rapporto con la realtà di se stessi che loro non avrebbero potuto raggiungere neanche con tutto il loro successo pastorale o missionario. Senza questa profondità noi dipendiamo da tutto, perché non troviamo e non
raggiungiamo un punto che rimane in qualsiasi fluttuazione; e questo ci rende incerti, in balìa di qualsiasi cosa. Cosa mi conferma che c’è qualcosa di più profondo di tutti gli stati d’animo? Che io in qualsiasi momento posso dire che questa nostalgia profonda, questo desiderio che mi trovo addosso, questa voragine di pienezza che mi costituisce, tutto questo non me lo posso dare, non lo do a me stesso. Nella mentalità positivistica in cui siamo immersi, quanto più uno si sente addosso questo struggimento tanto più lo ritiene il segno più palese che non c’è risposta. Ma guarda in faccia le cose: questa nostalgia, questo desiderio, questo struggimento, te li dai da te stesso? È esattamente il contrario: nel riconoscimento di questo desiderio è il segno più palese della Sua presenza, perché ci deve essere un Altro che te lo ridesta così potentemente. Allora ciò che per noi costituisce
l’obiezione fondamentale, è invece la conferma più decisiva. È alla rovescia, noi non capiamo niente! Perché? Perché per noi queste cose presenti non sono presenza, diamo per scontato che ci siano. Non è scontato, non è scontato!!! La cima di questo desiderio sconfinato testimonia la Sua presenza. E questo ci rende presenti nel mondo, nel reale, nel lavoro, con i colleghi, con la moglie, con i figli; diventiamo una presenza diversa. «Ma tu perché sei così?», è la domanda che si scatena,
non perché fai un gesto di non so quali dimensioni, ma per il tuo essere una presenza. E questo è incidente sulla storia, sì o no? Può muovere qualcosa nell’intimo di chi ci sta intorno, sì o no? Perché questa è la sfida più grande per un essere umano: vedere che quello che desidera è presente,è raggiungibile. E questo è ciò che destò in Giovanni e Andrea tutto il desiderio di seguirLo. Non si
comunica il cristianesimo in altro modo. Soltanto se noi accettiamo di fare questa strada, possiamo prima di tutto vedere in noi che cosa succede e per questo riempirci di una gratitudine e di una tenerezza verso noi stessi, di una commozione per questa preferenza di Cristo che ci consente di vivere così, fino al punto che possiamo testimoniarlo attraverso il nostro volto diverso. Questo che
ci rende veramente presenti nel reale, con questa diversità. Mi sembra che questa strada ci convenga; ma, come vediamo, essa si rivela soltanto a chi accetta la verifica della proposta del carisma.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 26 ottobre alle ore 21.30. Riprenderemo ancora il X capitolo de Il senso religioso e il testo della Giornata d’inizio anno su cui abbiamo incominciato a lavorare.
Ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla parte della Scuola di comunità a tema. Vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org Vista la portata degli interventi di Benedetto XVI in Germania, abbiamo stampato un quartino con stralci dai suoi discorsi, perché sono la testimonianza del Papa come presenza. Egli ci mostra che cosa vuole dire essere presenti, perché uno può arrivare al Parlamento tedesco e passare inosservato,
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e uno può arrivare al Parlamento tedesco e stupire tutti. E perché li ha stupiti, soltanto perché era il Papa? O per quello che ha detto? Cioè per quella diversità, per quel modo di usare la ragione tutto diverso, di non ridurre la realtà a positivismo, fino al punto di vedere una cosa che era davanti a tutti
e che non vedevamo, cioè il fenomeno dell’ecologia, per dire qualcosa su come tante volte noi riduciamo la realtà a qualcosa che non è vera: il Papa ha colto questa occasione, il movimento ecologista, per dire: vedete come c’è un modo di guardare il reale, se noi lo riduciamo, nel quale c’è qualcosa di sbagliato e adesso tutti lo riconosciamo? Per questo dice, con una frase che dobbiamo imparare a memoria, come scolpita: «La ragione e la natura nella loro correlazione».
Impressionante! Ragione e natura nella loro correlazione. Perché è soltanto quando la ragione sta davanti alla natura nella correlazione di tutte e due che possiamo non ridurre la ragione e non ridurre la natura. Questa è la grande battaglia che il Papa sta combattendo. Vi è familiare? Stiamo nella sua scia? È questa la stessa identica cosa che Giussani ha fatto dall’inizio, dalla prima ora di religione, capite? Stiamo sul pezzo o no? Quando il Papa dice: «La ragione aperta al linguaggio dell’essere», all’essere, stiamo cercando di capire questo o no? Perché non è che noi abbiamo un qualche pallino per la ragione o per la realtà (altrimenti sarebbe più interessante fare altre cose), ma stiamo su quello che il Papa vede come l’urgenza più grande, perché è l’unico a portare avanti questa battaglia per allargare la ragione, perché senza questo allargamento Cristo sarà sempre qualcosa di appiccicato, un’aggiunta a un uso della ragione ridotto o a una realtà già perfettamente costituita. Per questo mi sembra che ci convenga leggere il Papa, per capire anche la portata del cammino che stiamo facendo. Perché alcuni non arrivano a collegare le due cose.
In particolare segnalo il discorso ai Protestanti e quello ai politici al Parlamento tedesco. Tutti e due per motivi diversi. Uno al Parlamento tedesco per quello che ho spiegato, l’altro (ai protestanti) per la modalità con cui ha guardato, con cui è stato davanti ai protestanti, perché alcuni avrebbero potuto pensare: «Va dai protestanti, dovrebbe rinfacciare loro tutti gli errori che hanno fatto, da
Lutero in poi». Leggete che cosa dice, e come questo è una svolta nel modo di concepire l’ecumenismo. Possiamo imparare qualcosa su come il Papa è presente nel reale, anche davanti a chi non è in totale sintonia con lui? Affermando quello che abbiamo in comune e non soltanto le diversità. Possiamo dire di essere più presenti perché siamo accaniti nel dire quello che manca? Mi sembra che qualche cosa dobbiamo imparare ancora. Diffondiamo a tutti, allora, questo quartino, per offrire un giudizio e una speranza che aiuti a stare di fronte alla realtà drammatica che stiamo vivendo, perché è l’urgenza più decisiva.
Libro del mese per ottobre/novembre: Fine di una storia (conosciuto anche con il titolo: La fine dell’avventura) di Graham Greene, Mondadori. Ne Il senso religioso (nel capitolo «Educazione alla libertà») don Giussani cita un episodio di questo romanzo per aiutarci a comprendere che di fronte alla realtà è più umano partire con una ipotesi positiva. Dice infatti: «La cosa più terribile è porsi di fronte alla realtà con una ipotesi, non dico negativa, ma semplicemente sospensiva; non ci si muove più». Ma l’ipotesi positiva è una opzione, una scelta a cui dobbiamo educarci.
A fine mese, sarà disponibile anche in formato ebook Mondadori.
Veni Sancte Spiritus

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