venerdì 14 ottobre 2011
La fabbrica dell'infinito
Premiato Sotoo, erede di Gaudì nella Sagrada Familia di Barcellona
Chi guarda le cattedrali costruite mille anni fa nelle città d’Europa può farsi una domanda: ma chi erano, e come ragionavano, gli scultori e gli architetti, e i capomastri, che ci hanno lasciato una tale bellezza? La perfezione delle statue, anche di quelle in cima a guglie dove non le vedrà nessuno; l’imponenza di opere interminabili, che passavano come un testimone da una generazione all’altra; il grandioso lavoro corale, come di un’orchestra in cui anche l’ultimo violino conta, tutto questo, se guardi attentamente, meraviglia. Ma c’è almeno un posto oggi, in Europa, dove si respira qualcosa di quello spirito antico. È il cantiere, a Barcellona, della Sagrada Familia, consacrata da Benedetto XVI lo scorso novembre. Si dice che, al suo ingresso, il Papa abbia reclinato il capo all’indietro, sfidando l’equilibrio della mitria, per l’incanto di quel bosco di colonne e luci e ombre immaginato da Gaudí e ora finalmente in via di compimento.
Per questo il Premio Internazionale Cultura Cattolica, che viene dato questa sera a Bassano del Grappa a Etsuro Sotoo, sembra emblematico: lo scultore giapponese che prosegue l’opera di Gaudí rappresenta anche quel grande cantiere, i suoi architetti e i suoi 200 operai: con le sei gru altissime che dall’alba a sera ruotano sopra Barcellona, con i manovali e i tecnici imbragati come in parete, nella vertigine delle torri che salgono - arriveranno, un giorno, a 171 metri.
Ma oltre al fervore di una grande "fabbrica" si avverte qui, nel laboratorio di Sotoo come nell’andirivieni dei passi degli operai fra la polvere, qualcosa d’altro. È la cura scrupolosa per ogni particolare, anche per ciò che, sospeso a cento metri sul vuoto, non sarà mai visto da nessuno. Nell’atelier dello scultore i modellini di gesso, perfetti, di insetti e coleotteri e foglie, stanno in attesa di incarnarsi nella pietra. Chi li vedrà, lassù? Le delicate nervature delle foglie ti commuovono: sembra che qui lavorino non solo per una funzionalità o per un esito, ma per compiere una bellezza; e quindi la facciano il più possibile perfetta – a sostenere lo sguardo del cielo.
E poi si percepisce, nel frastuono dei martelli, nel clangore degli argani oscillanti sopra ai massi di pietra, che anche questa è un’opera corale; cresce dalle mani di tutti, e di nessuna potrebbe fare a meno. Si sa che ci vorranno ancora diversi anni per completare l’opera, ma forse, come per il Duomo di Milano, non si finirà mai davvero, giacché quella selva di guglie e statue, esposte alle intemperie, come cosa viva si deteriora, e va di nuovo sanata. Comunque i più vecchi degli operai non vedranno finita la Sagrada; ci avranno solo lasciato sopra, umilmente, una impronta. (Nei giorni di festa capita di vederne, accompagnati da figli o nipoti, che indicano un punto sotto le volte, e dicono: vedi, quello lassù l’ho fatto io, con le mie mani. Non accadeva forse lo stesso, nelle nostre antiche cattedrali?)
Gaudí se n’era accorto: questo tempio, diceva, edifica chi lo edifica. È questo il segreto che ci affascina, davanti a Chartres o alla cattedrale di Strasburgo? Come se la collettiva fatica per dar forma alla pietra e a una bellezza che sfidi il tempo, sapesse costruire anche gli uomini a quell’opera intenti. Lo ha intuito il giapponese Sotoo, che qui è arrivato poco più che ventenne e non cristiano, e dopo anni nel cantiere ha chiesto il battesimo («Ho capito – dice – che dovevo guardare dove guardava Gaudí»). Lo intuiscono gli operai che restano qui a lavorare per tutta la vita.
Si lavora, alla Sagrada Familia, come dentro uno sguardo che va più lontano. Sorprendente: nel 2011 ritrovi qualcosa dello spirito delle grandi cattedrali. Respiro non effimero, che non si esaurisce nell’oggi. Ma opera: alza sui pinnacoli delle guglie rigogliosi frutti di pietra, come offerti al cielo. Sotto, Barcellona è vivace, frenetica, forse distratta. Ma le sei gru, alacri, continuano ad issare pietre che restano. Che aspetteranno gli occhi dei figli dei figli.
Marina Corradi
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