lunedì 22 febbraio 2010

G I U S S A N I - Il carisma del maestro - 5° anniversario

DON LUIGI GIUSSANI CON UN GRUPPO DI GIOVANI DURANTE UNA GITA IN MONTAGNA AI TEMPI DI GIOVENTÙ STUDENTESCA, NEL 1958.








Chi sia stato don Giussani non è semplice dirlo. Poche parole non bastano a descriverne la ricchezza della personalità poiché egli è stato un uomo poliedrico. Ci avvicineremo percorrendo alcune strade concentriche che hanno segnato la sua esistenza. Egli è stato un lettore intelligente e precoce di poesia e letteratura. Durante le ore di lezione, citava a memoria intere poesie di Pascoli, di Leopardi, di Ada Negri e di altri autori a lui cari. Interessato al dramma inevitabile dell’esistenza umana, era un innamorato degli uomini: sempre desideroso di imparare, di trovare la strada per entrare dentro le loro vite, la loro mente e il loro cuore. Le parole degli scrittori erano, tra le altre, alcune vie di questo incontro. Era sicuro di una cosa: ogni uomo, nel fondo del suo essere, vive per le stesse esigenze di verità, di giustizia, di bene, di felicità che animano le ore dei suoi fratelli sulla terra. All’uomo che grida, che cerca, che non può negare a se stesso quel «più in là» di cui parla Montale, era diretta la sua attenzione profonda. Lo sviluppo compiuto di questa intuizione è contenuto nella sua opera che egli chiamerà «Il senso religioso». Colpiva in don Giussani la sua passione per la musica. Da piccolo, il padre lo portava con sé ad assistere a concerti d’organo o di polifonia, una passione che coltiverà poi in seminario attraverso la scuola di monsignor Nava. Egli ha così penetrato i segreti delle grandi opere: portava in classe grandi grammofoni per farci ascoltare la Quinta o la Settima di Beethoven, alcuni concerti di Mozart, ci introduceva a Brahms, Schubert e Chopin.
Nella musica vedeva il segno profondo della vita dell’uomo. Nei grandi artisti, nella loro opera leggeva la solitudine umana e, allo stesso tempo, la tensione verso l’incontro con altri uomini. Don Giussani è stato sì un uomo curioso, che amava conoscere, ma soprattutto l’amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita. Egli è stato un grande studioso di teologia in seminario, l’ha penetrata con tale passione che i suoi insegnanti pensavano potesse diventare un grande teologo, uno dei più importanti del nostro Paese. Trascorse 8 anni nel seminario di Venegono, dove vi erano degli educatori che potevano, per la loro profondità e paternità, formare non solamente dei preti, ma educare degli uomini. Un episodio lo segnò profondamente. Quando da monsignor Gaetano Corti sentì commentare il versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni, «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), cioè la Bellezza, la Giustizia, l’Amore, la Verità si è fatta carne, si ricordò in quel momento di una poesia di Leopardi. Era un inno non a una delle sue amanti, ma alla scoperta che ciò che cercava nella donna amata era qualcosa oltre essa. Quella di Leopardi fu, 1800 anni dopo san Giovanni, la mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto. L’allora rettore del seminario, Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano, che nutriva sentimenti di vera stima per Giussani, tentò per ben due volte di realizzare il progetto di tenerlo in seminario. Nel 1954 e poi nel 1965.
Giussani sentiva di essere chiamato ad altro. È lui stesso a raccontarlo: dopo aver incontrato alcuni giovani studenti sul treno, trovandoli totalmente estranei alle cose più elementari del cristianesimo: «Mi venne… il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto… Abbandonai perciò l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato».
Don Giussani è stato soprattutto un grande educatore. La sua preoccupazione era trasmettere ai ragazzi in modo chiaro, affascinante e coinvolgente, quello che gli sembrava la Chiesa non riuscisse più a comunicare. Il patrimonio vitale che costituisce l’anima di ogni civiltà deve essere riscoperto e riguadagnato da ogni generazione. Tutta la vita del sacerdote lombardo è stata un’esistenza dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che sarà il tentativo del Vaticano II, un concilio pastorale che non volle semplicemente riproporre delle verità, ma soprattutto indicare una strada per viverle. Egli non si stancò mai di ripetere che seguire Cristo non è negare la ragione, negare l’uomo, ma all’opposto è esaltarlo. Il cristianesimo non è una tradizione del passato, è una Persona presente che entra nella vita, in forza della ragione stessa del suo annuncio. Giussani era fermamente convinto che solo dall’interno del cristianesimo vissuto l’uomo scopre se stesso e le sue attese più radicali. Nessuno conosce l’uomo come Cristo, dirà la costituzione del Concilio «Gaudium et spes» (n. 22). Il suo tentativo è stato quello di portare la tradizione vivente della Chiesa negli ambienti della vita dell’uomo: nella scuola, nell’università, nella famiglia e nel lavoro. Tuttavia Giussani non ebbe vita facile. Egli era malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano un innovatore perché metteva insieme ragazzi e ragazze e favoriva la creazione di comunità nelle scuole, viste come una possibile causa dell’allontanamento dei giovani dalle parrocchie. Al tempo stesso era additato dagli innovatori come tradizionalista. In realtà don Giussani aveva orrore per ogni tradizionalismo come sguardo all’indietro.
Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una rottura con la storia precedente, quanto piuttosto una novità nella continuità. Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità.
Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata.

Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. La vita perderebbe il suo asse fondamentale: la scoperta di essere creatura, di essere fatti da Dio, generati da qualcuno che ci precede, che ci attende e che ci vuole bene.
Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’ autorità. Don Giussani è stato un alto cantore di Cristo. Già negli anni del seminario iniziò con alcuni suoi compagni un piccolo gruppo, lo «Studium Christi»: una passione irrefrenabile per Gesù come avvenimento presente. La fede è riconoscere Cristo vivo qui ed ora, centro del cosmo e della storia, una persona che vale la pena seguire, che è luce che illumina la vita e calore che riempie interamente il cuore. Le parole della Scrittura erano spessissimo sulle labbra di Giussani: egli la leggeva, la meditava, ci si immedesimava. E immedesimava chi lo ascoltava. Amava tantissimo san Giovanni e san Paolo, forse perché li sentiva più vicini a sé. In Giovanni scopriva la forza della contemplazione dell’evento dell’incarnazione; in Paolo il grande slancio missionario. Don Giussani era un uomo profondamente lombardo e un prete profondamente ambrosiano. Tutta la sua vita è stata permeata dalla figura e dall’insegnamento di sant’Ambrogio che attraverso la liturgia e la grande tradizione della Chiesa ambrosiana giunse fino a lui.
L’
ambrosianità di don Giussani si esprimeva nel senso concreto dell’uomo peccatore e salvato. Era vivo in lui lo stupore per la misericordia di Dio più grande del nostro peccato. Amava tutto ciò che è bello, tutto ciò che è parola, che è canto, come era per Ambrogio, creatore degli inni. In lui ho rivisto un tratto tipico dei grandi preti ambrosiani: una «fedeltà in piedi» non servile, ma reale e sacrificata all’autorità della Chiesa. Così è stato il suo rapporto con i due arcivescovi di Milano, Montini e Colombo, che videro la fioritura del movimento proprio negli anni del loro servizio pastorale, e con i papi che ha incontrato. Don Giussani è stato un grande uomo di cultura, un estimatore della ragione umana. Durante le ore di lezione colpiva la forza logica del suo parlare, la stringenza del suo ragionamento. Egli non si stancò di sostenere contro ogni riduzionismo che la ragione è apertura alla realtà in tutti i suoi fattori. Benedetto XVI in questi ultimi anni ha invitato ad «allargare la ragione». Mi ha fatto molto pensare a don Giussani. La ragione non è qualcosa che ci chiude in noi stessi ma è una finestra spalancata su una realtà nella quale non si finisce mai di entrare.
Dall’incontro con Cristo nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere nell’ambiente in cui vivono i cristiani. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova Gioventù Studentesca nata intorno a Giussani. Egli ci ha sempre educati alla carità. Fin da piccoli andavamo nella Bassa milanese per stare con i bambini semplicemente, per educarci al fatto che Dio si è fatto uomo per stare con noi. Tutto nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la sua vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, opere di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie.Già dalla fine degli anni Sessanta don Giussani aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi. Ed infine, l’ultima parola che ha dominato la vita di don Giussani è stata la misericordia. Negli ultimi anni tutto si era tramutato in questa certezza: «Dio per l’uomo è misericordia». È stata l’insistenza maggiore in un numero impressionante di interventi, come un fiume in piena, in un uomo segnato dall’immobilità, dalla quasi totale impossibilità ad articolare la sua voce.
Colpisce la comunanza con la vita di Giovanni Paolo II, morto proprio nei primi vespri della festa della Divina Misericordia.
E 5 anni prima di morire Giussani scriveva: «Di fronte a tutti i peccati della terra, sarebbe ovvio dire: Dio distrugga un uomo così. Invece, Dio muore per un uomo così, diventa uomo e muore per un uomo così, tanto che questa sua misericordia rappresenta il senso ultimo del mistero».
Non ebbe vita facile: malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano progressista perché metteva insieme ragazzi e ragazze, al tempo stesso era additato dagli innovatori come passatista In realtà aveva orrore per ogni sguardo all’indietro, desiderava lanciare i giovani verso il futuro ma nella continuità; per questo soprattutto dopo il ’68 sostenne l’autorità, convinto che si deve trasmettere ciò che si è ricevuto
di Massimo Camisasca

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