martedì 9 febbraio 2010

VALGONO GLI ESEMPI, NON LE PAROLE È SEMPLICE STARE DALLA PARTE GIUSTA

A mare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na­turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua. E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac­chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat­tive che vogliono rendere « morte » sinonimo di « li­bertà » , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio dell’animo vero della gente.
MARCO TARQUINIO Avvenire

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