martedì 23 febbraio 2010

Giussani, l’incontro con Cristo e la passione educativa in memoria


Duomo gremito ieri a Milano per la Messa nel quinto anniversario della morte del fondatore di Comunione e liberazione
Presieduta dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, è stata celebrata ieri sera, in Duomo a Milano, la Messa in memoria di monsignor Luigi Giussani, nel quinto anniversario della sua morte e nel ventottesimo del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e liberazione.
«Un riandare con il cuore – per il cardinale Tettamanzi – alla figura di don Giussani come uomo, cristiano, sacerdote, insegnante, educatore, maestro di vita cristiana nella Chiesa e nella società, amico e padre».
Per ricordare il fondatore del movimento morto il 22 febbraio del 2005, in Cattedrale si sono raccolti diecimila fedeli. Cinque anni fa, qui si ritrovarono decine di migliaia di persone arrivate da ogni parte del mondo per l’addio al sacerdote di Desio, salutato nell’omelia dell’allora presidente della Congregazione per la fottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, come colui che «avendo guidato le persone non a sé ma a Cristo ha guadagnato i cuori ed ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo». Sempre nelle parole di papa Ratzinger, quelle usate nella prima enciclica Deus caritas est,
Tettamanzi ha ravvisato il «filo rosso della vita e della passione educativa di don Giussani e di Comunione e liberazione». E precisamente le parole di Benedetto XVI sono queste: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Il cristianesimo, ha quindi aggiunto ieri sera Tettamanzi, «non è semplice teoria, non generico moralismo, non tentativo di autorealizzazione umana, ma è l’incontro personalissimo di Cristo con ciascuno di noi».
Convincimenti questi, ha detto il cardinale, che per un ciellino «sono più che abituali». Un’altra cifra della vita del “Gius”, quella dell’impegno educativo, è «per i vescovi italiani una sfida decisiva per il prossimo decennio pastorale». Perciò, ha concluso Tettamanzi «penso che l’insegnamento, la vita, le opere di don Giussani abbiano al riguardo ancora tanto da offrire alle nostre comunità». Messe per il fondatore di Cl sono state celebrate ieri anche da numerosi vescovi in Italia e nel mondo, e tutte le celebrazioni si sono svolte con questa intenzione: «Il Signore aiuti la Fraternità di Cl a realizzare il proprio scopo: mostrare a tutti, secondo il carisma di don Giussani, la pertinenza della fede alle esigenze della vita».
Oltre che a Milano – dov’erano presenti anche il presidente della Fraternità, don Julián Carrón, e il nuovo assistente diocesano di Cl, don Adelio Dell’Oro – Messe sono state celebrate – ad esempio – a Roma dal cardinale José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi, e a Firenze dall’arcivescovo Giuseppe Betori. Questi, rivolgendosi ai numerosi fedeli, ha detto: «Il vostro carisma ha bisogno di una terra in cui posarsi e dare frutto, e la nostra Chiesa ha bisogno dei doni dei suoi figli per dare continuità all’esperienza di fede con cui ha arricchito di bellezza e verità la storia del mondo». L’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, celebrerà una Messa oggi alle 21 nella chiesa di Santa Marta, nel capoluogo ligure.
Il cardinale Tettamanzi: «Ci ha insegnato che la fede non è teoria né generico moralismo».
Messe anche
a Roma, Genova e Firenze
Avvenire 23/02/2010-ANNALISA GUGLIELMINO

La fede può soddisfare la ragione e il cuore


«Fino dalla prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni”. Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere repertata e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento. Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo “quindi” è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola “razionalità”, usa la parola “cuore”. La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell’uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé».

Questo brano di don Giussani, che compare in questa antologia, tratto da uno dei suoi libri più noti, descrive quale fosse l’originalità della sua posizione nei confronti dei giovani, così come emerse fin dalla prima ora di insegnamento della religione cattolica, che lui chiamava «scuola di religione»: una fiducia totale. Molti anni dopo affermò che nel lungo arco della sua vita aveva scommesso tutto sulla «libertà pura» di chiunque avesse incontrato - e si possono contare a decine di migliaia le persone che aveva conosciuto -. Proviamo a immaginare quale stima un uomo debba nutrire per l’umanità di chi incontra sul suo cammino per rischiare tutto su di essa. Come è raro trovare uomini così, oggi! Proprio a causa di questa mancanza siamo arrivati a parlare di «emergenza educativa», tanto che la Chiesa italiana ha appena lanciato un programma decennale dedicato al tema dell’educazione.

Fin dall’inizio del suo impegno con gli studenti milanesi, a metà degli anni Cinquanta - prima come assistente della gioventù femminile e maschile di Azione Cattolica e poi come insegnante nel liceo Berchet -, Giussani ebbe chiaro che l’unico modo per rispondere alla sfida di un mondo che andava nella direzione opposta a quella della tradizione - e per il quale la fede e la ragione erano come due rette che non si sarebbero mai potute incontrare - era di indicare un metodo per cui le parole cristiane tornassero a essere una risposta convincente alla vita dei giovani. Il metodo educativo di don Giussani non era quello di ripetere idee giuste, ma piuttosto il tentativo di ridestare qualcosa che c’era nell’altro, provocandone la libertà. Questo era il suo modo di fare compagnia ai ragazzi, di essere loro amico. Il suo era un richiamo a quel fascio di esigenze ed evidenze originali del cuore - esigenze di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità - e un invito a un paragone continuo con esse. E per realizzare questo utilizzava tutto ciò che il genio dell’umanità aveva prodotto, dalla musica alla poesia. C’è un testo, tra i tanti di Giussani, che descrive il percorso di questa conoscenza e che compare in questa antologia. Il capitolo decimo de Il senso religioso. In esso si esprime il suo “genio” educativo, come un accompagnare dentro la profondità della realtà fino alla scoperta di un quid ultimo che la costituisce. Tutto parte dal rapporto con la realtà. La realtà agisce sulla ragione dell’uomo come un invito a scoprire il significato di tutto ciò in cui si imbatte. Interrompere questa dinamica è come bloccare la conoscenza. «Il modo con cui il reale si presenta a me è sollecitazione a qualche cosa d’altro. Il reale mi sollecita a ricercare qualche cosa d’altro, oltre quello che immediatamente mi appare. La realtà afferra la nostra coscienza in maniera tale che questa pre-sente e percepisce qualche cosa d'altro. Di fronte al mare, alla terra e al cielo e a tutte le cose che si muovono in esso, io non sto impassibile, sono animato, mosso, commosso da quel che vedo, e questa messa in moto è per una ricerca di qualcosa d’altro».

Giussani osserva che questa dinamica del segno non è completa, se non giunge sino al suo culmine: il riconoscimento stupefatto della realtà del Mistero che fa tutte le cose. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero». E ancora: «Il mondo è un segno. La realtà richiama a un’Altra. La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega». .

È estremamente significativa la corrispondenza di questa posizione di Giussani con le preoccupazioni di un suo antico vescovo, quel Giovanni Battista Montini – futuro Paolo VI – che nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1957, intitolata Sul senso religioso, scriveva: «Il senso religioso è un’attitudine naturale dell’essere umano a percepire qualche nostra relazione con la divinità , come l’apertura dell’uomo verso Dio, l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino».

È questa una preoccupazione che mostra quanto fosse già allora urgente, e quanto lo sia ancor più oggi, il bisogno di educazione, così come la definisce Josef Andreas Jungmann, ripreso da Giussani: educare è «introdurre alla realtà, in definitiva alla realtà totale».

GIUSSANI / La convenienza umana del cristianesimo - Angelo Scola


«Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova».
L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.
Mi sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all’inizio degli anni Cinquanta: «Una situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».

Quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.
Da dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un passato: «Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».
Ma questa dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.

In Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.
In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano.

Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre attenzione al frangente storico e culturale per comunicare un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà che è sempre drammaticamente situata.

Realtà (quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla. La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è comunicata.

Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.

Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo: «Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».
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lunedì 22 febbraio 2010

G I U S S A N I - Il carisma del maestro - 5° anniversario

DON LUIGI GIUSSANI CON UN GRUPPO DI GIOVANI DURANTE UNA GITA IN MONTAGNA AI TEMPI DI GIOVENTÙ STUDENTESCA, NEL 1958.








Chi sia stato don Giussani non è semplice dirlo. Poche parole non bastano a descriverne la ricchezza della personalità poiché egli è stato un uomo poliedrico. Ci avvicineremo percorrendo alcune strade concentriche che hanno segnato la sua esistenza. Egli è stato un lettore intelligente e precoce di poesia e letteratura. Durante le ore di lezione, citava a memoria intere poesie di Pascoli, di Leopardi, di Ada Negri e di altri autori a lui cari. Interessato al dramma inevitabile dell’esistenza umana, era un innamorato degli uomini: sempre desideroso di imparare, di trovare la strada per entrare dentro le loro vite, la loro mente e il loro cuore. Le parole degli scrittori erano, tra le altre, alcune vie di questo incontro. Era sicuro di una cosa: ogni uomo, nel fondo del suo essere, vive per le stesse esigenze di verità, di giustizia, di bene, di felicità che animano le ore dei suoi fratelli sulla terra. All’uomo che grida, che cerca, che non può negare a se stesso quel «più in là» di cui parla Montale, era diretta la sua attenzione profonda. Lo sviluppo compiuto di questa intuizione è contenuto nella sua opera che egli chiamerà «Il senso religioso». Colpiva in don Giussani la sua passione per la musica. Da piccolo, il padre lo portava con sé ad assistere a concerti d’organo o di polifonia, una passione che coltiverà poi in seminario attraverso la scuola di monsignor Nava. Egli ha così penetrato i segreti delle grandi opere: portava in classe grandi grammofoni per farci ascoltare la Quinta o la Settima di Beethoven, alcuni concerti di Mozart, ci introduceva a Brahms, Schubert e Chopin.
Nella musica vedeva il segno profondo della vita dell’uomo. Nei grandi artisti, nella loro opera leggeva la solitudine umana e, allo stesso tempo, la tensione verso l’incontro con altri uomini. Don Giussani è stato sì un uomo curioso, che amava conoscere, ma soprattutto l’amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita. Egli è stato un grande studioso di teologia in seminario, l’ha penetrata con tale passione che i suoi insegnanti pensavano potesse diventare un grande teologo, uno dei più importanti del nostro Paese. Trascorse 8 anni nel seminario di Venegono, dove vi erano degli educatori che potevano, per la loro profondità e paternità, formare non solamente dei preti, ma educare degli uomini. Un episodio lo segnò profondamente. Quando da monsignor Gaetano Corti sentì commentare il versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni, «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), cioè la Bellezza, la Giustizia, l’Amore, la Verità si è fatta carne, si ricordò in quel momento di una poesia di Leopardi. Era un inno non a una delle sue amanti, ma alla scoperta che ciò che cercava nella donna amata era qualcosa oltre essa. Quella di Leopardi fu, 1800 anni dopo san Giovanni, la mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto. L’allora rettore del seminario, Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano, che nutriva sentimenti di vera stima per Giussani, tentò per ben due volte di realizzare il progetto di tenerlo in seminario. Nel 1954 e poi nel 1965.
Giussani sentiva di essere chiamato ad altro. È lui stesso a raccontarlo: dopo aver incontrato alcuni giovani studenti sul treno, trovandoli totalmente estranei alle cose più elementari del cristianesimo: «Mi venne… il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto… Abbandonai perciò l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato».
Don Giussani è stato soprattutto un grande educatore. La sua preoccupazione era trasmettere ai ragazzi in modo chiaro, affascinante e coinvolgente, quello che gli sembrava la Chiesa non riuscisse più a comunicare. Il patrimonio vitale che costituisce l’anima di ogni civiltà deve essere riscoperto e riguadagnato da ogni generazione. Tutta la vita del sacerdote lombardo è stata un’esistenza dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che sarà il tentativo del Vaticano II, un concilio pastorale che non volle semplicemente riproporre delle verità, ma soprattutto indicare una strada per viverle. Egli non si stancò mai di ripetere che seguire Cristo non è negare la ragione, negare l’uomo, ma all’opposto è esaltarlo. Il cristianesimo non è una tradizione del passato, è una Persona presente che entra nella vita, in forza della ragione stessa del suo annuncio. Giussani era fermamente convinto che solo dall’interno del cristianesimo vissuto l’uomo scopre se stesso e le sue attese più radicali. Nessuno conosce l’uomo come Cristo, dirà la costituzione del Concilio «Gaudium et spes» (n. 22). Il suo tentativo è stato quello di portare la tradizione vivente della Chiesa negli ambienti della vita dell’uomo: nella scuola, nell’università, nella famiglia e nel lavoro. Tuttavia Giussani non ebbe vita facile. Egli era malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano un innovatore perché metteva insieme ragazzi e ragazze e favoriva la creazione di comunità nelle scuole, viste come una possibile causa dell’allontanamento dei giovani dalle parrocchie. Al tempo stesso era additato dagli innovatori come tradizionalista. In realtà don Giussani aveva orrore per ogni tradizionalismo come sguardo all’indietro.
Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una rottura con la storia precedente, quanto piuttosto una novità nella continuità. Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità.
Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata.

Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. La vita perderebbe il suo asse fondamentale: la scoperta di essere creatura, di essere fatti da Dio, generati da qualcuno che ci precede, che ci attende e che ci vuole bene.
Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’ autorità. Don Giussani è stato un alto cantore di Cristo. Già negli anni del seminario iniziò con alcuni suoi compagni un piccolo gruppo, lo «Studium Christi»: una passione irrefrenabile per Gesù come avvenimento presente. La fede è riconoscere Cristo vivo qui ed ora, centro del cosmo e della storia, una persona che vale la pena seguire, che è luce che illumina la vita e calore che riempie interamente il cuore. Le parole della Scrittura erano spessissimo sulle labbra di Giussani: egli la leggeva, la meditava, ci si immedesimava. E immedesimava chi lo ascoltava. Amava tantissimo san Giovanni e san Paolo, forse perché li sentiva più vicini a sé. In Giovanni scopriva la forza della contemplazione dell’evento dell’incarnazione; in Paolo il grande slancio missionario. Don Giussani era un uomo profondamente lombardo e un prete profondamente ambrosiano. Tutta la sua vita è stata permeata dalla figura e dall’insegnamento di sant’Ambrogio che attraverso la liturgia e la grande tradizione della Chiesa ambrosiana giunse fino a lui.
L’
ambrosianità di don Giussani si esprimeva nel senso concreto dell’uomo peccatore e salvato. Era vivo in lui lo stupore per la misericordia di Dio più grande del nostro peccato. Amava tutto ciò che è bello, tutto ciò che è parola, che è canto, come era per Ambrogio, creatore degli inni. In lui ho rivisto un tratto tipico dei grandi preti ambrosiani: una «fedeltà in piedi» non servile, ma reale e sacrificata all’autorità della Chiesa. Così è stato il suo rapporto con i due arcivescovi di Milano, Montini e Colombo, che videro la fioritura del movimento proprio negli anni del loro servizio pastorale, e con i papi che ha incontrato. Don Giussani è stato un grande uomo di cultura, un estimatore della ragione umana. Durante le ore di lezione colpiva la forza logica del suo parlare, la stringenza del suo ragionamento. Egli non si stancò di sostenere contro ogni riduzionismo che la ragione è apertura alla realtà in tutti i suoi fattori. Benedetto XVI in questi ultimi anni ha invitato ad «allargare la ragione». Mi ha fatto molto pensare a don Giussani. La ragione non è qualcosa che ci chiude in noi stessi ma è una finestra spalancata su una realtà nella quale non si finisce mai di entrare.
Dall’incontro con Cristo nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere nell’ambiente in cui vivono i cristiani. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova Gioventù Studentesca nata intorno a Giussani. Egli ci ha sempre educati alla carità. Fin da piccoli andavamo nella Bassa milanese per stare con i bambini semplicemente, per educarci al fatto che Dio si è fatto uomo per stare con noi. Tutto nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la sua vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, opere di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie.Già dalla fine degli anni Sessanta don Giussani aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi. Ed infine, l’ultima parola che ha dominato la vita di don Giussani è stata la misericordia. Negli ultimi anni tutto si era tramutato in questa certezza: «Dio per l’uomo è misericordia». È stata l’insistenza maggiore in un numero impressionante di interventi, come un fiume in piena, in un uomo segnato dall’immobilità, dalla quasi totale impossibilità ad articolare la sua voce.
Colpisce la comunanza con la vita di Giovanni Paolo II, morto proprio nei primi vespri della festa della Divina Misericordia.
E 5 anni prima di morire Giussani scriveva: «Di fronte a tutti i peccati della terra, sarebbe ovvio dire: Dio distrugga un uomo così. Invece, Dio muore per un uomo così, diventa uomo e muore per un uomo così, tanto che questa sua misericordia rappresenta il senso ultimo del mistero».
Non ebbe vita facile: malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano progressista perché metteva insieme ragazzi e ragazze, al tempo stesso era additato dagli innovatori come passatista In realtà aveva orrore per ogni sguardo all’indietro, desiderava lanciare i giovani verso il futuro ma nella continuità; per questo soprattutto dopo il ’68 sostenne l’autorità, convinto che si deve trasmettere ciò che si è ricevuto
di Massimo Camisasca

mercoledì 17 febbraio 2010

La verità” di Povia … suadente, ma falsa e non dignitosa.

Un’ottima armonia musicale e una ricercata scenografia hanno fatto da cornice a parole irreali, che descrivono fatti e sensazioni presenti solo nella mente di un cantante, certamente ricco di talento.
Il testo della canzone “La verità”, che Povia ha presentato alla 60° Edizione del Festival di Sanremo, è composto di parole che non raccontano più dello stupore che avevano i bambini di “Quando i bambini fanno oh”, nell’osservare l’evidenza della piaggia; queste parole, al contrario, trasmettono sensazioni melliflue e sinistre, proprio come quelle lasciate dai “cretini” - non interessati a trovare risposte alle cose che accadono, alla vera realtà che li circonda - che invece di fare “Oh!”, “fanno boh?”. E così “tutto resta uguale”: chi è solo con il suo grave handicap continua ad esserlo.
La canzone da per certi fatti accaduti ad Eluana, che certi non sono: il suo desiderio di morire, e non considera dati obiettivi: la sofferenza di una morte per fame e sete, testimoniata dall’esame autoptico, ed è per questo che è pura demagogia.
Fondamentalmente c’è un profondo errore antropologico nel testo di questo artista, che in altre occasioni ha invece dimostrato un’attenzione particolare a ricercare ciò che è adeguato all’uomo. L’errore sta nel non ammettere che la vita è un dono, non qualcosa di dovuto; un regalo e non un giocatolo; una responsabilità, non un desiderio. Al cuore dell’uomo corrisponde un solo desiderio: amare, che vuol dire fare, aiutare a vivere. Infatti, noi sosteniamo gli ammalati anche terminali - e so che Povia in questo può insegnare a molti - ed assistiamo i poveri, perché l’uomo ha valore al di là della sua condizione fisica o economica, ed è a quel valore che il nostro cuore deve e vuol corrispondere.
Con umiltà e pur sentendomi a lui molto legato, ritengo sbagliate le parole del testo e non in grado di aiutare la causa dell’uomo e la difesa della sua dignità: essere un amante, un sostenitore della sua e dell’altrui esistenza.
Dott. Cristian Ricci Presidente di Scienza & Vita Pontremoli –Lunigiana, che nel 2007premiò Povia con la “Statua Stele per la vita”, per la canzone “Due Navi”.
Cristian Ricci

lunedì 15 febbraio 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 10 febbraio 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 321-337.
• Canto “I Wonder”
• Canto “Ballata dell’amore vero”
«Mi stupisco che Gesù sia venuto a morire per la povera gente affamata come me e come te».Questo canto con cui abbiamo iniziato nasce da questo stupore di uno che si qualcuno ha avuto pietà del suo niente. È questo quello che dobbiamo domandare ogni giorno mentre facciamo la Scuola di comunità: partecipare allo stupore di questo canto. Se noi non partecipiamo a questo stupore, non abbiamo capito quanto dice la Scuola di comunità.

Io leggendo il capitolo sulla carità mi sono accorta che questo amore a me è successo ed è una cosa che c’è tuttora. La cosa che però mi chiedo è: come mai nella sembrano più reali? Quando la volta scorsa tu hai introdotto la carità, hai detto che per parlare della carità dobbiamo essere consapevoli del nostro bisogno; allora, la prima cosa che mi viene in mente è che sembra più reale un altro amore perché non sai più chi sei, di che cosa hai bisogno veramente. Però l’altra cosa che pensavo è anche, forse, che non capiamo esattamente cosa ci succede quando ci succede, che tra l’altro è una cosa che dice a pagina 323: «Altra cosa è che, dal
momento dell’incontro, la cosa che la ragione più desidera di riuscire a capire è quella cosa lì».

Ti ringrazio, perché questo ci aiuta a entrare in questo capitolo. Quando ho fatto la presentazione di questa terza parte di Si può vivere così? In Irlanda e America – il testo lo trovate sul Tracce di febbraio –, sono partito da una frase che dice il Papa in Deus caritas est: «L’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». A me ha stupito che per parlare della carità il Papa abbia tirato fuori le due questioni cui si deve dar risposta: chi è Dio e chi siamo noi (era già venuto fuori la volta scorsa con chiarezza, perché quando il nostro amico aveva cercato di aiutare suo padre aveva avuto subito il contraccolpo del bisogno che aveva, non ce la faceva; allora è soltanto se noi ci rendiamo conto del bisogno che possiamo capire
veramente che cosa è questa carità). Per esprimere in altro modo questo bisogno mi è capitata tra le mani una poesia di Mario Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza... / Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce
forza e canto / la musica perpetua ritornerà. / Sii calmo». Se noi cerchiamo di immedesimarci con queste espressioni di Luzi – e possiamo farlo perché tutti abbiamo intuito in certi momenti della vita che razza di mancanza ci costituisce –, se questa coscienza è costantemente presente a noi, allora possiamo veramente capire che cos’è la carità del Mistero con noi; e possiamo capire che cosa ci è
successo nell’incontro cristiano, quando abbiamo incrociato uno per la strada: abbiamo percepito una risposta assolutamente sconfinata a questa mancanza. Come mai, poi, lo si confonde con altri amori? Lo si può confondere con altri amori soltanto per una cosa: perché si è dimenticato di che è mancanza questa mancanza. Se noi riduciamo la nostra mancanza, se noi non prendiamo consapevolezza fino in fondo di essa, allora ci sembra che qualsiasi cosa ci corrisponda. E questo, amici, è un pericolo sempre in agguato. Mi scrive una persona: «Mi sembra che ci sia una
contraddizione tra quanto si dice (cioè che la Chiesa è il luogo dove sperimentiamo in tutta la sua potenza l’abbraccio di Cristo ora) e il mio bisogno eternamente insoddisfatto. Tutto è poco, piccino alla capacità dell’animo, direbbe Leopardi. Perché questo maledetto bisogno di un abbraccio carnale e fisico? Sono fatta male io? O è veramente segno della mia grandezza? Perché allora mi procura tanta sofferenza? Non sai che gioia leggere quanto dici agli Esercizi del Clu: “Come mi piacerebbe abbracciarvi a uno a uno per potervi comunicare questa commozione con cui il Mistero ci guarda”.
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Forse questo abbraccio lo ricevo [dice: “forse”], ma non nella modalità che ho in testa io [cioè: subito dopo uno fa cadere questa mancanza e la riduce alla modalità che ha in testa]. Vorrei che tutti, non solo qualcuno, volessero stare con me perché così – penso – mi sentirei confermata del fatto che vado bene così, ho come bisogno di vederlo scritto a caratteri cubitali: “Tu vai bene così”,
ma quante volte ce l’ha detto don Giussani, perché ho bisogno di conferme? È solo segno della mia malattia o deve cambiare il punto di vista? Vorrei che un giorno mi accadesse come a Zaccheo, e che qualcuno che mi guarda così mi dicesse: “Oggi voglio venire a casa tua”. Ti prego di aiutarmi a capire e a correggermi». Ma quanto è successo a Zaccheo non è accaduto anche a noi? Non è quello di cui parlava il primo intervento? Quante volte ci è successo? E come noi sappiamo che questo c’è,
se non perché ci è successo? Non hai bisogno di ulteriori conferme, c’è; abbiamo bisogno che ci apriamo a quel che abbiamo vissuto, che abbiamo visto, che abbiamo riconosciuto. Perché io posso trovare una persona e dire: «Questa, questa è»; ma ciò non mi risparmia il dramma, il dramma di doverla riconoscere domani e dopodomani; e io non voglio che me lo risparmi. Questo vuol dire che sempre – una volta che L’ho perché non ci sia: c’è, perché altrimenti non avrei avuto questa esperienza. Quello che ho incontrato è, è. Perché è il fattore che corrisponde alle esigenze del cuore. Ma io non posso mettermelo in tasca: devo riconoscerLo ogni giorno. Scusate, i discepoli non dovevano riconoscerLo in continuazione? Era loro risparmiata questa esperienza? Vi è risparmiata con la persona a cui volete bene e che è lì presente tutta intera? Allora è come se costantemente fosse chiamato in causa tutto il mio bisogno; e se io lo riduco, non posso capire che cosa è Cristo e non mi stupisco di che cosa è: «La carità di Dio per l’uomo è una commozione, è un dono di sé», ma Giussani non può evitare subito dopo di dire: «Ma che mai è l’uomo perché Tu te ne ricordi?»; per capire fino in fondo questa frase, questa tenerezza del Mistero, occorre avere il contraccolpo subito: «Ma che è mai l’uomo perché te ne ricordi?». Non c’è contraddizione, ma è un dialogo – come dice a pagina 323 –: «È nell’esperienza, perché lo si sente e, seguìto, produce effetto, cambia le cose, ma soprattutto dialoga imperiosamente col cuore e risponde all’una, all’altra, all’altra esigenza: le esigenze costitutive del nostro animo». Tutt’altro che quell’automatismo a cui noi vorremmo ridurre la vita! Invece: un appassionante dialogo tra il mio bisogno costante e una presenza costante; se non fosse
così, sarebbe la noia infinita, non mi interesserebbe
.


Fino a qualche tempo fa io ho sempre pensato: «Come fa Carrón a essere così? Come vorrei essere come lui!»; adesso è diverso, io voglio fare la tua medesima esperienza e sono al lavoro su questo, per cui la gratitudine non è un sentimento buono, ma è una cosa fisica che mi ha preso e non mi dà tregua. Ti faccio due esempi. Uno: ho iniziato ad andare in metropolitana, piuttosto che nei luoghi
dove vado, con il libretto degli Esercizi del Clu (tanto che alcuni colleghi mi hanno chiesto se era il nuovo quadernetto degli appunti, perché poi la gente le cose le vede); e una mattina due ragazzi vicino a me dicono: «Che brutta giornata, se lo sapevo mi voltavo dall’altra parte e continuavo a dormire». Io stavo leggendo il punto dove dici che per giudicare la realtà partiamo sempre da altre circostanze, non dall’avvenimento che è accaduto a noi (per cui i criteri li peschiamo da altro). E questi dicono: «Che brutta giornata»…

Lo diremmo anche noi, se non ci fosse...
Infatti io ero travolta dal volergli dire quello che avevi detto tu alla Scuola di comunità, e al momento, in modo sgraziato, l’unica cosa che sono riuscita a rispondere è stato: «Certo che se pensiamo alle persone di Haiti non possiamo proprio dire così»; ma non era per rimproverarli, era per dire che la realtà è più grande. Erano solo due fermate di metropolitana, per cui non riuscivo a dire tante cose, non ero contenta di questa prima risposta perché poteva essere moralistica, e
allora li ho guardati, sorridendo, e ho detto: «Comunque buona giornata, che sia una buona giornata». Ho pensato: «Vedrai che mi mandano a quel paese, mi diranno: “Se magari ti fai i fatti tuoi...”». Invece mi hanno guardata e mi hanno detto: «Buona giornata anche a voi»; ho detto: «Questi mi danno del voi, adesso non è che sembro così anziana», però secondo me loro vedevano che stavo leggendo, è come se avessero percepito un’esperienza di comunione, non so se mi spiego.
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Secondo esempio: qualche giorno fa si rientra dal weekend, inciampo nel computer di mio marito, spacco il computer; lui fa il giornalista, quindi un disastro, litigata mostruosa, parole davvero pesanti. Penso: «Qua, oltre che il computer, s’è rotto anche il rapporto con mio marito». Alla Scuola di comunità era intervenuto un ragazzo raccontando del litigio con la moglie; stessa dinamica: ci svegliamo, non ci salutiamo; io tutto il giorno successivo ero in ufficio e pensavo:
«Ma quel signore dove ha preso l’energia per mandare il famoso sms?». Perché lui aveva detto: «Perché ho visto gli amici», ma non era sufficiente per me, perché io ero in ufficio, di fronte al computer e gli amici non c’erano e io volevo quella stessa energia affettiva che non negava l’umano – secondo me erano state parole pesanti e le parole hanno un peso –, però negava che questa circostanza del litigio con mio marito fosse una tomba. Rispetto a qualche mese fa sarebbe stata così; invece io, pensando all’intervento di quel ragazzo e a come hai risposto tu, ho deciso: «Voglio che anche a me venga questa energia di riprendere in mano questo rapporto, di essere perdonata io e che sia perdonato lui». L’unica cosa che sono riuscita a fare è mendicare da Cristo, tutto il giorno di fronte al computer, che Lui venisse. La sera sono tornata a casa e con letizia ho salutato mio marito: e questo per me è impensabile, ancora di più che attaccare discorso con quelli
della metropolitana. E – questo te lo dico timidamente perché è proprio un albore – inizio a intuire come nel rapporto con mio marito la cosa interessante sia la diversità del volto di Cristo che sta venendo fuori, quando io per anni ho pensato che il bello fosse la soddisfazione reciproca, la sintonia reciproca, lo stare bene insieme, il compito, l’avere la figlia; e invece comincio a scoprire un’alterità dentro quell’uomo lì che è il vero volto di Cristo. E questo non l’avrei scoperto senza questa mendicanza e questo passaggio. Per concludere, rispetto a due anni fa io ti posso dire che il secondo figlio tanto agognato non è arrivato, ma io sono contenta; le circostanze a cui attribuivo la felicità non sono capitate e io mi ritrovo commossa, senza confini.

Questa è la questione: che il Mistero, se noi Gli lasciamo un minimo spazio, compie alla grande il nostro desiderio, molto di più delle nostre aspettative (anche se non coincide con la forma che abbiamo noi in testa). Prima di fare una mossa verso l’altro, uno si trova in sé qualcosa che rimane come sguardo, tanto è vero che lo porta con sé, come sentimento di sé, come modo di vivere il reale, come modo di stare in metropolitana, come modo di affrontare la giornata. Ancora non hai fatto niente, ma la vita è già investita, costituita di questa Presenza, di questo sguardo. Mi ha colpito rileggere, nella nota di pagina 321, il testo bellissimo del Miguel Mañara, perché descrive molto bene che cos’è questo: «Sì, Girolama, dite il vero; non sono come ero. Vedo meglio: e pure non ero cieco; ma era la luce, forse, che mancava; perché la luce esterna è cosa da poco; non è essa che ci illumina la vita. Voi avete acceso una lampada nel mio cuore; ed eccomi come il malato che
s’addormenta nelle tenebre con la brace della febbre sulla fronte e il gelo dell’abbandono nel cuore, che poi si risveglia di soprassalto in una bella camera in cui ogni cosa è immersa nella musica discreta della luce; ed ecco, l’amico che piangeva da lunghi anni, l’amico tornato dalle terre oltre l’oceano è lì che gli sorride con gli occhi più calmi, più saggi di un tempo, e c’è tutta la famiglia, i
vecchi dalla testa bianca e i bimbi vestiti di un chiarore di grano maturo, e c’è il vecchio grosso cane, con i suoi occhi rotondi colmi di una tenera risata, e le fauci spalancate e piene di rumori di gioia per far festa all’uomo salvato dal diluvio delle tenebre! Ecco che luogo di pace avete fatto del mio cuore, Girolama. E grazie, grazie infinite a voi, Girolama!». È una Presenza che illumina la vita, che incomincia a investire noi: la luce incomincia a diventare mia, a diventare nostra: «Voi avete acceso una lampada nel mio cuore». La presenza di Girolama ha acceso una lampada nel cuore di Miguel Mañara; una presenza che non rimane fuori di noi, ma che comincia a riempire il cuore e a destare ogni passo della vita – poi uno riuscirà a fare qualche tentativo ironico, ma questo è secondario; se non è oggi, sarà domani o dopodomani –: io incomincio già ad avere un’esperienza reale di questa carità sterminata del Mistero e incomincio a essere grato. Perché si può spaccare il
computer, ma questo, che prima sarebbe stato un disastro, non è la tomba. Ancora non abbiamo fatto niente come carità verso gli altri, arriverà. La prima cosa è partecipare di questo sguardo,altrimenti non possiamo dare risposta alla mancanza, di cui parla Luzi, e senza darvi risposta il
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nostro punto di partenza non è un pieno, e allora siamo dipendenti da come va la giornata, dal computer, da tutto il resto.


Volevo farti una domanda. Racconto due fatti come premessa. È venuta una mia alunna a parlarmi del fatto che i suoi genitori hanno litigato, suo papà è andato a dormire sul divano e l’indomani mattina, mentre la accompagnava a scuola, è scoppiato a piangere perché lui non si sente voluto bene. Io all’inizio le ho detto: «Ma in questo che ti dice esprime un bisogno, esprime una richiesta, abbraccialo più spesso, fagli un regalo», però dopo un po’ era evidente per me e per lei che il
desiderio di essere voluto bene è talmente infinito che non è questo tipo di strategia che risolve la cosa. Secondo fatto. Vado al corso prematrimoniale in parrocchia, anche contenta di fare questa cosa; il prete comincia a dare una serie di consigli: «Ogni quindici giorni uscite insieme, ogni tanto tenetevi per mano; mi raccomando, se vuoi conquistare tua moglie, ogni giorno la devi stupire»… così tutto il tempo! Mi sono veramente stupita di come il grande assente fosse Gesù, e
d’altra parte questa serie di ricette non mi avevano proprio convinto e sarebbero un’illusione. Allora la domanda è questa: come mai don Giussani, vista la sproporzione che c’è tra il mio desiderio di essere voluta bene e di amare (soprattutto in questo momento) e il nostro essere incapaci, insiste nel dirci che dobbiamo imitare la carità di Cristo?


Ti ringrazio, perché o quello che dice Giussani sono parole al vento che non hanno veramente consistenza (e già in anticipo sappiamo la risposta: è inutile, è impossibile, data questa sproporzione, data questa nostra incapacità), o può essere un’esperienza reale. E può esserlo solo se noi seguiamo quello che dice don Giussani: perché per poter arrivare a questo che tu domandi, occorre fare la prima parte, e questo metodologicamente è fondamentale. Perché se no tu ti sei già spostata, come se tutta la prima parte della carità non ci fosse stata, e questa è la cosa normale che facciamo sempre: pensando alla carità, la prima cosa che ci viene in testa è la carità che io devo fare agli altri, e siccome sono sproporzionato e incapace, allora non ce la faccio. In che cosa ci corregge
don Giussani? Don Giussani ci corregge come ci corregge tutta la Bibbia: l’iniziativa è stata del Mistero, quando Dio, vedendo il popolo di Israele in Egitto, ha visto la sofferenza del Suo popolo, si è commosso ed è venuto a darci una mano. Tutto è nato da questa pietà di Dio con il popolo d’Israele, fin dall’inizio. E la sottolineatura di tutto il Nuovo Testamento è il “prima”: non è che noi
siamo in grado di amare Dio – non lo siamo, dove sta la novità? –, è che Dio ci ha amato per primo!
La vera novità, quello che ha stupito tutti quanti, tanto che lo sottolineano in continuazione, da san Paolo a san Giovanni, è questo “prima”. Dice Giovanni: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). E più avanti dice: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). Ma questo di solito lo saltiamo, non essendo consapevoli di quello che tu hai detto; per
questo è inutile che noi dimentichiamo tutto il nostro dramma, tutta la nostra sproporzione, tutta la nostra incapacità per parlare della carità, come se si trattasse di cambiare la parola d’ordine; e ci dimentichiamo di tutto il cammino fatto, ci dimentichiamo di quello che noi siamo e parliamo della carità con la stessa mentalità di tutti, come un moralismo, una cosa che posso compiere senza
riceverla. Don Giussani ci corregge dal primo momento, perché tutto l’accento, tutta la sottolineatura è proprio in un’altra cosa. Il punto di partenza per capire che cos’è la carità non è che cosa penso io sulla carità, che mossa faccio io verso l’altro, che incapacità sento, no! «La carità […]
indica il contenuto più profondo, scopre l’intimità, scopre il cuore di quella Presenza che la fede riconosce». Per capire la carità, adesso, non dobbiamo dimenticare quanto ci ha detto. A noi interessa lavorare sulla carità non perché adesso dobbiamo capire che cos’è la carità: a noi interessa andare fino in fondo a quella Presenza che ci ha affascinato, perché se c’è qualcosa di nuovo nella nostra vita è l’incontro con una Presenza eccezionale della quale vogliamo scoprire il cuore più intimo. Per capire la carità, allora, non dobbiamo pensare prima di tutto a noi (o a qualcun altro così inconsistente come noi) e poi lamentarci che siamo così inconsistenti, bensì occorre partire da quella Presenza, perché è soltanto guardandoLa che noi ne scopriamo l’intimità. E questo è un cambiamento di metodo decisivo, perché altrimenti noi parliamo della carità secondo la mentalità di
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tutti, ridotta a moralismo, e poi ci lamentiamo che non ce la facciamo. Allora che cosa ci dice come metodo? «Adesso incominciamo a fare i passi necessari per capire qualche cosa, lentamente; poi voi li riprenderete a casa [o in metropolitana...], anche se queste cose, più che nella banalità di una pretesa analisi chiarificatrice [che non serve a niente], entrano in noi come per osmosi, come per pressione osmotica, entrano in noi se guardiamo il mistero di Cristo, come Giovanni e Andrea che lo guardavano parlare e non interloquivano». Possiamo capire che cos’è la carità guardando quella Presenza, dando il tempo a quella Presenza, convivendo con quella Presenza, affinché entri in noi una conoscenza sperimentabile, toccabile, palpabile di che cosa è l’intimità di quella Presenza che io ho riconosciuto, che mi ha colpito fino al midollo: perché io devo capire perché mi ha colpito così! Soltanto se io do alla Presenza lo spazio e il tempo perché venga fuori il modo con il quale si manifesta (come parla, come guarda, come agisce, come giudica, come si rapporta al reale), allora potrò capire che cos’è la carità. Se noi saltiamo questo passaggio, abbiamo interrotto il percorso, cioè il metodo attraverso cui Giussani − lui per primo, seguendo lealmente − ci introduce al Mistero
come carità. Non ci fa una lezione sulla carità, ma ci introduce attraverso una Presenza che ci consente di capire che cos’è la carità. Se noi questo lo saltiamo, ci troviamo poi davanti a delle questioni a cui non abbiamo possibilità di risposta, perché quello che tu dici è assolutamente vero, ma per poter cogliere tutta la portata della risposta tu devi accettare di essere introdotta alla carità
come ha fatto il Mistero. Giussani è il più leale, e per questo ci insegna il metodo, ci testimonia il metodo; non perché lui sia più bravo, ma perché è più leale, più semplice e sta più a come il reale accade: non impara qualcosa che è staccato dalla Presenza che lui ha riconosciuto; e in questo ci dà
una mano, perché quando noi ci stacchiamo non sappiamo rispondere alle domande. Invece guardando insieme la Scuola di comunità ci riconduce sulla strada e così, pian piano, potremo vedere come viene fuori la risposta nel percorso che ci fa fare.


L’altra volta hai parlato della differenza tra eros (amore mancante) e agape (amore
sovrabbondante), e dicevi che quest’ultimo nasce dalla sovrabbondanza che la Trinità vive in sé e vuole condividere con l’essere umano. Quello che sto iniziando a comprendere, anche grazie al paragone serrato con la Scuola di comunità che ci stai facendo fare, è che questa sovrabbondanza non è l’essere sazi di cose, soldi, successo, eccetera.

Perché no? Vedi, senza renderti conto, già ti sei staccata, perché don Giussani non sta parlando della sovrabbondanza di te, sta parlando della sovrabbondanza della carità del Mistero! Scusami, ti interrompo per aiutarci tutti, perché noi senza renderci conto ci spostiamo, è quasi automatico, ma senza renderci conto; capisci? Non è la sovrabbondanza in te di altre cose, no, è la sovrabbondanza
del Mistero; la parola agape è il tentativo di esprimere (con una parola diversa dalla mancanza insita nell’eros) non la nostra, ma la sovrabbondanza del Mistero.


Allora intuisco il motivo per cui il don Gius parla della distrazione come un tradimento, a pagina 329, quando dice: «Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese, negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai. Non lo abbiamo pensato come Giovanni e Andrea lo pensavano mentre lo guardavano parlare». Intuisco che, paradossalmente, si è più capaci di gratuità quando si ha la coscienza del proprio niente, dell’essere mancanti, perché lì c’è di più la possibilità che un Altro irrompa nella nostra vita. Adesso ti pongo la questione che secondo me è una confusione che io ho nella testa. In questo periodo mi è stato dato di fare esperienza di quella che tu definisci contemporaneità di Cristo e di cui hai parlato anche prima, ma mi sembra che non è scontato né automatico che se uno fa esperienza della contemporaneità di Cristo scatti l’esperienza della sovrabbondanza, tant’è che in alcuni rapporti, addirittura quelli più significativi, mi capita di sperimentare addirittura di più la percezione di questa mancanza che dicevamo prima.
Ma non è l’esperienza della sovrabbondanza che dovrebbe farmi dire: «Senza che Cristo sia una presenza ora, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora»? Questo significa forse che in questi fatti o persone non è realmente accaduta o non ho realmente fatto esperienza della contemporaneità di Cristo?
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Devo dirti io quando fai esperienza della contemporaneità di Cristo? O tu puoi riconoscere quando la fai?

Come dicevi prima, uno riconosce che fa questa esperienza per il fatto di guardare se stesso con questo amore, cosa che non accade automaticamente...

Per questo tu adesso dimenticati quando non lo fai. Parti, invece, da quando tu questa esperienza la fai, perché questo è il metodo. Anche i discepoli potevano dire, come te: «Non la facciamo in tante occasioni». Ma la questione è che quando si trovavano con Lui e Lo sentivano parlare, Lo vedevano guardare in un certo modo e si sentivano guardati così, loro facevano questa esperienza. Poi, un istante dopo, discutevano tra di loro (il Vangelo mette in evidenza senza vergogna come essi
decadevano un istante dopo) e volevano sapere chi era il primo, eccetera; possiamo fare un elenco senza fine, ma in questa situazione in cui loro vivevano tutta la loro fragilità, tutta la loro inconsistenza, tutta la loro incapacità, irrompeva costantemente, si faceva contemporaneo di nuovo lo sguardo di Cristo, che prevaleva pian piano. Non è che in tutte le occasioni della loro vita succedeva questo, ma quando capitava potevano riconoscerLo per questo. Quando tu puoi riconoscere adesso che Cristo è contemporaneo? Non quando lo decidi tu o quando hai in mente di
fare questo o di fare l’altro, no: quando tu sei di nuovo stupita perché ti trovi con uno che ti perdona o con uno che ti guarda in un modo come non ti sei sentita guardata mai o ti trovi con una gioia, con una pienezza, con una sovrabbondanza che non ti puoi dare da te stessa. Allora tu, in quel momento, devi andare a fondo di questa esperienza: «La fede è obbligata a farcelo riconoscere; perché siamo
obbligati a riconoscerlo [contemporaneo]? Obbligati vuol dire che non saremmo ragionevoli se non lo riconoscessimo. Perché? Perché la ragione è la coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Siamo davanti al fattore che corrisponde alle esigenze del nostro cuore – anzi, che le tira su, come per un uomo che si alza sulla punta dei piedi per vedere una cosa che vorrebbe vedere e non vede ancora, tira il collo e non vede ancora, ma la cosa c’è, perché se ne ode la voce – ed è inspiegabile, cioè non è deducibile da quello che l’uomo sperimenta [ma c’è, tu puoi riconoscere in quell’esperienza che c’è]. È nell’esperienza, perché lo si sente e, seguìto, produce effetto, cambia le cose [è la differenza tra qualsiasi tipo di intimismo, qualsiasi tipo di spiritualismo che non cambia niente e la documentazione che “è se opera”], ma soprattutto dialoga imperiosamente col cuore e risponde all’una, all’altra, all’altra esigenza: le esigenze costitutive del nostro animo. Non si può capire né come né quando, ma è lì la sua fisionomia eccezionale, la sua Presenza eccezionale; se non lo riconoscessi presente perché non lo capisco, perché non capisco come fa ad essere presente, andrei contro la ragione. Perché la ragione dice: “È” oppure “Non è” [è un giudizio]. Dire “È”, e aggiungere “Non so spiegarlo”, lascia la ragione perfettamente e onorevolmente coerente con se stessa». Riconosco che c’è, ma che non lo posso afferrare. Ma tu, come puoi sapere che la presenza
di Cristo è, anche se non la puoi spiegare?

Perché ne faccio esperienza.

Perché ne fai esperienza, per l’effetto che provoca in te. E questo non devo dirtelo io, lo sai tu benissimo quando sei guardata in un certo modo, quando si introduce una Presenza in te che ti fa respirare, quando qualcosa corrisponde alle esigenze (come sai quando una persona ti tratta ingiustamente e questo non ti corrisponde e vengono fuori tutte le tue esigenze e tu ti arrabbi con l’altro). Non è che non giudichi, tu giudichi in un caso o in un altro, quando corrisponde e quando
non corrisponde, stiamo costantemente giudicando e perciò è da qui che parte la ragione, da cui nasce poi – dice don Giussani – l’irresistibile desiderio di andare fino in fondo alla Presenza che si riconosce. Ma la contemporaneità di Cristo non è diversa da questa sovrabbondanza, questo sguardo nuovo, questa tenerezza che ti trovi addosso, questo perdono. Perché è Cristo? Perché corrisponde, perché tu questo non lo puoi spiegare, se non introduci il tratto inconfondibile della Sua presenza
così come il Vangelo ce lo documenta; ti trovi oggi, nel presente, lo stesso sguardo, la stessa pienezza, la stessa sovrabbondanza che i Vangeli documentano. Questa è la contemporaneità, non che io sono bravo. Dopodiché con questa familiarità Presenza, la Sua carità incomincia a entrare dentro di noi, a riempirci; e tu, piano piano, ti rapporti al reale con una novità che non ti sognavi prima, come dicevamo rispetto alla povertà: tu sei lieta, tu
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sei libera, non ti manca niente. Ma questo è l’effetto; e noi non dobbiamo preoccuparci anzitutto dell’effetto, perché se noi seguiamo, avverrà. Noi pensiamo di sapere già il cammino che noi possiamo fare con il nostro tentativo, invece di seguire. Per questo dice, sempre alla pagina 323:
«Ma capisce che non può neanche indicare come questo possa avvenire, deve semplicemente seguire». È tutto qua, se noi abbiamo questa lealtà con tutte le nostre domande, ci prende per la mano e ci porta, basta avere la semplicità di seguire. Basta. Allora proviamo a seguire con semplicità, proviamo a sperimentare questa osmosi che entra in noi guardando il Mistero di Cristo, come Giovanni e Andrea; il testo è pieno di questi passaggi del Vangelo attraverso cui don Giussani
ci mette davanti quella Presenza, perché il Suo cuore possa diventare sempre più nostro. Perciò la prossima volta stiamo sulle stesse pagine, affiancandole con la lettura della Pagina Uno del Tracce di febbraio: occorre una familiarità, una convivenza con il testo per essere aiutati, guidati quasi per mano, affinché diventi nostro. Il cambio nel metodo ci porta alla confusione.
L’iscrizione alla Scuola di comunità è un segno di partecipazione al movimento. È un piccolo gesto educativo attraverso il quale vogliamo esprimere la volontà di prendere sul serio questo lavoro.
Abbiamo giudicato che non possiamo fare in modo automatico i nostri gesti, ma occorre prendere consapevolezza della motivazione per cui facciamo le cose. Questo non vuole essere un richiamo organizzativo, ma educativo; infatti, da cosa si vede che qualcosa cambia nella vita? Dal fatto che incominciamo a partecipare a un gesto che non finisce col raduno, ma comincia a diventare nostro e arriva fino a farci riprendere in mano il testo (per esempio in metropolitana, come è accaduto).
L’iscrizione alla Scuola di comunità è segno che qualcosa di quello che facciamo lascia traccia. Non ci interessa l’iscrizione meccanicamente intesa, ma che il gesto lasci traccia in ciascuno di noi. Per questo abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni fino a metà marzo, dando l’opportunità di iscriversi a
quanti non l’avessero ancora fatto. Questo mese ricorre il quinto anniversario della morte di don Giussani e il ventottesimo del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Le messe che in tutto il
mondo vengono celebrate in questa occasione sono anzitutto un grande ringraziamento a Dio per la vita di don Giussani, e poi perché questa realtà che da lui è nata c’è ancora, è viva e ci impegna a immedesimarci sempre di più con il suo carisma: più il tempo passa più ci rendiamo conto che è la risposta più adeguata alle circostanze che stiamo vivendo. Constatiamo con gratitudine, dopo cinque anni dalla morte di Giussani, che − come abbiamo detto il giorno del funerale −, seguendolo, lui
diventa sempre più padre, ci genera sempre più. Questo lo vedo andando in giro per il mondo, quando visito le nostre comunità: è impressionante come lui continui a essere presente e continui ad accompagnarci con tutto quanto ci ha lasciato e con tutto quanto opera in noi e per noi nel presente.
• Gloria

giovedì 11 febbraio 2010

Le fedi risorsa d’Europa Se il potere politico riconoscesse la valenza delle religioni, le istituzioni pubbliche sarebbero migliori.

La riflessione di ANGELO SCOLA
I l fatto che le religioni siano chiamate a giocare un ruolo nel futuro dell’Europa è la conclu­sione che ognuno può trarre dalla semplice osservazione delle circo­stanze attuali. La presenza di di­verse realtà religiose, penso in pri­mo luogo all’islam, ha contribuito in maniera sostanziale a dimo­strare quanto fossero infondate le previsioni formulate solo qualche decennio fa sull’avvento di « un mondo mondano » . Certo, il mol­tiplicarsi di soggetti e visioni reli­giose a volte radicalmente diverse fra loro e l’affacciarsi sulla scena di nuovi attori hanno suscitato la diffidenza di molti.
Ma non possiamo dimenticare il fatto che nella storia europea le vi­cende religiose, le vicende culturali e socio- politiche si siano mostra­te, al di là delle necessarie distin­zioni, così intrecciate da essere di fatto inscindibili. In Europa oggi prevale un atteggiamento teso ad affermare che il confronto pubbli­co debba necessariamente pre­scindere dalla radice religiosa del­le convin­zioni per­sonali. Ma questo si­gnifica alla fine obbli­gare i cre­denti a comportar­si come se fossero atei e di conse­guenza pri­vare la so­cietà di im­portanti ri­sorse.
Ciò nono­stante alcu­ni pensato­ri di rilievo, quali Ha­bermas, Böckenför­de, Rawls, David Nowak, hanno co­minciato a riconoscere nelle tradi­zioni reli­giose, a partire dal cristianesi­mo, l’espressione di un potenzia­le cognitivo e il riferimento di un impegno civile di cui è impossibi­le non tenere conto. Perché, ed è difficile negarlo, le re­ligioni possiedono la capacità di proporre l’universale in modo concreto: contrariamente a quan­to ha finito per postulare la cultu­ra europea nel corso della moder­nità, i valori non si danno mai in a­stratto ( la stessa Carta dei diritti fondamentali rischia di essere un semplice elenco di proposizioni formali), ma soltanto all’interno di tradizioni vissute. Per cui per e­sempio alcuni assiomi che stanno alla base delle nostra società, pen­so all’idea di libertà o a quella di u­guaglianza, possono ricevere nuo­vo slancio dalla testimonianza di fedeli che li vivono già all’interno della loro stessa esperienza co­munitaria.
Se si prendesse atto di ciò, non so­lo il potere politico giungerebbe al riconoscimento della soggettività pubblica delle religioni, ma le stes­se istituzioni pubbliche promuo­verebbero attivamente un’effettiva libertà religiosa.
Nel corso di alcune mie visite in Paesi del Medio Oriente mi è capi­tato di incontrare realtà in cui cri­stiani e musulmani, sulla base di alcune visioni condivi­se, per esempio la co­stitutiva dignità di ogni uomo, mettono insie­me le loro forze in ope­re culturali e sociali dai risultati sorprendenti. Penso alla capillare a­zione nei confronti del grande numero di per­sone diversamente abi­li attuata dall’Associazione gior­dana
Our Lady of Peace, composta da musulmani e cristiani. Se tutto questo avviene in contesti in cui la libertà religiosa non è certo inco­raggiata, immagino quale poten­ziale potrebbe essere espresso in Europa se crescesse un clima sin­ceramente più favorevole al con­fronto reciproco. Ovviamente ciò è possibile a condizione che le re­ligioni abbandonino le auto- in­terpretazioni di tipo privatistico da una parte o fondamentalistico dal­l’altra per creare uno spazio di in­contro reciproco tra di esse e con tutte le altre culture. I n questa luce si comprende perché l’idea di una missione universale dell’Europa sia sem­pre stata cara al cardinal Lustiger, così come al cardinal Ratzinger o­ra papa Benedetto XVI. Ma, come entrambi hanno osservato, tale compito è stato complicato e in parte oscurato dalla vicenda colo­niale dell’Europa, che ha talora portato con sé conquista e sopraf­fazione. Come riproporre allora u­na visione universale in grado di rendere l’Europa significativo at­tore della globalizzazione e nel contempo di preservarla dalla ten­tazione di fagocitare con la sua cul­tura altre realtà? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferimento al singolare rapporto con i beni antropologici, sociali ed ecologici implicati nella rivelazio­ne cristiana ma che possiedono valore universale.
Romano Guardini nel suo breve saggio Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica del­la comunità mostra, ad esempio, una decisiva implicazione sociale del mistero trinitario. Proprio per­ché l’Europa ha ricevuto questi be­ni gratuitamente non può consi­derarsene padrona. Essi sono of­ferti dal disegno di un Padre che guida la storia di tutta la famiglia umana. Nessuna realtà, per quan­to raffinata e sviluppata, potrà mai pretendere di esaurire la totalità del reale.
A questo proposito è decisivo quanto Etienne Gilson scriveva nel 1952 proprio a proposito dell’Eu­ropa: « Sarà dotta, ma non sarà la Scienza. Saprà generare la bellez­za, ma non sarà l’Arte. Sarà giusta, ma non sarà il Diritto. E speriamo che sarà cristiana, ma che non sarà la Cristianità». Il suo compito resta quello di offrire al mondo ciò che essa ha ricevuto, di mostrargli, per usare un’espressione del cardinal Lustiger, « una nuova arte di vive­re » . V olendo fare ricorso a una categoria cristiana potrem­mo dire che la missione propria degli europei è, nel con­fronto constante con le altre cul­ture, testimoniare il perseguimen­to, personale e comunitario, di quella vita buona, fatta come di­ceva Aristotile di filìa , che non può non stare a fondamento dell’edifi­cazione della polis. Se mantenuto all’interno di queste caratteristiche, l’apporto europeo alla costituzione di un nuovo or­dine mondiale, da tempo auspica­to dal magistero sociale della Chie­sa, potrà essere rilevante: l’Euro­pa potrà coinvolgere tutti i conti­nenti nella pratica di una libera convivenza di cittadini, di corpi in­termedi e di nazioni che diano vi­ta ad una società civile capace di non sacrificare le differenze, ma di esaltarle senza che esse lacerino la sempre più urgente unità tra i po­poli del pianeta

mercoledì 10 febbraio 2010

Per il bene di tutti - Elezioni amministrative e regionali 28 e 29 marzo 2010

La crisi che stiamo vivendo ha fatto emergere che nel nostro Paese tante famiglie, associazioni,imprese e comunità locali sono capaci di grande solidarietà. Allo stesso tempo, però, si registra la diffusa affermazione di un individualismo fondato sulla convinzione che la propria felicità possa essere raggiunta a prescindere dagli altri.
Questo ci ricorda che ogni forma di solidarietà e di carità è sempre frutto di un’educazione capace di valorizzare quel desiderio di verità, giustizia e bellezza che costituisce la natura dell’uomo e di suscitare un impegno per il bene di tutti. Dove questa educazione viene meno, l’originale positività umana si riduce ad un utilitarismo che crea solitudine a livello esistenziale, mentre a livello sociale favorisce l’affermazione di uno Stato invasivo, orientato ad arginare gli effetti negativi dell’individualismo moltiplicando leggi e regolamenti.
Occorre allora una politica che sappia valorizzare tutte le realtà che permettono e favoriscono l’emergere del nesso profondo fra il bene della singola persona e il bene di tutti: scuole e università,ospedali e centri di assistenza, imprese profit e non profit, associazioni e movimenti, sono luoghi dove ognuno può crescere professionalmente e umanamente, nella scoperta che l’”io” per sua natura ha bisogno di un “noi”. Il bene comune può nascere solo da una pluralità di soggetti che si assumano liberamente la responsabilità di contribuire alla costruzione di una società in cui siano messe al centro le esigenze autentiche di ogni uomo.
A chi sostiene che qualunque intervento del privato nell’assistenza, nella sanità, nell’educazione e nel tempo libero sia inevitabilmente portatore di interessi particolari in contrasto con il bene comune, occorre mostrare i tantissimi esempi virtuosi di realtà in cui l’agire delle persone genera benefici per la collettività e occorre ricordare che ogni forma di centralismo e di assistenzialismo statale impoverisce la società, diminuisce il senso di responsabilità, erode la libertà.
Per queste ragioni l’introduzione del principio di sussidiarietà in tutto l’ordinamento politico e amministrativo,soprattutto a livello regionale, è una questione decisiva per il futuro di questo Paese. Se non si riconosce il valore pubblico delle iniziative personali e sociali si rischia di indebolire la responsabilità dei cittadini e di rendere sempre più inefficiente il servizio pubblico.
Le elezioni regionali e amministrative del 28 e 29 marzo 2010 sono un’occasione importante per votare a favore di chi si impegna per un sistema politico e amministrativo aperto ai cittadini e proteso a valorizzare il loro impegno.
E’ necessario realizzare un federalismo che favorisca la collaborazione tra istituzioni e cittadini e garantisca un servizio efficiente della pubblica amministrazione, senza replicare a livello regionale e comunale nuove forme di centralismo.
Urge un federalismo fiscale che consenta alle Regioni di rispondere con maggiore efficacia alle esigenze specifiche del loro territorio, dando a chi governa la responsabilità diretta di fronte alla comunità locale.
Nelle politiche di welfare, le Regioni hanno la grande opportunità di favorire la libertà di scelta da parte di ogni persona e la presenza di una pluralità di soggetti pubblici e privati che offrono servizi di pubblica utilità, vagliando la qualità del servizio reso come effettivo contributo al bene comune.
Anche le Regioni possono contribuire a liberare le imprese da ostacoli burocratici e rafforzare le attività a favore dell’innovazione e dell’internazionalizzazione.
Un impegno prioritario è quello di promuovere una rete di servizi alla formazione ed al lavoro, profit e non profit, pubblici e privati, come base per un impegno necessario contro la disoccupazione e la dispersione scolastica e per un nuovo sviluppo economico.
Proprio per sostenere un’educazione che comunica orientamenti e criteri fondamentali per interpretare l’esistenza e il delicato passaggio al mondo del lavoro, occorre introdurre l’autonomia scolastica, insieme a forme di sostegno alla libera scelta educativa, come condizione per valorizzare il rischio educativo dei genitori e degli insegnanti.
Di fronte alle differenze che esistono fra le Regioni occorre guardare a chi ha già cominciato a creare una pubblica amministrazione sussidiaria. Non si tratta di imitare un modello, ma di lasciarsi incoraggiare ad intraprendere, nella necessaria diversità, una strada che metta realmente al centro la persona libera e responsabile.

Compagnia delle Opere

martedì 9 febbraio 2010

Ma la fede non sia marginale

L’uomo non è solo un fatto di natura. La sua verità sta nella sua dignità inviolabile, oltre ogni riduzionismo scientifico. A proposito dell’enciclica «Caritas in veritate» di Benedetto XVI
L’enciclica Caritas in veritate costi­tuisce un grande appello anzitutto ai credenti in Cristo, ma anche a tutti coloro che condividono la centralità della persona umana e l’assoluta non ridu­cibilità del suo essere e del suo valore a tut­to il resto della natura. Un appello che ha al­la base, insieme alla centralità del soggetto umano e alla sua dignità inviolabile, il le­game inscindibile tra carità e verità, con la conseguenza che un cristianesimo di carità senza verità diventa fatalmente marginale nel divenire concreto della storia.
Il contenuto di questo appello è orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta a­prendo per il fatto che l’uomo sta diven­tando capace di modificare fisicamente se stesso: è questo infatti il cuore della nuova «questione antropologica».
Vi sono almeno due condizioni essenziali perché un tale appello possa essere accol­to e avere una reale efficacia storica. La pri­ma di esse ha a che fare con il processo di globalizzazione e con i mutamenti in corso nei grandi equilibri geo-economici e geo­politici, ma anche e inevitabilmente geo­culturali. Di fatto, oggi stanno riemergendo e assumendo un peso sempre maggiore al­cune grandi nazioni e civiltà che negli ulti­mi secoli erano state sovrastate dall’Occi­dente. Queste nazioni e civiltà non hanno quella matrice cristiana che, malgrado tut­te le infedeltà storiche, oggi, malgrado i pro­cessi di secolarizzazione, appartiene al D­na dell’Europa, delle due Americhe e di al­tre considerevoli parti del mondo. La cen­tralità della persona umana si è però affer­mata storicamente proprio in quelle cultu­re che hanno la loro matrice nel cristiane­simo. Sono dunque i popoli eredi di tali cul­ture quelli che per primi hanno la respon­sabilità e il compito di mantenere e far frut­tificare la centralità dell’uomo nella nuova fase storica che si apre davanti a noi, pur cercando, come è doveroso e necessario, di sollecitare anche le altre nazioni e civiltà ad un impegno convergente.
In particolare l’Italia ha a questo fine un ruo­lo peculiare tra le stesse nazioni europee, ruolo fortemente sottolineato da Giovanni Paolo II, ad esempio nella Lettera ai vesco­vi italiani del 6 gennaio 1994, dove scrive­va: «All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di di­fendere per tutta l’Europa il patrimonio re­ligioso e culturale innestato a Roma dagli a­postoli Pietro e Paolo». Con uguale vigore Benedetto XVI, nel discorso alla Chiesa ita­liana tenuto a Verona il 19 ottobre 2006, sot­tolineava che, attraverso un atteggiamento dinamico e non rinunciatario, «la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insi­dia del secolarismo e altrettanto universa­le è la necessità di una fede vissuta in rap­porto alle sfide del nostro tempo». Di que­sto compito e servizio noi italiani dobbia­mo essere assai più convinti e consapevo­li.
La seconda condizione per accogliere sul serio l’appello contenuto nella Caritas in veritate riguarda ognuno di noi, all’interno della situazione che ciascuno si trova a vi­vere.
Siamo infatti tutti corresponsabili per­ché la centralità del soggetto umano assu­ma un rilievo forte e concreto, capace di in­cidere sul crescente potere che l’umanità sta acquistando di modificare fisicamente se stessa, per orientare questo potere a fa­vore dell’uomo, considerato in ogni singo­la persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. In pratica, re­sponsabilità e impegno sono richiesti agli scienziati, ai medici e agli altri operatori sa­nitari ma ugualmente agli uomini della cul­tura e della comunicazione sociale, anzi, ad ogni persona che pensa e agisce, perché la cultura reale di un popolo è fatta dalle con­vinzioni e dalle scelte che tutti compiono ogni giorno. Grandi sono, inoltre, le re­sponsabilità dei politici, legislatori e am­ministratori, ma di nuovo, in un Paese de­mocratico, anche di ogni cittadino chiamato a compiere le proprie scelte politiche. E an­cora molto dipende da chi può guidare o condizionare gli enormi interessi econo­mici che spesso stanno dietro al lavoro de­gli scienziati e dei tecnici: anche qui le scel­te quotidiane delle persone e delle famiglie hanno però, in concreto, un pe­so non trascurabile. Finalmen­te, una specifica responsabilità riguarda noi sacerdoti e vesco­vi, i religiosi e le religiose, cia­scun credente che intende esse­re testimone e missionario del­la fede nel Dio amico dell’uomo. Pertanto, come ha scritto il filo­sofo francese Jean-Michel Be­snier in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 1° ottobre 2009, «è necessaria una massiccia presa di coscien­za da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di u­na disistima di sé e dell’umanità. Non si sop­portano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della na­scita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prere­quisito per salvare l’umanità».
La globalizzazione chiama le nazioni di matrice cristiana a preservare e a far fruttificare in pienezza la centralità dell’uomo, valore nato nelle culture d’Europa e d’America, contrassegnate dal Vangelo
DI CAMILLO RUINI

VALGONO GLI ESEMPI, NON LE PAROLE È SEMPLICE STARE DALLA PARTE GIUSTA

A mare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na­turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua. E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac­chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat­tive che vogliono rendere « morte » sinonimo di « li­bertà » , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio dell’animo vero della gente.
MARCO TARQUINIO Avvenire

venerdì 5 febbraio 2010

Marion:"Certi cristiani s’irrigidiscono in uno stato antiquato e superato della filosofia- Il diritto di far filosofia."

Il filosofo Jean- Luc Marion, 63 anni, cofondatore della rivista cristiana Communio,
ha fatto nei giorni scorsi il suo ingresso all’Académie française, sul seggio che fu del cardinale Lustiger.
Professor Marion, lei è cristiano e filosofo. Come articola questa doppia appartenenza?
« Sono un filosofo, esattamente come altri sono piloti di linea, ingegneri, o banchieri! È un mestiere come un altro, che attiene all’ordine della conoscenza, direbbe Pascal.
L’identità cristiana non è dello stesso ordine che la razionalità filosofica. Esistono filosofi che hanno opinioni religiose, per fortuna! Ma non vi è in sé una ' filosofia cattolica', o una ' filosofia cristiana'. È tipico delle ideologie, come il marxismo, il voler battezzare le scienze umane. La rivelazione cristiana non dipende da una filosofia, grazie a Dio! Ma è vero che mi sono interessato alla teologia, poiché la filosofia passa il proprio tempo ad accostarsi alla teologia.
Soprattutto quando ho scritto Dio senza l’essere. Non mi sono posto la questione dell’articolazione fra la mia fede cristiana e la filosofia, ma invece la questione del diritto che ha la filosofia di parlare di Dio, della rivelazione cristiana, e il problema dei limiti » .
La rivista cattolica internazionale « Communio » , che lei ha cofondato, è stata a lungo considerata come rappresentante di una corrente minoritaria nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Una posizione che si è oggi invertita?
« Nella storia della Chiesa, un Concilio provoca una crisi ancor più di rispondere a una crisi. Fu il caso per il Vaticano II, che ha provocato una crisi. A mio parere, ciò deriva dal fatto che, dopo il Concilio, alcuni sono rimasti sulla rottura fra progressisti e conservatori che proprio il Vaticano II ha inteso superare e risolvere. La scelta che è stata proposta ai cattolici fra i due atteggiamenti, progressista o conservatore, era falsa. Altri, come Hans Urs von Balthasar, Karol Wojtyla o Jean­Marie Lustiger, hanno al contrario riletto il Concilio in una prospettiva diversa, alla luce dei Padri della Chiesa, in un movimento di riscoperta patristica. La rivista Communio ha sostenuto questo movimento » .
Non teme nondimeno oggi un ripiegamento identitario da parte dei cattolici in Francia?
« No, non credo. I cattolici francesi stanno comprendendo quale deve essere il loro ruolo, il che non è automatico. Sono una minoranza, ma la minoranza più importante, chiamata a prendere la parola nel dibattito.
Certi cristiani s’irrigidiscono in uno stato antiquato e superato della filosofia, che risale all’epoca scolastica, in cui la razionalità era definita in modo restrittivo, in cui il confronto fra fede e ragione non esisteva. Ma essi non hanno compreso per nulla le poste in gioco attuali » .
In proposito, perché insiste in tal modo sul legame indissolubile fra fede e ragione?
« Credo che siamo giunti in una fase chiave di questa riflessione. Coloro che oppongono fede e ragione hanno una visione della fede che non le accorda una logica. Ma vi è una logica di Dio nella rivelazione cristiana, poiché Dio è il logos, la ragione. E gli stessi che negano questa parte di sovrapposizione della ragione da parte della fede riconoscono oggi che ci troviamo di fronte a una crisi della razionalità: chi può, dopo il XX secolo, dire cosa s’intende per ragione? La frontiera fra il razionale e il non razionale non ha più nulla di evidente. La scienza non è più la verità assoluta come si è voluto credere, il progresso scientifico prende ormai anche l’aspetto di una minaccia, come appare evidente con la crisi ecologica.
In questa ' inquietudine razionale', come la chiamo, i cristiani hanno tutto il loro posto, e il loro contributo può essere fondamentale. A condizione che essi non innestino nel dibattito delle convinzioni frenetiche, ma delle posizioni ragionevoli.
' Mantenere la ragione' è qualcosa per cui i cristiani sono forse qualificati, poiché il loro Dio non è un Dio dell’onnipotenza irrazionale, ma il Dio del logos » .
All’ « Académie française » lei succede al cardinale Jean­Marie Lustiger, che ha conosciuto molto bene…
« L’ho conosciuto nel 1968. Da allora, questo legame non si è mai smentito: ho lavorato con lui per 25 anni, mi ha sposato, mi ha sostenuto nei momenti difficili. Si trattava al contempo di un legame filiale ( avevamo una ventina d’anni di distanza) e di un’amicizia molto stretta, dal 1968 alla sua morte. Ho l’impressione che non si è ancora valutata la statura dell’uomo. La gente comincerà a prendere coscienza del suo spessore. Si comprenderà che l’uomo, con tutte le sue dimensioni, spirituale, politica, intellettuale, personale, aveva una statura paragonabile a quella di un Padre della Chiesa » .
( per gentile concessione del quotidiano « La Croix » ; traduzione di Daniele Zappalà)
L’intellettuale cattolico prende tra gli Immortali il posto del cardinal Lustiger: «Era un amico e aveva la statura di un Padre della Chiesa»
Intervizta di ISABELLE DE GAULMYN