venerdì 15 aprile 2011

L’URGENZA DEL GIUDIZIO

Appunti dalla Sintesi di Julián Carrón all’Equipe degli universitari di Comunione e Liberazione
Milano, 26 marzo 2011

1. LA GENERAZIONE DI UN SOGGETTO NON ALIENATO
Don Giussani ha colto il punto cruciale. «Per la mia formazione in famiglia e
in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso
che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20).
Per questo egli ha sempre insistito sulla necessità per ciascuno di noi di partire dall’esperienza, di mettere a fuoco costantemente l’esperienza. Altrimenti nessuno potrà
resistere in un mondo in cui tutto, proprio tutto, dice il contrario. È la stessa necessità che in altri termini è segnalata nelle prime pagine de Il senso religioso, come abbiamo scoperto rileggendo insieme il testo in questi mesi: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno,
che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma, arricchimento o
contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa,
renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinione inevitabilmente alienante» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 6).
Don Giussani vuole farci diventare adulti, soggetti capaci di giudizio, non ci vuole alienati. È molto significativo, perciò, quello che ci dice in un altro passo de Il rischio educativo: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l’ambiente. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di “far da sé” di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l’adolescente all’incontro
personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto.
L’equilibrio dell’educatore svela qui la sua definitiva importanza.
L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo rappresenta per l’intelligenza
e il cuore - e anche per l’amor proprio - dell’educatore un “rischio”.
D’altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane
una suapersonalità nel rapporto con tutte le cose; la sua libertà cioè “diviene”»
(Il rischio educativo,pp. 103-104). È questo che motiva l’insistenza continua sul giudizio, sulla necessitàdi un paragone tra quello che viviamo e il cuore. E si tratta di un lavoro tanto semplice quanto impopolare, come abbiamo visto.
È molto facile, infatti, ripetere delle formule o andare di frase in frase, pur giusta, o appellarsi a un altro perché mi dia il supplemento di certezza
che non ho. Ma, come vi dico sempre, dovete decidere se diventare adulti o no, cioè se
fare un’esperienza che vi consenta di stare nel reale in forza del giudizio che emerge dall’esperienza
stessa, oppure essere sempre più in balia di tutte le paure appena il reale non coincide con l’immagine che si ha in testa.
2. L’INEVITABILITÀ DEL GIUDIZIO
La prima cosa che è emersa con chiarezza stamattina è che noi giudichiamo sempre.
Da che cosa si vede? Dal fatto, per esempio, che abbiamo paura, che siamo smarriti, oppure, al contrario, che sperimentiamo una libertà, vediamo in noi una capacità d’intelligenza diversa.
Dietro tutti questi stati d’animo o effetti – chiamateli come volete - in fondo
c’è sempre un giudizio: può essere un giudizio che uno non confessa neanche a se stesso, ma c’è, la vita lo “canta” in ogni momento. Il bello del frangente che
stiamo vivendo è che sentiamo sempre più insopportabile non fare i conti con il giudizio: giudicare comincia a diventare un’urgenza esistenziale.
È dunque accaduto un passaggio: dal concepire il giudizio come qualcosa di appiccicato, una complicazione ulteriore, qualcosa di cui in fondo non c’è bisogno, di cui possiamo fare a meno senza che capiti niente di particolare, al concepire e vivere il giudizio come una urgenza esistenziale. Partiamo da alcuni esempi di
questa mattina.
Vi ricordate quello che ha detto il nostro amico, raccontando della morte di sua nonna e delle ultime settimane trascorse con lei? «Le volte in cui mi sono trovato
a fare la notte in ospedale, mi ha preso - diceva - una paura feroce che tutto
quello che di lei avevo davanti, e di riflesso anche di me, potesse scomparire
nel nulla. Perciò facevo di tutto per scappare via da certe domande sulla vita,
sulla consistenza di me, e appena potevo scappavo via anche dall’ospedale.
I giorni successivi c’è stato un tentativo iniziale di nascondere quello che era successo, ma poi non ce l’ho più fatta: erano domande che continuavano a risorgermi. Mi sono finalmente accorto di qual era stato il problema: è inevitabile nella
vita fare un paragone tra quello che succede e qualcosa di sé, ma io di fronte
a mia nonna il paragone lo facevo con la paura che avevo e inevitabilmente…».
È qui che io ho obbiettato: «No, il paragone non lo facevi con la paura, perché
la paura era già il segno o l’effetto di un paragone che avevi compiuto tra quello che stava succedendo a tua nonna e le tue esigenze». La paura non era l’origine,
ma la conseguenza del giudizio che lui aveva dato, vale a dire la conseguenza di
un paragone tra le sue esigenze e quello che stava succedendo.
E l’esito era che quello che stava succedendo - la malattia e la morte - per lui
era tutto. Ma è proprio questo che dobbiamo mettere in questione: quello che
stava succedendo davanti ai suoi occhi, o meglio, quello che lui vedeva era tutto? Noi diamo per scontato di sì, by default, senza nemmeno rendercene conto, e poi pensiamo che il paragone sia con la paura. No, la paura è la conseguenza di un giudizio, e la vera resistenza è a mettere in discussione il giudizio,
il nostro giudizio sul reale, su quello che c’è, ovvero se ci sia o non ci sia qualcosa d’altro. Davanti a una situazione in cui la nostra esigenza dell’eterno - riferita alla persona a cui vogliamo bene - è senza risposta, ci viene una grande paura, com’è normale che sia (questo dice, perciò, che siamo normali).
Se quello che vedi è tutto quello che c’è, la conseguenza ultima è la paura.
Ma la questione sta qui: è vero o no questo giudizio? Da che cosa si vede che
non è vero? Cominciamo dai sintomi. Da che cosa possiamo partire per vedere se un giudizio è vero? Un giudizio vero che cosa implica? La liberazione.
Un giudizio vero libera, e quel giudizio non libera. Abbiamo dunque l’evidenza nell’esperienza di un giudizio vero o falso. Subito dopo ha aggiunto: «Dopo questi giorni, che sono stati drammatici per me, ho capito veramente che o Cristo è tutto oppure io soccombo». E io ho replicato di nuovo: prima di dire se Cristo è tutto o non è tutto, devo poter dire se c’è o non c’è. Se non c’è, infatti,
posso anche dire che è tutto, ma la mia vita non sta in piedi; e non ci vuole
uno tsunami per farla crollare, basta un “discorde accento”. C’è o non c’è?
Dobbiamo renderci conto che questo è un problema di conoscenza. Ci conviene affrontarlo, altrimenti abbiamo sempre il sospetto di essere noi a inventare l’oggetto della fede. Come sai che non è una proiezione tua quello
che stai dicendo davanti al problema della morte - una proiezione che fai perché non sapresti come gestire il problema altrimenti -? Queste sono le domande che ci troviamo davanti, che vengono a te e vengono a me, che chiunque ci “rinfaccia”.
Se non arriviamo a dire perché non è possibile che sia una proiezione, abbiamo
sempre dentro il virus, il dubbio, il sospetto che in fondo in fondo la fede sia
una creazione nostra, non un riconoscimento. Sei tu che t’inventi e progetti la risposta? La fede è una proiezione o è un riconoscimento?
Riprendo un altro intervento di stamattina, che ha posto in luce un altro aspetto della stessa questione. «Mentre tornavo a casa mi chiama un amico per dirmi che
a una famiglia di nostri amici era nato il terzo figlio con una grave malformazione al cuore (già la prima figlia era nata con gravissimi problemi). L’annuncio di
questo fatto naturalmente mi ha scosso, però mi ha scosso di più un’altra cosa: la telefonata con questo mio caro amico si è svolta tutta in uno strano imbarazzo, dovuto al fatto che, annunciandomi l’accaduto, non aveva avuto il
coraggio di dire, in fondo in fondo, quello che pensava; continuava a girare intorno al problema, ma se ci fosse stato un fumetto che avesse svelato il suo pensiero ci sarebbe stato scritto: “È una ingiustizia”». Vedete? Dietro tutto, sempre vi è un giudizio, volenti o nolenti. È impossibile non giudicare. Dietro la paura di chi è intervenuto stamattina, vi era un giudizio; allo stesso modo, nel racconto dell’amico, che lo dicesse o non lo dicesse, lui ha sentito a pelle che
c’era, nascosto al fondo, un giudizio. La vera questione, amici, non è che non diamo
giudizi; la vera questione è se noi decidiamo di guardare in faccia questi giudizi che comunque diamo e abbiamo il coraggio di cominciare a dire: «Ma è vero o non è vero questo giudizio che ho dato?».
I giudizi, infatti, li diamo sempre. Da che cosa si vede? Dall’esperienza che facciamo, dagli effetti che accadono in noi, tanto è vero che il primo che ci sente raccontare subito percepisce l’imbarazzo.
La vita “canta” che c’è un giudizio: in un senso o in un altro, ma c’è, sempre. È impossibile vivere anche un solo istante, come ci fa osservare don Giussani, senza che uno dica perché in fondo in fondo vale la pena vivere quell’istante, non c’è minuto in cui uno non affermi qualcosa di ultimo. Proseguiva l’intervento: «È iniziata in me una lotta, perché trovavo insopportabile quella telefonata.
Ho incominciato a dire a me stesso: “Ma questo fatto è un’ingiustizia?”». Ecco, questa è l’urgenza di giudicare. Basta che uno senta qualcosa che preme nella vita per avvertire tutta l’urgenza di giudicare. È insopportabile non arrivare a un giudizio vero. Quando non avvertiamo questa “insopportabilità”, vuol dire che la nostra umanità è venuta meno, che ci stiamo avvicinando all’essere di un sasso: il problema non è che giudicare sia un’aggiunta per gente con qualche sfizio, ma che ci avviciniamo ai sassi. Quando uno è uomo e sta lealmente davanti al reale, non giudicare è insopportabile.
Il giudizio non è qualcosa di appiccicato, per gente che non ha altro da fare se
non complicarsi la vita, come tante volte in fondo pensiamo (diciamo questo del giudizio così come l’amico diceva che era un’ingiustizia la malformazione).
Pensiamo che il giudizio sia una monumentale complicazione, che ci impedisce di goderci la vita... fino a quando la vita urge! Allora le cose cambiano. Ma che la vita cominci a urgere dentro di noi che cosa significa?
Di che cosa è segno? Significa che qualche barlume di umanità incomincia a ridestarsi.
«In questa lotta mi sono immaginato di stare di fronte all’amica che ha avuto il figlio e che lei mi domandasse: “Ma tu cosa dici di questo fatto, è un’ingiustizia?”, e mi sono trovato ingaggiato a dare ragione dell’esperienza che faccio». A volte il nostro contributo più semplice e decisivo è porre la domanda che l’altro non ha il coraggio di porre. Sembra niente, sembra
banale, ma porre la domanda giusta, vera, è il primo contributo che diamo all’altro: non è risolvergli
il problema, ma incominciare a porre la domanda. «È iniziato quello che a me sembra
il giudicare, cioè ho cominciato a reperire nella mia esperienza quello che mi poteva
far dire che quella non era un’ingiustizia. E di fatti ce ne sono moltissimi, dal primo incontro fino alla Scuola di comunità del giorno prima, in cui tu, alla fine, rileggendo il Volantone di Pasqua, che cosa hai fatto se non riannunciarmi che questo fatto non è un’ingiustizia?
Perché se Cristo è risorto questo fatto non è un’ingiustizia. A questo punto ho visto una lotta in me, la paura cioè di dire una cosa esagerata: Cristo è risorto! Ma mi rendevo conto che quell’affermazione che avevi fatto alla tua Scuola di comunità: “Cristo risorto o è un avvenimento o non è”, così come “il mio riconoscimento di Cristo o è adesso o non è”, stabiliva la differenza radicale e mi si è impressa.
Così tornando a casa mi sono detto: “Glielo devo dire, lo devo dire al mio amico”. Perciò gli ho subito scritto un messaggio: “A ogni modo, Cristo è risorto”. E che Cristo sia risorto è una cosa che la nostra esperienza documenta costantemente,
e noi non possiamo partire se non da questo dato, altrimenti siamo scorretti,
siamo parziali». Vedete? Tante volte le cose pur giuste che ci diciamo ci sembrano esagerate. Anche dopo aver sperimentato, dire «Cristo è risorto» ci sembra esagerato. Noi dobbiamo fare i conti con ogni sfumatura che lasci un’ombra in noi. Se quando dico «Cristo è risorto» sento un’ombra e non la guardo in faccia, l’ombra diventa il giudizio. Possiamo poi dire tutte le sacrosante parole che vogliamo, ma quello che resta è l’ombra. E da che cosa si vede?
Dal fatto che determina il mio io nel presente. Per questo, vedere come il proprio umano vibri, accorgersi - come dice don Giussani con un’espressione bellissima - di quale sia il «sentimento dell’io» che abbiamo è rivelativo: sembra quasi banale, invece dal sentimento dell’io si capisce che cosa prevale in noi, qual è il giudizio ultimo, si vede se, pur dicendo «Cristo è risorto», prevale in fondo: «È esagerato» (non abbiamo il coraggio di dire: «È falso», semplicemente diciamo: «È esagerato»),
e questo determina il nostro modo di stare nel reale, di
percepire noi stessi. Qui si vede la decisività di ciò che ho sottolineato nella Scuola di comunità: se uno non fa un’esperienza, se il cristianesimo, se la fede
non è un’esperienza presente - presente! -, non è qualcosa che trova la sua
conferma in una esperienza, non potrà resistere
non solo davanti allo tsunami, ma alla minima circostanza avversa.
3. L’INIZIO DELLA LIBERAZIONE
Ecco allora il punto che emerge dall’esperienza che avete documentato:
incominciamo a sentire dentro di noi che un certo modo del vivere è
insopportabile, che non riusciamo ad andare avanti senza giudicare consapevolmente. Questa, amici, è una bella promessa per tutti noi. Se infatti il giudizio è l’inizio della liberazione, incominciare a percepire l’urgenza di giudicare è l’alba dell’inizio della liberazione. Si prospettano giorni felici, se siamo leali
con questa urgenza, se sperimentiamo sempre di più quella insopportabilità dentro
di noi. Attenzione, avvertire l’insopportabilità non è una “problematizzazione”, ma l’inizio di un’umanità più grande, un segno del risveglio del nostro io, e per questo è positivo: è il segno dell’umano, perché dovrebbe essere sempre così, tanto siamo determinati da quell’insieme di esigenze e di evidenze che chiamiamo cuore (anche se, come sappiamo, la consapevolezza di tali esigenze ed evidenze può essere offuscata). Se dunque noi giudichiamo sempre, la questione - com’è emersa con chiarezza questa mattina - è se è vero o non è vero il giudizio che diamo.
E dobbiamo verificare se quello che ci diciamo è vero davanti allo tsunami, davanti alla morte, davanti alla malattia, davanti alla noia. Dobbiamo fare i conti con ogni ombra che incombe su di noi. Amici, vi ho detto altre volte: noi non siamo condannati a vivere la vita sopportando le ombre, non siamo condannati a vivere l’incombenza delle preoccupazioni senza giudicarle. Anzi, proprio per quell’insopportabilità che sentiamo dentro, capiamo fino a che punto giudicare è decisivo ed è una liberazione. Sappiamo, infatti, che abbiamo giudicato proprio dalla liberazione che vediamo vibrare dentro di noi, e non perché abbiamo detto la frase giusta.
Uno può dire la frase giusta e non aver giudicato, e perciò non essere liberato.
Ho ritrovato gli appunti di un’assemblea che don Giussani tenne nel 1986, in cui parla del giudizio e affronta di petto la nostra questione: «Guardate che il giudizio è l’avvenimento dell’uomo che inizia; il giudizio è l’avvenimento dell’uomo che si forma e che si completa poi nell’azione affettiva. Tutti riconosciamo che Cristo è la realtà [la frase giusta]; ma non penetra dentro l’esistenza, questo. Non è un vero giudizio, è un’idea non è un giudizio; è un’idea su cui si costruisce un’ideologia e una prassi secondo essa, come è per la maggior parte della leadership del movimento [lo dice così, en passant...].
È un’idea - quella della fede, del cristianesimo - su cui si costruisce un’ideologia
più o meno evoluta culturalmente e quindi che determina delle scelte pratiche.
Ma la fede, cioè il riconoscimento di questa presenza, non diventa un giudizio, nel senso vero del termine, quello che usa la Bibbia. [E fa un esempio:] Ecco, tu stai andando in macchina su una strada di montagna, vedi da lontano, da un chilometro, che rotola un gran masso e si ferma sulla strada. Tu dici: “C’è un masso sulla strada!”, e arresti in fretta la macchina. Il giudizio è qualcosa che ha una energia e una consistenza, che sfida il resto della vita. Il vero giudizio è
qualcosa che ha una consistenza e una forza che mette in scacco il resto, che cambia.
Magari non ci riesce, ma tu senti la spinta dentro, la senti.
Mentre, come tu dici: “Cristo è la realtà”, non ti spinge niente dentro, non senti il ‘tum tum’ dei minatori che stanno facendo saltar le mine o dell’ariete che vuol sbrecciare il tuo muro; al momento non ci riesce, ma con gli anni non può non riuscire. E questo è il significato di una vita come lavoro, come cammino; mentre per moltissimi fra noi non c’è cammino. Perché ci sono tutte queste idee astratte, che non fanno ‘pum pum’ dentro, non sfidano niente. Uno può sbagliare mille volte al giorno, ma c’è il dolore che non lo lascia, non può lasciarlo. E c’è
la ripresa, quindi, perché il dolore è una ripresa. Che Cristo, che questo Uomo è la realtà, io non posso capire come - perché dovrei essere Dio -, ma capisco che cosa vuol dire e lo riconosco: che tutto deve essere determinato e cambiato
da questa Presenza. Ecco, è un giudizio, questo, se mi cambia, se mi sfida, se sfida la carne e le ossa: “A te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua”. “A te anela la mia carne”: questo è il giudizio; ed è questo giudizio che cambia il mondo. Questa è la penitenza, la metanoia; questa è la conversione». Il giudizio mette in moto la conversione. Da qui si vede se la fede è un giudizio reale o è la
ripetizione meccanica di una formula: è un giudizio reale, se mi cambia. Per questo don Giussani ritorna sempre a Giovanni e Andrea. Se infatti non accade per noi quello che è accaduto per Giovanni e Andrea, che sono stati cambiati dall’incontro e dal riconoscimento di quella presenza, non stiamo parlando della stessa cosa; anche se ripetiamo le frasi che descrivono Giovanni e Andrea, non stiamo facendo la stessa esperienza di Giovanni e Andrea.
Il giudizio per loro fu non la ripetizione di una formula, ma l’essere afferrati
fino al punto d’essere cambiati. Si capisce allora perché la fede cristiana non
può essere una creazione: la fede è un riconoscimento e non una creazione perché Giovanni e Andrea non potevano generare da sé, neanche per un minuto, quell’essere afferrati. Fu una sorpresa: si sentirono afferrati, calamitati. E quell’essere afferrati, quel giudizio, dominò tutta la loro vita in ogni momento. Se il giudizio che si chiama fede domina la vita lo si vede dal fatto che questo
essere afferrati è ciò che viene fuori nel modo con cui affrontiamo tutte le circostanze della vita; viene fuori by default, come dicono, come quando uno, qualunque esperienza faccia, qualunque cosa gli capiti, è invaso dalla memoria di qualcosa a cui tiene, di una presenza a cui tiene.
Allora,si vede che il rapporto con la Sua presenza domina perché riappare con evidenza in ogni esperienza, non me lo invento quando ho bisogno, non me lo creo davanti alle circostanze drammatiche del vivere, mi viene in mente, mi s’impone, davanti a tutte le circostanze, belle o brutte che siano. A volte sono più significative quando sono belle perché sono meno a “rischio di invenzione”;
uando sono brutte, siccome deve esserci qualche senso, uno può
correre il rischio di inventare un senso. Quando la vita è piena questo rischio
viene meno:quel riconoscimento s’impone, quella memoria insorge, perché non posso guardare il tramonto, o la bellezza delle montagne, o una serata insieme, senza che venga fuori quell’urgenza,quella tensione esasperata a dire il Suo nome.
Per questo sono i fatti semplici che ci raccontiamo,di cui gli altri si sorprendono ancora più di noi, è l’esperienza che noi stessi facciamo di essi che ci
conferma che non stiamo creando noi l’oggetto della fede, che la fede è l’attuarsi sano della ragione di fronte a quei fatti. Se io non riconosco la Sua presenza, se non riconosco la realtà di quei fatti fino a dire il Suo nome, non posso dare ragione di essi, dei fatti che vedo e che vedono tutti.
A volte sorge la domanda: «Ma come mai, dopo certi momenti, in cui riconosco la Sua
presenza con chiarezza solare, decado?», e viene come uno scandalo. Rispondo con quello che ci ha testimoniato don Giussani nell’ultimo punto del suo intervento a Roma, davanti al Papa, nel 1998. È qualcosa su cui noi, che viviamo nella storia e che vediamo il nostro continuo “decadere”, dobbiamo ritornare sempre. «L’infedeltà sempre insorge nel nostro cuore anche di fronte alle cose più belle e più vere, in cui, davanti all’umanità di Dio e alla originale semplicità dell’uomo, l’uomo può venire meno per debolezza e preconcetto mondano, come Giuda e Pietro. Pure l’esperienza personale dell’infedeltà che sempre insorge, rivelando
l’imperfezione di ogni gesto umano, urge la continua memoria di Cristo. Al grido disperato del pastore Brand nell’omonimo dramma di Ibsen (“Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”) risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”. Tutto ciò significa che la libertà dell’uomo, sempre implicata dal Mistero, ha come suprema, inattaccabile forma espressiva, la preghiera. Per questo la libertà si pone, secondo tutta la sua vera natura, come domanda di adesione all’Essere, perciò a Cristo. Anche dentro l’incapacità, dentro
la debolezza grande dell’uomo, è destinata a perdurare l’affezione a Cristo. In questo senso Cristo, Luce e Forza per ogni suo seguace, è il riflesso adeguato di quella parola con cui il Mistero appare nel suo rapporto ultimo con la creatura,
come misericordia: Dives in Misericordia.
Il mistero della misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione; anche il sentimento di perdono è dentro questo mistero di Cristo. Questo l’abbraccio ultimo del Mistero,
contro cui l’uomo - anche il più lontano e il più perverso o il più oscurato, il più tenebroso - non può opporre niente, non può opporre obiezione: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene.
Il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia.
Per cui l’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza.
Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo» (L. Giussani, «Nella
semplicità del mio cuore lietamente Ti ho dato tutto», Roma, 30 maggio 1998. Pubblicato in L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia
del mondo, Rizzoli, 1998, pp. VI-VII).

4. CRISTO RISORTO: UN GIUDIZIO SU DI NOI E SULLA STORIA
Nella misura in cui tutto questo diventa veramente esperienza, possiamo capire la portata che l’annuncio cristiano ha per noi stessi e proporlo come giudizio al mondo: quello che serve a noi, per la sua oggettività, è quello che serve al mondo. Per questo il Volantone di Pasqua di quest’anno ritorna nuovamente all’origine. Com’è nato il Volantone? Come un giudizio sulla
storia e su di noi. Che cosa diciamo davanti allo tsunami o davanti alla guerra o davanti all’indebolirsi dell’io, cioè davanti a quella mancanza di giudizio in cui
si sente il venir meno dell’umano? Il nostro giudizio è il contenuto
del Volantone, che pone due questioni fondamentali.
a) L’affermazione del fatto: Cristo è risorto. Se il cristianesimo è meno di
questo, non vale la pena, non è più cristianesimo; esso sarebbe ridotto
semplicemente al patrimonio che una grande personalità umana ci ha lasciato.
E che cosa ce ne faremmo di questo patrimonio davanti allo tsunami? Come dice il Papa, saremmo «abbandonati a noi stessi», alla nostra assoluta incapacità.
«Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia
il mondo e la situazione dell’uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del
quale ci possiamo fidare».
b) Ma perché questa affermazione sia un giudizio, nel senso detto prima, occorre
che ci sia una esperienza nel presente. Per questo abbiamo ripreso un testo di don Giussani: «Ciò che si sa [che Cristo è risorto] o ciò che si ha diventa esperienza
se quello che si sa o si ha è qualcosa che ci viene dato adesso [ora]: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo
“ora” non c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato,
se non da una contemporaneità: un avvenimento.
Cristo è qualcosa che mi sta accadendo [ora]». In che cosa lo vedo? Nel fatto che
io posso stare davanti al reale senza paura, che posso guardare tutto senza essere ultimamente vinto.
Se non sono vinto, non è perché posso dare tutte le spiegazioni, bensì per qualcosa che mi sta accadendo ora e che impedisce che la mia ragione sia presa dalla paura e diventi misura facendomi sembrare - come ci testimoniava il nostro amico davanti alla nonna morente - che tutto quello che io non riesco a capire non c’è e non ha senso. L’affezione a Cristo che sta accadendo ora, a Cristo presenza contemporanea, facilita alla ragione la fedeltà alla sua vera natura di ragione: apertura alla realtà. Qualsiasi altro giudizio è falso, semplicemente falso, perché elimina questo fattore.
Ciò che ci salva non è una deduzione, è un evento che accade ora: Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora. Per questo mi cambia, determina il mio presente, è il fattore più determinante il mio presente, più potente di qualsiasi tsunami, di qualsiasi dolore, di qualsiasi malattia, di qualsiasi morte, perché non me lo
posso togliere di dosso ora.
Noi potremo comunicare questa speranza a tutti, diffondendo il Volantone in università, se prima di tutto sarà un lavoro per noi, altrimenti daremo la dottrina giusta senza partecipare noi della novità che porta. Ma niente si comunica se non come esperienza: perciò possiamo dare il nostro contributo agli altri solo se
cediamo noi all’avvenimento che Cristo è ora, se siamo così
semplici da fare esperienza di ciò che ci viene dato ora.
Gli altri, dopo, decideranno con la loro libertà. Questo Volantone è la grazia che
ci capita ora. Ma chi, per stare davanti a tutto quello che accade, ha la possibilità di avere tra le mani uno strumento così decisivo, che ci offre allo stesso tempo un metodo, una strada, un cammino da percorrere perché quello che ci diciamo diventi nostro, senza scoraggiarci per quello che ancora manca, ma già partecipando alla vittoria che incominciamo ad assaporare? La diffusione di questo Volantone è un’occasione stupenda per tutti noi, è lo strumento più adeguato al nostro momento storico per partecipare alla vittoria che Cristo è nella storia. Comunicarla agli
altri e vedere che cosa accade conviene a tutti, per non perderci la conferma della verità delle parole che lì troviamo scritte. Non abbiamo altra cosa più grande da dire al mondo. Per questo mi sembra sia una sfida strepitosa per ciascuno.

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