lunedì 29 dicembre 2014

Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 17 dicembre 2014


Appunti
Testo di riferimento: J. Carrón e D. Prosperi, «NON SONO QUANDO NON CI SEI», Tracce-Litterae
communionis, ottobre 2014, pp. I-XVI.

• E se domani
• Il figliol prodigo
Gloria
Chi è cruciale per noi? Chi è così cruciale nella nostra vita per cui possiamo dire, con le parole della
canzone di Mina che abbiamo appena ascoltato: se lo perdessi, «avrei perduto il mondo intero, non
solo te»? Chi può rispondere veramente a questa nostra esigenza? Solo qualcuno che rappresenti
talmente il significato del vivere che senza di lui, senza la sua presenza, io perdo tutto, sono
spaesato, smarrito. È ciò che il figliol prodigo ha dovuto scoprire attraverso un cammino, un
processo lungo il quale la sua libertà aveva preso una certa piega. Tutta la vita ci è data per scoprire
questo: chi è così cruciale che se lo perdiamo, perdiamo il mondo intero.
Io ti volevo porre due domande emerse nella Scuola di comunità che faccio con alcuni amici; ci
siamo resi conto che era proprio necessario rivolgerci a te, perché hanno una rilevanza che ci
sembra importante in questo momento. La prima è questa: commentando la parabola del figliol
prodigo, menzioni padre Spadaro che al Meeting ha detto: «Bisogna accompagnare i processi
culturali e sociali, per quanto ambigui, difficili e complessi possano essere» (Le periferie
dell’umano, a cura di A. Belloni e A. Savorana, Bur, Milano 2014, p. 53). Che cosa può voler dire
per noi, in questo momento, accompagnare i processi culturali e sociali? È più facile capire che
cosa può voler dire accompagnare una persona, ma che cosa significa accompagnare un processo
culturale e sociale? E, sempre come specificazione di tale questione: ci sono dei processi che in
questo momento tu ritieni più importante accompagnare, che diventano come un’indicazione che tu
dai a tutti noi? La seconda domanda sposta il tema, però ha delle affinità, perché parte da quello
che il Papa ha detto al Congresso dei movimenti: papa Francesco ci richiama a «preservare la
freschezza del carisma [evitando] di irrigidirsi in schemi rassicuranti, ma sterili». E aggiunge: «La
novità delle vostre esperienze non consiste nei metodi e nelle forme, […] che pure sono importanti,
ma nella disposizione a rispondere con rinnovato entusiasmo alla chiamata del Signore». E
ancora: «Se forme e metodi sono difesi per se stessi diventano ideologici, lontani dalla realtà che è
in continua evoluzione» (Discorso al III Congresso mondiale dei Movimenti ecclesiali e delle
Nuove Comunità, 22 novembre 2014, 1). Allora ci siamo chiesti: in questo momento della nostra
storia, proprio guardando al movimento, tu identifichi delle forme e dei metodi che ormai sono
lontani dalla realtà e che quindi ci allontanano piuttosto che favorire lo stare dentro la realtà?
Oppure, in positivo: qual è la chiamata del Signore al nostro movimento, che cosa ci chiede ora?
Mi sembra che una domanda di questa portata ci aiuti veramente a guardare il contesto in cui siamo
chiamati a vivere la fede, per potere poi accompagnare noi stessi e gli altri dentro la circostanza
attuale. Se capisco bene ciò che dice il Papa, mi sembra sottolinei che il mondo è in costante
cambiamento, con una velocità che solo qualche decennio fa neanche ci sognavamo. Questo è
palese a tutti, così come è chiaro che tutti siamo immersi in questo rapido cambiamento. Come
possiamo vivere in questo contesto? La prima questione, secondo me, è identificare quali sono i
processi più cruciali del nostro tempo. In questo senso, mi ha sempre illuminato, come abbiamo già
ricordato in altri momenti quest’anno, il giudizio di Benedetto XVI sui grandi cambiamenti che
sono iniziati qualche secolo fa, sul lungo processo di cui solo adesso si vedono tutte le conseguenze.
Diceva che «nell’epoca dell’illuminismo […] si tentò di tenere i valori essenziali [della vita] della 2
morale fuori dalle contraddizioni [come per tenerli al margine di tutte le discussioni ideologiche o
religiose] e di cercare per loro un’evidenza [mi colpisce sempre il fatto che il Papa usi proprio
questa parola, “evidenza”] che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle
varie filosofie e confessioni», perché si cercava di «assicurare le basi della convivenza e, più in
generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di
fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili». Sembrava
innegabile che questo sarebbe continuato all’infinito. Mi ha colpito la lucidità con cui Benedetto
XVI osserva che «la ricerca di una tale rassicurante certezza […] è fallita» (L’Europa di Benedetto
nella crisi delle culture, LEV-Cantagalli, Roma-Siena 2005, pp. 61-62). Ormai questo è palese a
tutti, è un dato indiscutibile, lo possiamo riscontrare in ogni questione della vita. Quel processo ha
generato una società molto più plurale di quella in cui siamo nati, nella quale si mette in discussione
tutto e dove le grandi convinzioni di fondo non sono più condivise. Lo vediamo nella famiglia,
nell’educazione, nella società, nei rapporti, è un fenomeno che tocca sempre di più tutte le pieghe
del vivere. In una intervista in occasione del Sinodo, il cardinale Scola diceva che «il confronto con
la rivoluzione sessuale è una sfida forse non inferiore a quella lanciata dalla rivoluzione marxista»
(la Repubblica, 12 ottobre 2014) nel Sessantotto. Siamo davanti a sfide che qualche tempo fa non
avremmo neanche potuto immaginare. Rispetto alla parola utilizzata da Benedetto XVI, anche don
Giussani diceva già nel 1987: «È come se [oggi] non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la
moda» (L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, pp. 181-182).
Dunque, ci troviamo tutti immersi in questi processi. Tanti dei nostri contemporanei (e anche tanti
di noi, immersi fino al collo) hanno già fatto un percorso alla ricerca di qualcosa e alcuni sono già di
ritorno, hanno verificato che una ideologia come quella marxista non funziona più o una certa
modalità di vivere, dalla quale si aspettavano certi risultati, non è più adeguata. Lo abbiamo visto
documentato da tante personalità che hanno presentato la Vita di don Giussani: personaggi diversi
da noi come mentalità, provenienti da altri contesti, da posizioni totalmente diverse, leggendo il
libro, vedendo come don Giussani ha vissuto certi processi, hanno trovato un aiuto, una luce o, per
usare la parola di padre Spadaro, una «fiaccola». Come siamo stati accompagnati da Giussani a
vivere i processi culturali e sociali? E che incidenza abbiamo avuto su di essi? Nella misura in cui
siamo stati messi in grado di vivere e siamo stati facilitati a non smarrire la strada di fronte a tutti i
cambiamenti che abbiamo affrontato. Lo abbiamo ricordato nella prima lezione degli Esercizi della
Fraternità, quando ho fatto riferimento a quello che era successo nel Sessantotto, affinché ci potesse
essere di aiuto per affrontare la sfida che abbiamo davanti ora rispetto a certi diritti o alla
rivoluzione sessuale (come fu per quella marxista nel Sessantotto). Sono sfide che tutti abbiamo
davanti a noi. Per non dire dell’educazione, una sfida altrettanto decisiva. In tutti questi processi
come possiamo accompagnare e accompagnarci? Che cosa ha fatto don Giussani? In quale modo ci
ha accompagnato? Attraverso la generazione di un soggetto in grado di non lasciarsi trascinare da
questi processi, senza smarrire costantemente la strada, un soggetto per il quale tutto questo serva
per un cammino. Ci sono alcune modalità di risposta che si sono dimostrate insufficienti. È
evidente, per esempio, che davanti al crollo di certe evidenze non basta, diceva sempre il cardinale
Scola, ripetere il discorso corretto: «Si pensa ancora, con un certo intellettualismo etico, che l’unico
problema sia imparare la dottrina giusta per poi applicarla alla vita: “L’autentica dottrina, una volta
proclamata, vincerà”» (Tracce, n. 8/2014, p. 31); questo non funziona più, lo vediamo bene. Don
Giussani ci ha sempre detto che non basta la ripetizione formale della verità perché uno la assuma,
facendola propria. Proprio per questo mi impressiona il cammino del figliol prodigo, perché lui
sapeva certe cose, così come noi le sapevamo e come tanti dei nostri contemporanei le avevano
ricevute dalla Chiesa, ma tutto questo non ha fermato il processo per cui oggi «non c’è più alcuna
evidenza reale». Solo chi ha fatto un cammino, solo chi ha fatto esperienza personale dentro i
processi potrà accompagnare gli altri a viverli senza smarrimento. Perché possiamo comunicare agli
altri solo quello che ciascuno di noi ha già guadagnato come esperienza; ma a volte sembra che
insistere su questo cammino personale che ciascuno deve fare sia sproporzionato e inadeguato
rispetto a certi processi, ma don Giussani non la pensava così: mi ha colpito che appena due giorni 3
dopo l’occupazione dell’Università Cattolica – il 19 novembre 1967, due giorni dopo! –, a un ritiro
del Gruppo adulto, dice che è successo quel che è accaduto perché gli universitari del movimento
non hanno cercato il Signore giorno e notte e questo non ha dato loro l’intelligenza adeguata per
stare davanti a quei processi: «“E così anche l’intelligenza della situazione e delle cose da fare – che
è un’intelligenza diversa, più acuta, perché è un’intelligenza dettata dal punto di vista di Dio – ci è
mancata così facilmente perché [Dio] non Lo attendiamo giorno e notte”. Infatti, “se Lo avessimo
atteso giorno e notte, anche l’atteggiamento dei nostri nella loro convivenza all’Università Cattolica
sarebbe stato diverso”» (Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. 391). Io desidero che noi
facciamo tesoro delle cose che ci ha detto don Giussani per potere incidere veramente sui processi
in cui siamo immersi oggi. Ma questo è possibile soltanto se noi non ci smarriamo lungo la strada.
Per la prima volta, so rispondere alle domande che fai. All’ultima Scuola di comunità, facendo
riferimento alla parabola del padre misericordioso, hai chiesto: «Di quanto tempo abbiamo
bisogno per capire veramente qual è il nostro bisogno e così potere riscoprire la grazia di avere un
Padre?». Figlia maggiore di due sorelle, mi sono sempre identificata con il figlio che resta a casa e
vede suo fratello privilegiato dal padre. Non che mi fosse mai mancato qualcosa: scuole private,
viaggi all’estero… Una volta finita l’università, il desiderio di farmi una famiglia e di avere una
vita mia si fece sempre più grande: desideravo camminare sulle mie gambe e non disturbare il
Signore per qualsiasi cosa. Tutto questo mi sembrava legittimo. Incontrai quello che sarebbe
diventato mio marito, chiesi la mia parte di eredità e mi sposai; pensavo che finalmente avrei avuto
tutto, tutto quello che sognavo: marito, figli, casa, lavoro, in una parola, ciò che per me significava
la parola “felicità”. Ovviamente avevo tenuto conto di molte cose: difficoltà economiche, malattia,
incomprensioni, persino possibili infedeltà reciproche, ma consideravo mio marito un dono del
cielo ed ero fiduciosa nella Provvidenza. Mi trasferii in città e pur non “vivendo in modo
dissoluto”, anzi, cercando in tutti i modi di costruire una famiglia cristiana, mi resi conto di essere
sempre più lontana da Lui e che l’uomo che avevo sposato non intendeva in realtà costruire la
famiglia sui valori che credevo condivisi e che per me avevano come punto nodale Cristo, tanto che
andare a Messa la domenica era diventato un problema. Così sopraggiunse la carestia quando mio
marito mi abbandonò con i figli piccoli. Mi sono sentita perduta: il disonore, l’umiliazione di
essere stata rifiutata, i progetti in frantumi, la mancanza di soldi, l’incubo della trafila giudiziaria,
la sofferenza mia e dei figli. In quel frangente ho cercato anch’io le carrube della consolazione di
un altro uomo, carrube che fortunatamente − dico ora − nessuno mi diede! A quel punto, mi resi
conto che il figliol prodigo ero io e che l’unica cosa che volevo era ritornare tra le braccia del
Padre. Un Padre che non mi aveva lasciato sola neanche un minuto e che aveva le braccia grandi e
vigorose dei miei genitori, di mia sorella che io invidiavo e che non aveva mai smesso di volermi
bene, dei miei cugini e degli amici del movimento. Proprio il movimento di Comunione e
Liberazione, che avevo incontrato altre due volte nella vita e che avevo felicemente archiviato, mi
si presentava di fronte per la terza volta. E proprio tra gli amici del movimento c’è chi non mi ha
ancora mollata e che, con infinita pazienza e tenacia, non smette di testimoniarmi che sono amata e
che non sono definita dai miei limiti ed errori; e ora, all’alba dei miei 42 anni, posso dirmi una
persona felice. Sì, felice, perché colma di quella gioia che solo l’incontro con Lui sa dare. Io ho
avuto bisogno della traiettoria di tutta la mia vita per riscoprire la grazia di avere un Padre e la
mia libertà ha dovuto passare attraverso un abbandono per scoprire la verità di me, ma sono grata
di questo percorso e riconoscente a don Giussani per il prezioso dono dei Memores Domini, stilla
scaturita dalla “scorza rotta” del suo carisma, per le cui vocazioni prego incessantemente.
Grazie. Una libertà che vuole allontanarsi dalla casa e una casa che l’aspetta. Come don Giussani ha
accompagnato e ha sfidato questa modalità di pensare alla libertà come una «fuga da», così diffusa
nel nostro tempo, nei processi di cui parlavamo? Davide ha avuto un’idea e ci offre un esempio di
come faceva don Giussani.4
Davide Prosperi. Ciò che mi ha provocato della modalità con cui Carrón ha riproposto la parabola
del figliol prodigo alla Giornata d’inizio anno è stato il suo affondo sull’esperienza che credo tutti
viviamo, cioè il suo giudizio sull’uomo moderno e quindi su di noi. Mi pare che sia anche il filo
rosso della testimonianza che abbiamo appena ascoltato e che mi ha immediatamente fatto pensare
alla nostra mossa originale, perché la traiettoria umana del figliol prodigo non si concretizza
appena nel sentimento dei propri sbagli, davanti ai quali, grazie a Dio, c’è chi ci perdona, ma
primariamente in una pretesa di autonomia: infatti noi tendiamo ad affermare noi stessi, la nostra
libertà, come indipendenza dal legame reale, storico, sperimentabile che ci genera ora. Come se,
per affermare me stesso, per poter realizzare fino in fondo la mia umanità, in qualche modo io
dovessi staccarmi, recidere questo legame. Io penso che anche in noi, perfino dopo tanti anni di
esperienza del movimento, si affacci questa possibile dinamica, per cui affermo me secondo quello
che sento io, che penso io, che ho capito io, in alternativa al bene vero, concreto, reale della nostra
vita, che fonda l’io reale: l’abbraccio del Padre. Quello che commuove di questa parabola,
pensando proprio alla nostra vita, è la speranza che nasce dal fatto che questo abbraccio ci
insegue, cioè non viene meno la continua possibilità di ritorno, di tornare a riconoscerLo. Allora,
pensando a questo, durante la Scuola di comunità con i miei amici, ho pensato di riproporre un
brano del Concerto per violino e orchestra di Beethoven, proprio perché mi ricordavo che Giussani
ne aveva dato una lettura, secondo la sua straordinaria sensibilità anche musicale, che documenta
il nocciolo del problema.
(Ascolto del primo movimento – I. Allegro ma non troppo – del Concerto per violino e orchestra in
Re maggiore, op. 61, di Ludwig van Beethoven, Cd n. 6, Spirto Gentil).
Leggo ora che cosa dice Giussani di questo concerto, che è stato editato nella collana musicale
Spirto Gentil: «Il tema concretamente ultimo dell’esistenza umana può essere così sintetizzato:
l’uomo nasce da, riceve tutto da. È impressionante il fatto che nulla di quello che è proprio del
nostro io sia nostro. Eppure la tentazione più grave dell’uomo è quella di concepirsi autonomo. A
tal punto essa è così grave che coincide con la sostanza del peccato originale. Il Concerto per
violino e orchestra di Beethoven che ascolto da quasi cinquant’anni, fin dalle prime volte in cui ho
iniziato a insegnare religione al liceo Berchet di Milano, è diventato per me simbolo di quella
tentazione suprema, accanita, continua dell’uomo di farsi padrone di sé, signore di sé, misura di sé,
contro l’evidenza delle cose. Da quando il Diavolo ha detto alla donna: “Non è vero che se mangi
il pomo morirai; al contrario, se lo mangi, diventerai libera, adulta, sarai come Dio, conoscerai il
bene e il male”, da allora gli sforzi dell’uomo per rendersi autonomo come cultura e come
dinamica di amore si sono solo moltiplicati. Ma torniamo al Beethoven di quasi cinquant’anni fa.
Allora avreste potuto vedere per le strade di Milano un prete che girava con un enorme
grammofono. E se qualcuno gli avesse domandato: “Dove vai?”, avrebbe risposto: “Vado a
scuola”. “E porti il grammofono a scuola?!” “Eh, la scuola non mi dà il suo e allora porto il mio.”
Una delle prime cose che facevo ascoltare a scuola era proprio il Concerto per violino e orchestra,
con quel tema fondamentale che percorre tutto il pezzo: la vita dell’uomo, della società, è segnata
dalla melodia dell’orchestra, dalla quale per tre volte il violino fugge per affermare se stesso e
dalla quale per tre volte viene ripreso fino a riposare in pace, quasi dicesse “Finalmente!”. Il
violino − l’individuo − per affermare se stesso ha sempre la tentazione di staccarsi in uno slancio
fugace, e proprio in quel tentativo lo strumento dà il meglio di se stesso. Perciò i motivi più
affascinanti del concerto sono quelli del violino, del singolo che tenta di affermarsi al di sopra di
tutti. Ma il violino non può resistere a lungo in questo slancio; e meno male che c’è l’orchestra − la
realtà comunitaria − che lo riprende in sé. Ricorderò sempre il brivido che percorse la classe
quando feci ascoltare per la prima volta a scuola questo brano di Beethoven: il violino esprimeva
una tale struggenza del sentimento che realmente ci faceva piegare sopra noi stessi. Era talmente
sensibile nella sua potenza quello struggimento che una ragazza, seduta nel secondo banco vicino
alla finestra che dava sul cortile, scoppiò in un singhiozzo. La classe non rise. Io, allora, dissi
soltanto che il luogo della pace è dove tutti gli impeti irrazionali, o comunque incompiuti,
dell’istintività sono ricomposti: nella comunità. Infatti, che cosa permette al violino di compiere i5
già citati tre slanci, solitari e geniali, i tre momenti più pacificanti del concerto? L’appoggio della
comunità, dell’orchestra, a cui può ritornare in ogni momento, che lo riprende, lo insegue e lo
riprende ogni volta che scappa. Il violino è l’uomo che spera nelle sue forze momentanee, sempre
concepite come isolate, più che nel comune tentativo dettato da un’origine e da un destino
condivisi. Comunque la si concepisca, non può essere giusta l’autonomia dell’individuo, proprio
perché come tale non ha vera origine né destino e quindi non può creare storia; può suscitare un
momento di emozione nel tempo, ma, subito dopo avere squassato la superficie dell’acqua non può
fare nulla, non riesce ad avere un fine. Lo struggimento che il tema fondamentale del Concerto per
violino e orchestra suscita – quello che provocò il pianto improvviso della ragazzina – è l’emblema
dell’attesa di Dio che l’uomo ha» (L. Giussani, «La dimora dell’io», in Spirto Gentil. Un invito
all’ascolto della grande musica guidati da Luigi Giussani, a cura di S. Chierici e S. Giampaolo, Bur,
Milano 2011, pp. 135-137).
Un’altra sfida, che provoca costantemente ciascuno di noi, in famiglia o nell’educazione dei
giovani, è come accompagnare i processi dei nostri figli o degli alunni.
All’ultima Scuola di comunità il ragazzo che ha raccontato del suo incidente e del fatto che, in una
situazione oggettivamente tragica, ha detto subito agli amici che non voleva essere consolato, ma
aiutato a stare di fronte al Mistero. Questo mi ha letteralmente spiazzato e mi ha fatto rivedere con
occhi nuovi una situazione che io avevo vissuto proprio quella mattina. Anzi, me l’ha fatta vedere
per la prima volta. Tu ci hai detto: «Attraverso questo imprevisto, un particolare della realtà che
può essere, come in questo caso, una cosa stupenda o che può essere una circostanza non così
stupenda. Alcuni dicono che queste cose succedono solo se si guardano le montagne e se si guarda
una cosa bella, mentre l’accadere di una cosa brutta non parla, non ridesta. E invece…». E invece,
appunto… Quella mattina, infatti, ero stata con mia figlia dal medico. Ha avuto un incidente, che
fortunatamente si è risolto solo con due ferite. Proprio mercoledì mattina il medico avrebbe dovuto
togliere i punti di sutura. Solo che, accorgendosi che le ferite non erano ancora guarite, decide di
non farlo. Io sapevo che mia figlia ci teneva moltissimo a “tornare alla normalità”, cancellare un
brutto ricordo e tanto spavento e intuivo tutta la sua delusione. Eravamo salite in macchina e con
la coda dell’occhio mi ero accorta che stava piangendo. Allora avevo cercato di dire quello che
ogni madre, premurosa e dispiaciuta nel vedere il dolore di una figlia, generalmente dice: “Vedrai
che se il medico non ti ha tolto i punti, è perché aspettando tornerai bella come prima. Sii paziente,
con quello che ti poteva succedere, sei già stata fortunata”. Eccetera eccetera… Insomma, avevo
cercato di consolarla. Ma sentendo quel ragazzo ho capito che il mio giudizio era profondamente
sbagliato. Io le avevo offerto una consolazione senza aprirle la strada al Consolatore! E allora mi
sono detta: «Ma chi sei tu per chiudere questo pertugio dove il Mistero sta parlando a tua figlia?
Che ne sai tu che quelle cicatrici non siano il modo con cui Dio sta dicendo a tua figlia: “Lasciami
ancora un po’ di spazio, lasciami ancora entrare perché tu possa ricordarti che sono io che ti
faccio?”. E allora le scrivo un sms: “La mamma ha detto una scemata. Facciamo colazione
assieme domattina?”. La colazione è stata una cosa semplice, ma di una intensità incredibile; le ho
raccontato quello che era accaduto a me ascoltandoti e le ho detto: “Vedi, non basta ringraziare la
Madonna che l’incidente si sia concluso bene. Ci stavamo perdendo il meglio. Queste cicatrici
tienitele care, sono la Sua carezza che ti chiede di farlo ancora entrare”. Non so cosa porterà
questo a mia figlia. Sicuramente l’ho vista ripartire con una nuova allegria e certezza, allegria e
certezza di chi sa di essere stata stranamente preferita. E so che questa cosa sta cambiando anche
me. Quante cicatrici ho avuto la fretta di chiudere, senza amarle! Senza accettare che quelle erano
il modo con cui Lui mi chiedeva di essere amato e custodito. Riparto da qui. Non da una
consolazione finta, ma dal Consolatore vero.
Un’altra cosa capitatami è stata la Colletta Alimentare. Tra i tanti alunni che si sono coinvolti al
supermercato con noi proff, tre in particolare spiccavano per solerzia e letizia. Sono quelli della
“prima fila”, non perché i più studiosi, ma perché i più vivaci e dunque costretti dagli insegnanti a 6
stare attaccati alla cattedra. Con uno di loro era successo un episodio che mi ha fatto capire come
io non sia chiamata a fare la cosa giusta, ma la cosa vera. Immaginando che avesse copiato il
compito in classe, decido di interrogarlo. Lui va male e io penso di aver fatto giustizia, gli sto per
dare quello che si merita dimostrando di avere avuto ragione di dubitare di lui. Ma mentre sto per
scrivere l’insufficienza, non so come mi fermo e lo guardo. Lui è a testa bassa, tra l’ira e lo
sconforto. “Che c’è? In fondo è solo un 5! Qual è il problema?”. “Sono arrabbiato prof, perché se
prendo un 5 non posso più andare a calcio. E poi a mio babbo questo dispiace.” E allora io mi dico
che forse quel ragazzo non ama ancora la mia materia, però qualcosa ama: ama il calcio e ama
suo babbo. E allora decido di non fare immediatamente e solo la cosa che, dal punto di vista
professionale, mi sarebbe richiesta, ma la cosa che percepisco più vera. Per me e per lui. Perché
chi sono io per non guardare lui come io vorrei essere, anzi sono, sempre guardata? E allora gli
dico, tra lo sconcerto e l’incredulità della prima fila: “Aspettiamo un attimo. Ti interrogo di nuovo
la prossima settimana”. E la settimana dopo, neanche a dirlo, un trionfo. Aveva studiato con un
impegno esagerato, encomiabile. E come lui, giorno dopo giorno, tutti quelli della prima fila che
avevano assistito alla scena. Fare la cosa vera e non appena la cosa giusta ha liberato me, lui, e i
suoi compagni. E pure la sua mamma, che quando è venuta ai colloqui, mi ha detto, con le lacrime
agli occhi: “Non credevo si potesse voler bene così!”. In fondo anche al figliol prodigo deve essere
accaduto qualcosa di simile. Lui la cosa giusta la sapeva già. Ha dovuto andare via di casa per
riconquistarla come vera!
Mi sembra che nel discorso ai movimenti il Papa si riferisca proprio a situazioni come questa
quando afferma che ci troviamo davanti a una umanità ferita, e questo è parte dei processi di cui
dicevamo. L’uomo di oggi vive dei seri problemi nel fare le proprie scelte, come vediamo. E tante
volte il nostro tentativo è quello di sostituirci alla libertà delle persone, perché queste delegano ad
altri le decisioni della vita. Bisogna resistere, sottolinea il Papa, a questa tentazione «di sostituirsi
alla libertà delle persone e a dirigerle senza attendere che maturino realmente» (Discorso al III
Congresso mondiale dei Movimenti ecclesiali e delle Nuove Comunità, 22 novembre 2014, 2). A
questo riguardo, anche noi dobbiamo cambiare. Che cosa dobbiamo imparare? Questo resistere alla
tentazione non significa che allora dobbiamo ritirarci dalla realtà; al contrario, questo resistere a cui
ci invita papa Francesco non è per ritirarci, ma per imparare quale possa essere la modalità più
adeguata di rispondere alla ferita della persona che abbiamo davanti. Rileggo la frase del Papa:
«Bisogna resistere alla tentazione di sostituirsi alla libertà delle persone e a dirigerle senza attendere
che maturino realmente». A quello studente è bastata una settimana per cominciare a cambiare.
Pensando a queste cose, mi colpiva un testo di Péguy che vi propongo: «Chiedete a questo padre se
il momento migliore / Non è quando i suoi figli incominciano ad amarlo come degli uomini, / Lui
stesso come un uomo, / Liberamente, / Gratuitamente, / Chiedete a questo padre i cui figli crescono.
// Chiedete a questo padre se non c’è un’ora segreta, / Un momento segreto, / E se non è / Quando i
suoi figli incominciano a diventare degli uomini, / Liberi, / E lui stesso lo trattano come un uomo, /
Libero, / Lo amano come un uomo, / Libero, / Chiedete a questo padre i cui figli crescono. //
Chiedete a questo padre se non c’è un’elezione fra tutte // E se non è / Quando la sottomissione
precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini / Lo amano, (lo trattano), per così dire da
intenditori, / Da uomo a uomo, / Liberamente, / Gratuitamente. Lo stimano così. / Chiedete a questo
padre se non sa che niente vale / Uno sguardo d’uomo che s’incrocia con uno sguardo d’uomo. /
Ora io sono loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell’uomo. / […] Tutte le sottomissioni di
schiavi del mondo non valgono un bello sguardo d’uomo libero. / O meglio, tutte le sottomissioni
del mondo mi ripugnano e darei tutto / Per un bello sguardo d’uomo libero / […]. A questa libertà, a
questa gratuità io ho sacrificato tutto, dice Dio, / A questo gusto che ho d’essere amato da uomini
liberi, / Liberamente, / Gratuitamente, / da veri uomini, virili, adulti, saldi. / Nobili, teneri, ma di
una tenerezza salda. / Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto, / Per creare
questa libertà, questa gratuità, / Per fare entrare in gioco questa libertà, questa gratuità. // Per
insegnargli la libertà» (Lui è qui, Bur, Milano 2009, pp. 373-375). In questo processo, c’è tanto da 7
imparare per potere amare così. Anche nel lavoro ci sono processi in cui occorre costantemente
imparare.
Dopo le domande che ci hai posto all’ultima Scuola di comunità mi sono resa conto che il percorso
che ci stai facendo fare serve soprattutto a me nel mio lavoro. Il mio lavoro consiste nell’aiutare i
senior manager a essere più consapevoli di sé, in modo adulto, e in forza di questo a guidare le loro
aziende nella complessità. Per fare questo lavoro dobbiamo lavorare molto su di noi, non solo
attraverso corsi di formazione a livello internazionale, in grandi business schools, ma esercitando
anche una grande disciplina su noi stessi, di reale ascolto, rispetto, comprensione di noi stessi, e
quindi degli altri. Negli ultimi mesi ho chiesto a un medico psichiatra, analista e neuroscienziato,
di lavorare con noi un pomeriggio al mese per confrontarci con lei e migliorare continuamente il
nostro approccio. E proprio questa psichiatra, laica, agnostica, durante l’ultimo incontro ci ha
parlato (ce ne ha parlato lei!) della parabola del figliol prodigo, dicendo che l’unico modo per
acquisire la libertà è vivere come il figliol prodigo, e anche del bisogno del padre che ci fa scoprire
la nostra identità, del bisogno del senso della realtà e quindi della responsabilità che ognuno di noi
ha al lavoro e soprattutto nella guida di un’azienda. Stiamo parlando di aziende con migliaia di
dipendenti nel mondo. In sintesi, il percorso che tu ci stai facendo fare è esattamente lo stesso che
guida il mio lavoro ogni giorno. E ti dico la verità: solo se io divento adulta, responsabile,
consapevole, in una parola, unita, posso lavorare e incontrare gli altri, altrimenti, come dici tu, io
sono solo parte del problema, anzi, lo acuisco.
Rispetto alla domanda posta da te nell’ultima Scuola di comunità: «Che percorso ha dovuto
compiere la tua libertà per scoprire la verità?», volevo raccontare la mia esperienza. Qualche
anno fa ho vissuto un evento molto drammatico: è improvvisamente morto mio marito. In quella
circostanza di grandissima sofferenza, ho supplicato e gridato al Signore affinché mi aiutasse a
sopportare il dolore, perché non trovavo conforto in nulla e non riuscivo ad avere un attimo di
pace. Cristo ha ascoltato la mia supplica, l’ho incontrato nel movimento che ho conosciuto proprio
in quell’occasione. Bellissimo! Ho scoperto, per la prima volta, una corrispondenza grandissima al
cuore per il gran bisogno di verità che avevo e ho vissuto, con meraviglia, la predilezione che
Cristo aveva e ha per me. Si è reso evidente chi sono io, da dove vengo, la mia origine, la vera me.
È nato un attaccamento e un fascino rispetto a questa esperienza che desidero continuare a vivere e
un bisogno grande di riconoscerLo nella quotidianità. Ecco, la mia libertà si mette in azione
proprio nella sequela al movimento, luogo che mi educa a vivere il reale, mi rende consapevole, mi
aiuta conoscere e a scoprire il senso della vita. Nulla può colmare il senso di insoddisfazione e
vuoto che molte volte ho provato e che provo, ma ora so che esiste, che c’è Colui che risponde ai
miei grandi bisogni, che colma e che compie. Così si rende concreta la frase evangelica: «Sarò con
voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». Sono grata alla genialità del metodo di Dio che, per
incontrarci, «si è fatto carne». Io penso di aver vissuto l’esperienza del figliol prodigo che viene
raccontata nella parabola: “toccando il fondo”, sono arrivata a intuire chi è per me il Padre, che
solo Lui può colmare il bisogno di felicità che sento. In questi giorni leggevo il libro di Giussani In
cammino e in un intervento si parla di un volantino di Natale che dice: «Il cammino del Signore è
semplice come quello di Giovanni e Andrea [...]. Non c’è altra strada, al fondo...». E Giussani
chiede: «Perché è semplice?». Intervento: «Perché “hanno cominciato ad andare dietro a Cristo:
per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata
dal presentimento del vero”»; e Giussani ribadisce, con enorme profondità ed estrema sinteticità, il
“succo” della questione: «“Curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero”: togliete una
di queste parole e togliete la vita» (In cammino. 1992-1998, Bur, Milano 2014, pp. 16-17). Ti
saluto e ringrazio il Signore per il dono che ci ha fatto della tua presenza, segno della Sua
Presenza.8
Grazie. Parliamo ora di un’altra sfida con la quale abbiamo a che fare nel presente, cioè il perdurare
della crisi economica con tutto il bisogno che fa emergere. Al processo della povertà crescente cerca
di rispondere un gesto a cui la maggioranza di noi ha partecipato di recente. Ora il responsabile del
Banco Alimentare riassume la modalità con cui si è dato un contributo a questo processo.
Andrea Giussani. La grande esperienza che è stata l’ultima Colletta Alimentare, con tutte le storie
che abbiamo potuto vedere e i racconti ascoltati, è sicuramente la ricchezza più grande di questo
gesto, molto più del risultato pratico, che pure ha fatto registrare un 2% in più di cibo raccolto
rispetto all’anno scorso; il che, in questi tempi, è un dato eccezionale, sia per il permanere della
crisi, sia per il fatto che altre collette sono proliferate un po’ dappertutto, il che è un bene per
quanto riguarda la diffusione della carità, anche se spesso si rivelano in realtà iniziative poco
ordinate e quindi poco esemplari dal punto di vista del loro futuro. Dunque, per quanto ci riguarda
il più grande risultato della Colletta è questo: si tratta un gesto che da diciotto anni facciamo
esattamente nello stesso modo e che proponiamo nello stesso modo, ma che ogni anno si riscopre e
che stupisce nuovamente. E quest’anno addirittura si è arricchito ancora di più di testimonianze,
non solo da parte di chi c’era fisicamente – chi faceva il volontario e chi donava –, ma anche da
parte di persone che non c’erano, perché costrette a casa dalla malattia, dalla invalidità o da una
qualche impossibilità a partecipare, ma che si sono unite a noi attraverso strumenti tecnologici
piuttosto che attraverso il racconto, in qualche modo facendo la Colletta da casa. Al termine la
domanda che ci siamo posti è stata questa: perché ancora oggi, in questa situazione di crisi, le
persone donano, e soprattutto perché donano persone che incontriamo e che talvolta appaiono
ostili o annoiate? Innanzitutto perché la povertà è evidente, è reale, è vicina a noi, non è poesia,
non è una cosa lontana, è nella nostra vita, la incontriamo nelle nostre città, nei nostri quartieri. E
forse l’esperienza della Colletta Alimentare negli ultimi anni e negli ultimi mesi ha saputo indicarla
meglio a tutti. E poi perché la Colletta è un gesto semplice, semplicissimo, chiaro, sostenuto da
ragioni comprensibili immediatamente, non censurate né ridotte, perché le dieci righe dell’invito
alla raccolta dice esattamente quello che noi intendiamo fare e sono comunicate da persone con la
gioia di fare la Colletta, non come un dovere o come un turno da fare. Si sono viste dappertutto in
Italia, le abbiamo viste perché siamo stati insieme il sabato della Colletta, famiglie, anziani,
bambini, scolaresche, indigenti che facevano i volontari, cassiere che smontavano dal turno e si
mettevano a fare le volontarie, reclusi in libertà vigilata. Veramente è un’Italia molto variopinta;
soprattutto abbiamo dovuto riconoscere che la Colletta è contagiosa, don Giussani la definiva «il
fondo comune degli italiani». Ciò che ho visto accadere quest’anno ha suscitato in me una
riflessione, forse un po’ statistica: la Colletta mette in piazza circa centotrentacinquemila
volontari, dei quali un terzo al massimo proviene dall’esperienza del movimento; vuol dire che tutti
gli arrivano da altri percorsi: sono alpini, gente delle varie opere caritative, della Caritas, della
San Vincenzo, talvolta sono passanti ignoti che si fermano e dicono: «Voglio dare un mano
anch’io», dunque raccolti al volo. Perché accade tutto questo? Come è possibile? La risposta che
io ho provato a darmi e che ci siamo dati in Fondazione è stata questa: perché il metodo che viene
vissuto durante la Colletta, più o meno compreso, è quello che stiamo vivendo e di cui abbiamo
avuto testimonianza anche questa sera; il metodo è garantito dai responsabili dell’organizzazione
della Colletta, che lo trasmettono, ma poi è incontrabile dalla gente: la Colletta è una cosa che
serve a sé, una iniziativa che la persona immediatamente riconosce come una proposta e un aiuto a
capire e a fare. Sto parlando di tanta gente che forse non sa che cosa c’è all’origine del gesto, ma
che incontra questa proposta e la vive. Nel fare questo gesto semplice, il metodo è attuato, mi
sembra, senza riduzioni, integralmente e si rivela immediatamente coinvolgente per tutti, amplia le
capacità di ognuno, non nel fare di testa sua, ma nel seguire una modalità e una applicazione
pratica che rende più capaci, più efficaci, più felici, e quindi in qualche modo mi fa riconoscere che
sta rispondendo anche al mio bisogno. Certo, l’esperienza del movimento sta dietro il gesto della
Colletta, sta all’origine e nel metodo, ma non è sventolata come una bandiera; di fatto, è l’anima di
questo gesto. A me questo ha fatto prendere coscienza di quale grande responsabilità educativa 9
abbiamo verso la società e verso le persone che accompagniamo nel fare la Colletta e che poi
accompagniamo tutti i giorni, perché noi un incontro lo abbiamo fatto o diciamo di averlo fatto;
per questo la responsabilità è ancora più grande ed è un’esperienza di missione proprio perché è
guidata, perché educa, non perché siamo più bravi degli altri nel dire o nel fare, ma perché
seguiamo. In questo senso, la sottolineatura che faceva Prosperi sul legame mi dice che le decine di
migliaia di persone coinvolte nella Colletta incontrano la possibilità di un legame, si coinvolgono e
si mettono in azione ancora più entusiaste e più felici.
Ti ringrazio perché il gesto della Colletta ha questa portata, questa incidenza in una circostanza così
decisiva come la crisi, che coinvolge tante persone. È una grazia aver potuto identificare in un gesto
una possibilità educativa di incidenza, in un processo come quello che stiamo vivendo, di questo
calibro. Speriamo di identificare altri gesti che abbiano una possibilità di incidenza come la Colletta
alimentare. Ci sono tante modalità di intervenire in questi processi, dal livello personale a quello più
pubblico, più sociale, e quando troviamo gli strumenti adeguati vediamo quale contributo possono
rappresentare per tutti certi gesti.
Perché la Chiesa
Concludiamo con una breve presentazione del testo della prossima Scuola di comunità, che inizierà
a gennaio: Perché la Chiesa, il terzo volume del PerCorso di don Giussani. Mi sembra che fin
dall’inizio il libro risponde in modo stupendo al tema che abbiamo affrontato oggi, cioè il crollo
delle evidenze. Don Giussani ha iniziato il movimento perché certe cose iniziavano a non essere più
percepite dalle persone che incontrava, a cominciare dai ragazzi. Più di sessant’anni fa si è reso
conto che non era percepita l’evidenza di ciò che lui aveva ricevuto e che la tradizione non riusciva
più a trasmettere. E qual è la sua preoccupazione? Fin dall’inizio introduce una novità
metodologica: «Non sono qui», dice durante la prima ora di lezione, «perché voi riteniate come
vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E
le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni» (Il rischio
educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20). Lungo tutto il percorso, dal primo capitolo de Il senso
religioso e de All’origine della pretesa cristiana fino alla fine o adesso dal primo capitolo di Perché
la Chiesa, tutta la sua preoccupazione è come possiamo riconoscere quello di cui si parlerà: come
possiamo riconoscere Cristo quando si parla della pretesa cristiana e come possiamo riconoscere la
Chiesa come continuità della presenza di Cristo nella storia. Non basta ripetere un discorso, la
ripetizione pur giusta non basta; se il contenuto non è colto in tutta la sua densità, le evidenze non
saranno tali per noi e quindi non ci attaccheremo ad esse, non ci serviranno per vivere. Per questo
cominciamo già dal prossimo gennaio la Scuola di comunità cercando di sorprendere questo
metodo, di cui già dalla Prefazione don Giussani ci rende consapevoli, perché senza questo noi
possiamo leggere o rileggere il libro e fare dei commenti su di esso, ma non potremo cogliere
veramente tutta la portata di quello che è la Chiesa se manca quello che don Giussani introduce
come il fattore giudicante: l’esperienza elementare, il cuore, il senso religioso. Infatti l’unica
possibilità consiste nella generazione di un soggetto che renda l’uomo capace di recuperare e di
riconoscere le evidenze più elementari del vivere. Senza questo la Scuola di comunità si ridurrà
semplicemente a fare certi commenti che non incidono in alcun modo nei processi di cui abbiamo
parlato questa sera e in cui siamo dentro fino al collo, perdendo per la strada il metodo che don
Giussani ci ha insegnato.
Vi ricordo il Volantone di Natale perché le frasi che abbiamo scelto, una di papa Francesco e una
di don Giussani, ci offrono già lo spunto per un cammino.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 21 gennaio, alle ore 21,30. Inizieremo a lavorare
sulla Prefazione e sul primo capitolo di Perché la Chiesa.10
Udienza 7 marzo 2015. Vogliamo andare all’udienza che papa Francesco ha concesso a tutto il
movimento il 7 marzo 2015 aperti e fiduciosi nell’ascoltare le sue parole e le indicazioni che vorrà
darci sulla strada da seguire. Un momento privilegiato per prepararci all’incontro di piazza San
Pietro sarà la messa di febbraio per l’anniversario della morte di don Giussani e del riconoscimento
pontificio della Fraternità di CL. Suggeriamo di riprendere l’intervento del Papa al Congresso dei
movimenti che abbiamo citato. Abbiamo inoltre caricato sul sito di CL alcuni video significativi
della nostra storia, che si possono vedere insieme. Ricordo che l’invito all’udienza è rivolto a tutti, è
quindi un’occasione per invitare i nostri amici. Le iscrizioni apriranno il 15 gennaio e chiuderanno
il 12 febbraio.
Libro del mese per gennaio e febbraio 2015. Con l’inizio della nuova Scuola di comunità mi è
sembrato che potesse essere di aiuto riproporre La conversione al cristianesimo nei primi secoli del
Bardy. Anche se molti già lo conoscono, mi sembra che leggerlo adesso abbia un significato
diverso, perché ci stiamo rendendo conto che proprio i processi di cui parlavamo prima sono molto
più simili di quanto pensiamo ai momenti iniziali del cristianesimo di cui parla Gustave Bardy; ci
troviamo, infatti, davanti a una società totalmente plurale, come quella dei primi secoli. Leggere il
libro con questa coscienza può renderlo del tutto diverso rispetto a come lo conosciamo, perché
adesso abbiamo delle domande che forse prima non erano così consapevolmente chiare in noi. Per
questo mi sembra una bellissima occasione poterlo leggere o rileggere con questa prospettiva
nuova.
Tanti auguri a tutti!
Veni Sancte Spiritus

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