lunedì 15 febbraio 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 10 febbraio 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 321-337.
• Canto “I Wonder”
• Canto “Ballata dell’amore vero”
«Mi stupisco che Gesù sia venuto a morire per la povera gente affamata come me e come te».Questo canto con cui abbiamo iniziato nasce da questo stupore di uno che si qualcuno ha avuto pietà del suo niente. È questo quello che dobbiamo domandare ogni giorno mentre facciamo la Scuola di comunità: partecipare allo stupore di questo canto. Se noi non partecipiamo a questo stupore, non abbiamo capito quanto dice la Scuola di comunità.

Io leggendo il capitolo sulla carità mi sono accorta che questo amore a me è successo ed è una cosa che c’è tuttora. La cosa che però mi chiedo è: come mai nella sembrano più reali? Quando la volta scorsa tu hai introdotto la carità, hai detto che per parlare della carità dobbiamo essere consapevoli del nostro bisogno; allora, la prima cosa che mi viene in mente è che sembra più reale un altro amore perché non sai più chi sei, di che cosa hai bisogno veramente. Però l’altra cosa che pensavo è anche, forse, che non capiamo esattamente cosa ci succede quando ci succede, che tra l’altro è una cosa che dice a pagina 323: «Altra cosa è che, dal
momento dell’incontro, la cosa che la ragione più desidera di riuscire a capire è quella cosa lì».

Ti ringrazio, perché questo ci aiuta a entrare in questo capitolo. Quando ho fatto la presentazione di questa terza parte di Si può vivere così? In Irlanda e America – il testo lo trovate sul Tracce di febbraio –, sono partito da una frase che dice il Papa in Deus caritas est: «L’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». A me ha stupito che per parlare della carità il Papa abbia tirato fuori le due questioni cui si deve dar risposta: chi è Dio e chi siamo noi (era già venuto fuori la volta scorsa con chiarezza, perché quando il nostro amico aveva cercato di aiutare suo padre aveva avuto subito il contraccolpo del bisogno che aveva, non ce la faceva; allora è soltanto se noi ci rendiamo conto del bisogno che possiamo capire
veramente che cosa è questa carità). Per esprimere in altro modo questo bisogno mi è capitata tra le mani una poesia di Mario Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza... / Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce
forza e canto / la musica perpetua ritornerà. / Sii calmo». Se noi cerchiamo di immedesimarci con queste espressioni di Luzi – e possiamo farlo perché tutti abbiamo intuito in certi momenti della vita che razza di mancanza ci costituisce –, se questa coscienza è costantemente presente a noi, allora possiamo veramente capire che cos’è la carità del Mistero con noi; e possiamo capire che cosa ci è
successo nell’incontro cristiano, quando abbiamo incrociato uno per la strada: abbiamo percepito una risposta assolutamente sconfinata a questa mancanza. Come mai, poi, lo si confonde con altri amori? Lo si può confondere con altri amori soltanto per una cosa: perché si è dimenticato di che è mancanza questa mancanza. Se noi riduciamo la nostra mancanza, se noi non prendiamo consapevolezza fino in fondo di essa, allora ci sembra che qualsiasi cosa ci corrisponda. E questo, amici, è un pericolo sempre in agguato. Mi scrive una persona: «Mi sembra che ci sia una
contraddizione tra quanto si dice (cioè che la Chiesa è il luogo dove sperimentiamo in tutta la sua potenza l’abbraccio di Cristo ora) e il mio bisogno eternamente insoddisfatto. Tutto è poco, piccino alla capacità dell’animo, direbbe Leopardi. Perché questo maledetto bisogno di un abbraccio carnale e fisico? Sono fatta male io? O è veramente segno della mia grandezza? Perché allora mi procura tanta sofferenza? Non sai che gioia leggere quanto dici agli Esercizi del Clu: “Come mi piacerebbe abbracciarvi a uno a uno per potervi comunicare questa commozione con cui il Mistero ci guarda”.
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Forse questo abbraccio lo ricevo [dice: “forse”], ma non nella modalità che ho in testa io [cioè: subito dopo uno fa cadere questa mancanza e la riduce alla modalità che ha in testa]. Vorrei che tutti, non solo qualcuno, volessero stare con me perché così – penso – mi sentirei confermata del fatto che vado bene così, ho come bisogno di vederlo scritto a caratteri cubitali: “Tu vai bene così”,
ma quante volte ce l’ha detto don Giussani, perché ho bisogno di conferme? È solo segno della mia malattia o deve cambiare il punto di vista? Vorrei che un giorno mi accadesse come a Zaccheo, e che qualcuno che mi guarda così mi dicesse: “Oggi voglio venire a casa tua”. Ti prego di aiutarmi a capire e a correggermi». Ma quanto è successo a Zaccheo non è accaduto anche a noi? Non è quello di cui parlava il primo intervento? Quante volte ci è successo? E come noi sappiamo che questo c’è,
se non perché ci è successo? Non hai bisogno di ulteriori conferme, c’è; abbiamo bisogno che ci apriamo a quel che abbiamo vissuto, che abbiamo visto, che abbiamo riconosciuto. Perché io posso trovare una persona e dire: «Questa, questa è»; ma ciò non mi risparmia il dramma, il dramma di doverla riconoscere domani e dopodomani; e io non voglio che me lo risparmi. Questo vuol dire che sempre – una volta che L’ho perché non ci sia: c’è, perché altrimenti non avrei avuto questa esperienza. Quello che ho incontrato è, è. Perché è il fattore che corrisponde alle esigenze del cuore. Ma io non posso mettermelo in tasca: devo riconoscerLo ogni giorno. Scusate, i discepoli non dovevano riconoscerLo in continuazione? Era loro risparmiata questa esperienza? Vi è risparmiata con la persona a cui volete bene e che è lì presente tutta intera? Allora è come se costantemente fosse chiamato in causa tutto il mio bisogno; e se io lo riduco, non posso capire che cosa è Cristo e non mi stupisco di che cosa è: «La carità di Dio per l’uomo è una commozione, è un dono di sé», ma Giussani non può evitare subito dopo di dire: «Ma che mai è l’uomo perché Tu te ne ricordi?»; per capire fino in fondo questa frase, questa tenerezza del Mistero, occorre avere il contraccolpo subito: «Ma che è mai l’uomo perché te ne ricordi?». Non c’è contraddizione, ma è un dialogo – come dice a pagina 323 –: «È nell’esperienza, perché lo si sente e, seguìto, produce effetto, cambia le cose, ma soprattutto dialoga imperiosamente col cuore e risponde all’una, all’altra, all’altra esigenza: le esigenze costitutive del nostro animo». Tutt’altro che quell’automatismo a cui noi vorremmo ridurre la vita! Invece: un appassionante dialogo tra il mio bisogno costante e una presenza costante; se non fosse
così, sarebbe la noia infinita, non mi interesserebbe
.


Fino a qualche tempo fa io ho sempre pensato: «Come fa Carrón a essere così? Come vorrei essere come lui!»; adesso è diverso, io voglio fare la tua medesima esperienza e sono al lavoro su questo, per cui la gratitudine non è un sentimento buono, ma è una cosa fisica che mi ha preso e non mi dà tregua. Ti faccio due esempi. Uno: ho iniziato ad andare in metropolitana, piuttosto che nei luoghi
dove vado, con il libretto degli Esercizi del Clu (tanto che alcuni colleghi mi hanno chiesto se era il nuovo quadernetto degli appunti, perché poi la gente le cose le vede); e una mattina due ragazzi vicino a me dicono: «Che brutta giornata, se lo sapevo mi voltavo dall’altra parte e continuavo a dormire». Io stavo leggendo il punto dove dici che per giudicare la realtà partiamo sempre da altre circostanze, non dall’avvenimento che è accaduto a noi (per cui i criteri li peschiamo da altro). E questi dicono: «Che brutta giornata»…

Lo diremmo anche noi, se non ci fosse...
Infatti io ero travolta dal volergli dire quello che avevi detto tu alla Scuola di comunità, e al momento, in modo sgraziato, l’unica cosa che sono riuscita a rispondere è stato: «Certo che se pensiamo alle persone di Haiti non possiamo proprio dire così»; ma non era per rimproverarli, era per dire che la realtà è più grande. Erano solo due fermate di metropolitana, per cui non riuscivo a dire tante cose, non ero contenta di questa prima risposta perché poteva essere moralistica, e
allora li ho guardati, sorridendo, e ho detto: «Comunque buona giornata, che sia una buona giornata». Ho pensato: «Vedrai che mi mandano a quel paese, mi diranno: “Se magari ti fai i fatti tuoi...”». Invece mi hanno guardata e mi hanno detto: «Buona giornata anche a voi»; ho detto: «Questi mi danno del voi, adesso non è che sembro così anziana», però secondo me loro vedevano che stavo leggendo, è come se avessero percepito un’esperienza di comunione, non so se mi spiego.
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Secondo esempio: qualche giorno fa si rientra dal weekend, inciampo nel computer di mio marito, spacco il computer; lui fa il giornalista, quindi un disastro, litigata mostruosa, parole davvero pesanti. Penso: «Qua, oltre che il computer, s’è rotto anche il rapporto con mio marito». Alla Scuola di comunità era intervenuto un ragazzo raccontando del litigio con la moglie; stessa dinamica: ci svegliamo, non ci salutiamo; io tutto il giorno successivo ero in ufficio e pensavo:
«Ma quel signore dove ha preso l’energia per mandare il famoso sms?». Perché lui aveva detto: «Perché ho visto gli amici», ma non era sufficiente per me, perché io ero in ufficio, di fronte al computer e gli amici non c’erano e io volevo quella stessa energia affettiva che non negava l’umano – secondo me erano state parole pesanti e le parole hanno un peso –, però negava che questa circostanza del litigio con mio marito fosse una tomba. Rispetto a qualche mese fa sarebbe stata così; invece io, pensando all’intervento di quel ragazzo e a come hai risposto tu, ho deciso: «Voglio che anche a me venga questa energia di riprendere in mano questo rapporto, di essere perdonata io e che sia perdonato lui». L’unica cosa che sono riuscita a fare è mendicare da Cristo, tutto il giorno di fronte al computer, che Lui venisse. La sera sono tornata a casa e con letizia ho salutato mio marito: e questo per me è impensabile, ancora di più che attaccare discorso con quelli
della metropolitana. E – questo te lo dico timidamente perché è proprio un albore – inizio a intuire come nel rapporto con mio marito la cosa interessante sia la diversità del volto di Cristo che sta venendo fuori, quando io per anni ho pensato che il bello fosse la soddisfazione reciproca, la sintonia reciproca, lo stare bene insieme, il compito, l’avere la figlia; e invece comincio a scoprire un’alterità dentro quell’uomo lì che è il vero volto di Cristo. E questo non l’avrei scoperto senza questa mendicanza e questo passaggio. Per concludere, rispetto a due anni fa io ti posso dire che il secondo figlio tanto agognato non è arrivato, ma io sono contenta; le circostanze a cui attribuivo la felicità non sono capitate e io mi ritrovo commossa, senza confini.

Questa è la questione: che il Mistero, se noi Gli lasciamo un minimo spazio, compie alla grande il nostro desiderio, molto di più delle nostre aspettative (anche se non coincide con la forma che abbiamo noi in testa). Prima di fare una mossa verso l’altro, uno si trova in sé qualcosa che rimane come sguardo, tanto è vero che lo porta con sé, come sentimento di sé, come modo di vivere il reale, come modo di stare in metropolitana, come modo di affrontare la giornata. Ancora non hai fatto niente, ma la vita è già investita, costituita di questa Presenza, di questo sguardo. Mi ha colpito rileggere, nella nota di pagina 321, il testo bellissimo del Miguel Mañara, perché descrive molto bene che cos’è questo: «Sì, Girolama, dite il vero; non sono come ero. Vedo meglio: e pure non ero cieco; ma era la luce, forse, che mancava; perché la luce esterna è cosa da poco; non è essa che ci illumina la vita. Voi avete acceso una lampada nel mio cuore; ed eccomi come il malato che
s’addormenta nelle tenebre con la brace della febbre sulla fronte e il gelo dell’abbandono nel cuore, che poi si risveglia di soprassalto in una bella camera in cui ogni cosa è immersa nella musica discreta della luce; ed ecco, l’amico che piangeva da lunghi anni, l’amico tornato dalle terre oltre l’oceano è lì che gli sorride con gli occhi più calmi, più saggi di un tempo, e c’è tutta la famiglia, i
vecchi dalla testa bianca e i bimbi vestiti di un chiarore di grano maturo, e c’è il vecchio grosso cane, con i suoi occhi rotondi colmi di una tenera risata, e le fauci spalancate e piene di rumori di gioia per far festa all’uomo salvato dal diluvio delle tenebre! Ecco che luogo di pace avete fatto del mio cuore, Girolama. E grazie, grazie infinite a voi, Girolama!». È una Presenza che illumina la vita, che incomincia a investire noi: la luce incomincia a diventare mia, a diventare nostra: «Voi avete acceso una lampada nel mio cuore». La presenza di Girolama ha acceso una lampada nel cuore di Miguel Mañara; una presenza che non rimane fuori di noi, ma che comincia a riempire il cuore e a destare ogni passo della vita – poi uno riuscirà a fare qualche tentativo ironico, ma questo è secondario; se non è oggi, sarà domani o dopodomani –: io incomincio già ad avere un’esperienza reale di questa carità sterminata del Mistero e incomincio a essere grato. Perché si può spaccare il
computer, ma questo, che prima sarebbe stato un disastro, non è la tomba. Ancora non abbiamo fatto niente come carità verso gli altri, arriverà. La prima cosa è partecipare di questo sguardo,altrimenti non possiamo dare risposta alla mancanza, di cui parla Luzi, e senza darvi risposta il
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nostro punto di partenza non è un pieno, e allora siamo dipendenti da come va la giornata, dal computer, da tutto il resto.


Volevo farti una domanda. Racconto due fatti come premessa. È venuta una mia alunna a parlarmi del fatto che i suoi genitori hanno litigato, suo papà è andato a dormire sul divano e l’indomani mattina, mentre la accompagnava a scuola, è scoppiato a piangere perché lui non si sente voluto bene. Io all’inizio le ho detto: «Ma in questo che ti dice esprime un bisogno, esprime una richiesta, abbraccialo più spesso, fagli un regalo», però dopo un po’ era evidente per me e per lei che il
desiderio di essere voluto bene è talmente infinito che non è questo tipo di strategia che risolve la cosa. Secondo fatto. Vado al corso prematrimoniale in parrocchia, anche contenta di fare questa cosa; il prete comincia a dare una serie di consigli: «Ogni quindici giorni uscite insieme, ogni tanto tenetevi per mano; mi raccomando, se vuoi conquistare tua moglie, ogni giorno la devi stupire»… così tutto il tempo! Mi sono veramente stupita di come il grande assente fosse Gesù, e
d’altra parte questa serie di ricette non mi avevano proprio convinto e sarebbero un’illusione. Allora la domanda è questa: come mai don Giussani, vista la sproporzione che c’è tra il mio desiderio di essere voluta bene e di amare (soprattutto in questo momento) e il nostro essere incapaci, insiste nel dirci che dobbiamo imitare la carità di Cristo?


Ti ringrazio, perché o quello che dice Giussani sono parole al vento che non hanno veramente consistenza (e già in anticipo sappiamo la risposta: è inutile, è impossibile, data questa sproporzione, data questa nostra incapacità), o può essere un’esperienza reale. E può esserlo solo se noi seguiamo quello che dice don Giussani: perché per poter arrivare a questo che tu domandi, occorre fare la prima parte, e questo metodologicamente è fondamentale. Perché se no tu ti sei già spostata, come se tutta la prima parte della carità non ci fosse stata, e questa è la cosa normale che facciamo sempre: pensando alla carità, la prima cosa che ci viene in testa è la carità che io devo fare agli altri, e siccome sono sproporzionato e incapace, allora non ce la faccio. In che cosa ci corregge
don Giussani? Don Giussani ci corregge come ci corregge tutta la Bibbia: l’iniziativa è stata del Mistero, quando Dio, vedendo il popolo di Israele in Egitto, ha visto la sofferenza del Suo popolo, si è commosso ed è venuto a darci una mano. Tutto è nato da questa pietà di Dio con il popolo d’Israele, fin dall’inizio. E la sottolineatura di tutto il Nuovo Testamento è il “prima”: non è che noi
siamo in grado di amare Dio – non lo siamo, dove sta la novità? –, è che Dio ci ha amato per primo!
La vera novità, quello che ha stupito tutti quanti, tanto che lo sottolineano in continuazione, da san Paolo a san Giovanni, è questo “prima”. Dice Giovanni: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). E più avanti dice: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). Ma questo di solito lo saltiamo, non essendo consapevoli di quello che tu hai detto; per
questo è inutile che noi dimentichiamo tutto il nostro dramma, tutta la nostra sproporzione, tutta la nostra incapacità per parlare della carità, come se si trattasse di cambiare la parola d’ordine; e ci dimentichiamo di tutto il cammino fatto, ci dimentichiamo di quello che noi siamo e parliamo della carità con la stessa mentalità di tutti, come un moralismo, una cosa che posso compiere senza
riceverla. Don Giussani ci corregge dal primo momento, perché tutto l’accento, tutta la sottolineatura è proprio in un’altra cosa. Il punto di partenza per capire che cos’è la carità non è che cosa penso io sulla carità, che mossa faccio io verso l’altro, che incapacità sento, no! «La carità […]
indica il contenuto più profondo, scopre l’intimità, scopre il cuore di quella Presenza che la fede riconosce». Per capire la carità, adesso, non dobbiamo dimenticare quanto ci ha detto. A noi interessa lavorare sulla carità non perché adesso dobbiamo capire che cos’è la carità: a noi interessa andare fino in fondo a quella Presenza che ci ha affascinato, perché se c’è qualcosa di nuovo nella nostra vita è l’incontro con una Presenza eccezionale della quale vogliamo scoprire il cuore più intimo. Per capire la carità, allora, non dobbiamo pensare prima di tutto a noi (o a qualcun altro così inconsistente come noi) e poi lamentarci che siamo così inconsistenti, bensì occorre partire da quella Presenza, perché è soltanto guardandoLa che noi ne scopriamo l’intimità. E questo è un cambiamento di metodo decisivo, perché altrimenti noi parliamo della carità secondo la mentalità di
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tutti, ridotta a moralismo, e poi ci lamentiamo che non ce la facciamo. Allora che cosa ci dice come metodo? «Adesso incominciamo a fare i passi necessari per capire qualche cosa, lentamente; poi voi li riprenderete a casa [o in metropolitana...], anche se queste cose, più che nella banalità di una pretesa analisi chiarificatrice [che non serve a niente], entrano in noi come per osmosi, come per pressione osmotica, entrano in noi se guardiamo il mistero di Cristo, come Giovanni e Andrea che lo guardavano parlare e non interloquivano». Possiamo capire che cos’è la carità guardando quella Presenza, dando il tempo a quella Presenza, convivendo con quella Presenza, affinché entri in noi una conoscenza sperimentabile, toccabile, palpabile di che cosa è l’intimità di quella Presenza che io ho riconosciuto, che mi ha colpito fino al midollo: perché io devo capire perché mi ha colpito così! Soltanto se io do alla Presenza lo spazio e il tempo perché venga fuori il modo con il quale si manifesta (come parla, come guarda, come agisce, come giudica, come si rapporta al reale), allora potrò capire che cos’è la carità. Se noi saltiamo questo passaggio, abbiamo interrotto il percorso, cioè il metodo attraverso cui Giussani − lui per primo, seguendo lealmente − ci introduce al Mistero
come carità. Non ci fa una lezione sulla carità, ma ci introduce attraverso una Presenza che ci consente di capire che cos’è la carità. Se noi questo lo saltiamo, ci troviamo poi davanti a delle questioni a cui non abbiamo possibilità di risposta, perché quello che tu dici è assolutamente vero, ma per poter cogliere tutta la portata della risposta tu devi accettare di essere introdotta alla carità
come ha fatto il Mistero. Giussani è il più leale, e per questo ci insegna il metodo, ci testimonia il metodo; non perché lui sia più bravo, ma perché è più leale, più semplice e sta più a come il reale accade: non impara qualcosa che è staccato dalla Presenza che lui ha riconosciuto; e in questo ci dà
una mano, perché quando noi ci stacchiamo non sappiamo rispondere alle domande. Invece guardando insieme la Scuola di comunità ci riconduce sulla strada e così, pian piano, potremo vedere come viene fuori la risposta nel percorso che ci fa fare.


L’altra volta hai parlato della differenza tra eros (amore mancante) e agape (amore
sovrabbondante), e dicevi che quest’ultimo nasce dalla sovrabbondanza che la Trinità vive in sé e vuole condividere con l’essere umano. Quello che sto iniziando a comprendere, anche grazie al paragone serrato con la Scuola di comunità che ci stai facendo fare, è che questa sovrabbondanza non è l’essere sazi di cose, soldi, successo, eccetera.

Perché no? Vedi, senza renderti conto, già ti sei staccata, perché don Giussani non sta parlando della sovrabbondanza di te, sta parlando della sovrabbondanza della carità del Mistero! Scusami, ti interrompo per aiutarci tutti, perché noi senza renderci conto ci spostiamo, è quasi automatico, ma senza renderci conto; capisci? Non è la sovrabbondanza in te di altre cose, no, è la sovrabbondanza
del Mistero; la parola agape è il tentativo di esprimere (con una parola diversa dalla mancanza insita nell’eros) non la nostra, ma la sovrabbondanza del Mistero.


Allora intuisco il motivo per cui il don Gius parla della distrazione come un tradimento, a pagina 329, quando dice: «Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese, negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai. Non lo abbiamo pensato come Giovanni e Andrea lo pensavano mentre lo guardavano parlare». Intuisco che, paradossalmente, si è più capaci di gratuità quando si ha la coscienza del proprio niente, dell’essere mancanti, perché lì c’è di più la possibilità che un Altro irrompa nella nostra vita. Adesso ti pongo la questione che secondo me è una confusione che io ho nella testa. In questo periodo mi è stato dato di fare esperienza di quella che tu definisci contemporaneità di Cristo e di cui hai parlato anche prima, ma mi sembra che non è scontato né automatico che se uno fa esperienza della contemporaneità di Cristo scatti l’esperienza della sovrabbondanza, tant’è che in alcuni rapporti, addirittura quelli più significativi, mi capita di sperimentare addirittura di più la percezione di questa mancanza che dicevamo prima.
Ma non è l’esperienza della sovrabbondanza che dovrebbe farmi dire: «Senza che Cristo sia una presenza ora, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora»? Questo significa forse che in questi fatti o persone non è realmente accaduta o non ho realmente fatto esperienza della contemporaneità di Cristo?
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Devo dirti io quando fai esperienza della contemporaneità di Cristo? O tu puoi riconoscere quando la fai?

Come dicevi prima, uno riconosce che fa questa esperienza per il fatto di guardare se stesso con questo amore, cosa che non accade automaticamente...

Per questo tu adesso dimenticati quando non lo fai. Parti, invece, da quando tu questa esperienza la fai, perché questo è il metodo. Anche i discepoli potevano dire, come te: «Non la facciamo in tante occasioni». Ma la questione è che quando si trovavano con Lui e Lo sentivano parlare, Lo vedevano guardare in un certo modo e si sentivano guardati così, loro facevano questa esperienza. Poi, un istante dopo, discutevano tra di loro (il Vangelo mette in evidenza senza vergogna come essi
decadevano un istante dopo) e volevano sapere chi era il primo, eccetera; possiamo fare un elenco senza fine, ma in questa situazione in cui loro vivevano tutta la loro fragilità, tutta la loro inconsistenza, tutta la loro incapacità, irrompeva costantemente, si faceva contemporaneo di nuovo lo sguardo di Cristo, che prevaleva pian piano. Non è che in tutte le occasioni della loro vita succedeva questo, ma quando capitava potevano riconoscerLo per questo. Quando tu puoi riconoscere adesso che Cristo è contemporaneo? Non quando lo decidi tu o quando hai in mente di
fare questo o di fare l’altro, no: quando tu sei di nuovo stupita perché ti trovi con uno che ti perdona o con uno che ti guarda in un modo come non ti sei sentita guardata mai o ti trovi con una gioia, con una pienezza, con una sovrabbondanza che non ti puoi dare da te stessa. Allora tu, in quel momento, devi andare a fondo di questa esperienza: «La fede è obbligata a farcelo riconoscere; perché siamo
obbligati a riconoscerlo [contemporaneo]? Obbligati vuol dire che non saremmo ragionevoli se non lo riconoscessimo. Perché? Perché la ragione è la coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Siamo davanti al fattore che corrisponde alle esigenze del nostro cuore – anzi, che le tira su, come per un uomo che si alza sulla punta dei piedi per vedere una cosa che vorrebbe vedere e non vede ancora, tira il collo e non vede ancora, ma la cosa c’è, perché se ne ode la voce – ed è inspiegabile, cioè non è deducibile da quello che l’uomo sperimenta [ma c’è, tu puoi riconoscere in quell’esperienza che c’è]. È nell’esperienza, perché lo si sente e, seguìto, produce effetto, cambia le cose [è la differenza tra qualsiasi tipo di intimismo, qualsiasi tipo di spiritualismo che non cambia niente e la documentazione che “è se opera”], ma soprattutto dialoga imperiosamente col cuore e risponde all’una, all’altra, all’altra esigenza: le esigenze costitutive del nostro animo. Non si può capire né come né quando, ma è lì la sua fisionomia eccezionale, la sua Presenza eccezionale; se non lo riconoscessi presente perché non lo capisco, perché non capisco come fa ad essere presente, andrei contro la ragione. Perché la ragione dice: “È” oppure “Non è” [è un giudizio]. Dire “È”, e aggiungere “Non so spiegarlo”, lascia la ragione perfettamente e onorevolmente coerente con se stessa». Riconosco che c’è, ma che non lo posso afferrare. Ma tu, come puoi sapere che la presenza
di Cristo è, anche se non la puoi spiegare?

Perché ne faccio esperienza.

Perché ne fai esperienza, per l’effetto che provoca in te. E questo non devo dirtelo io, lo sai tu benissimo quando sei guardata in un certo modo, quando si introduce una Presenza in te che ti fa respirare, quando qualcosa corrisponde alle esigenze (come sai quando una persona ti tratta ingiustamente e questo non ti corrisponde e vengono fuori tutte le tue esigenze e tu ti arrabbi con l’altro). Non è che non giudichi, tu giudichi in un caso o in un altro, quando corrisponde e quando
non corrisponde, stiamo costantemente giudicando e perciò è da qui che parte la ragione, da cui nasce poi – dice don Giussani – l’irresistibile desiderio di andare fino in fondo alla Presenza che si riconosce. Ma la contemporaneità di Cristo non è diversa da questa sovrabbondanza, questo sguardo nuovo, questa tenerezza che ti trovi addosso, questo perdono. Perché è Cristo? Perché corrisponde, perché tu questo non lo puoi spiegare, se non introduci il tratto inconfondibile della Sua presenza
così come il Vangelo ce lo documenta; ti trovi oggi, nel presente, lo stesso sguardo, la stessa pienezza, la stessa sovrabbondanza che i Vangeli documentano. Questa è la contemporaneità, non che io sono bravo. Dopodiché con questa familiarità Presenza, la Sua carità incomincia a entrare dentro di noi, a riempirci; e tu, piano piano, ti rapporti al reale con una novità che non ti sognavi prima, come dicevamo rispetto alla povertà: tu sei lieta, tu
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sei libera, non ti manca niente. Ma questo è l’effetto; e noi non dobbiamo preoccuparci anzitutto dell’effetto, perché se noi seguiamo, avverrà. Noi pensiamo di sapere già il cammino che noi possiamo fare con il nostro tentativo, invece di seguire. Per questo dice, sempre alla pagina 323:
«Ma capisce che non può neanche indicare come questo possa avvenire, deve semplicemente seguire». È tutto qua, se noi abbiamo questa lealtà con tutte le nostre domande, ci prende per la mano e ci porta, basta avere la semplicità di seguire. Basta. Allora proviamo a seguire con semplicità, proviamo a sperimentare questa osmosi che entra in noi guardando il Mistero di Cristo, come Giovanni e Andrea; il testo è pieno di questi passaggi del Vangelo attraverso cui don Giussani
ci mette davanti quella Presenza, perché il Suo cuore possa diventare sempre più nostro. Perciò la prossima volta stiamo sulle stesse pagine, affiancandole con la lettura della Pagina Uno del Tracce di febbraio: occorre una familiarità, una convivenza con il testo per essere aiutati, guidati quasi per mano, affinché diventi nostro. Il cambio nel metodo ci porta alla confusione.
L’iscrizione alla Scuola di comunità è un segno di partecipazione al movimento. È un piccolo gesto educativo attraverso il quale vogliamo esprimere la volontà di prendere sul serio questo lavoro.
Abbiamo giudicato che non possiamo fare in modo automatico i nostri gesti, ma occorre prendere consapevolezza della motivazione per cui facciamo le cose. Questo non vuole essere un richiamo organizzativo, ma educativo; infatti, da cosa si vede che qualcosa cambia nella vita? Dal fatto che incominciamo a partecipare a un gesto che non finisce col raduno, ma comincia a diventare nostro e arriva fino a farci riprendere in mano il testo (per esempio in metropolitana, come è accaduto).
L’iscrizione alla Scuola di comunità è segno che qualcosa di quello che facciamo lascia traccia. Non ci interessa l’iscrizione meccanicamente intesa, ma che il gesto lasci traccia in ciascuno di noi. Per questo abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni fino a metà marzo, dando l’opportunità di iscriversi a
quanti non l’avessero ancora fatto. Questo mese ricorre il quinto anniversario della morte di don Giussani e il ventottesimo del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Le messe che in tutto il
mondo vengono celebrate in questa occasione sono anzitutto un grande ringraziamento a Dio per la vita di don Giussani, e poi perché questa realtà che da lui è nata c’è ancora, è viva e ci impegna a immedesimarci sempre di più con il suo carisma: più il tempo passa più ci rendiamo conto che è la risposta più adeguata alle circostanze che stiamo vivendo. Constatiamo con gratitudine, dopo cinque anni dalla morte di Giussani, che − come abbiamo detto il giorno del funerale −, seguendolo, lui
diventa sempre più padre, ci genera sempre più. Questo lo vedo andando in giro per il mondo, quando visito le nostre comunità: è impressionante come lui continui a essere presente e continui ad accompagnarci con tutto quanto ci ha lasciato e con tutto quanto opera in noi e per noi nel presente.
• Gloria

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