sabato 30 ottobre 2010

Quando il dolore e la dedizione diventano spettacolo «insopportabile»


LO SCARSO RISCONTRO AL CORAGGIOSO FILM DI AVATI SULL’ALZHEIMER


G li artisti veri ci chiedono di guardare in faccia il tremendo.

L’incontrollabile. E il valore di cose invisibili. Per questo sono scomodi. Non per le loro opinioni a riguardo, che so, della politica o di altro. Anzi, un certo cliché di artista sempre protestatario è comodissimo per il potere. Come e quanto l’artista lacchè. Gli artisti veri sono scomodi perché ci obbligano a guardarci senza censure, senza pudore. In queste settimane un delicato e 'rischioso' film è circolato in alcune sale italiane. È di Pupi Avati e narra la perdita della mente e cosa significa amare chi sembra smarrirsi. È la vicenda dell’Alzheimer, ma potrebbe essere anche la vicenda di tanti altri smarrimenti e amori sproporzionati. Avati la narra con le risorse della sua arte e della sua esperienza. Ma il film non va, pochi incassi. O meglio, come già denunciato dal regista all’uscita, la distribuzione in poche sale, la strozzatura del mercato che punta su altri prodotti, il festival di Venezia negato e altri fattori lo relegano a incassi limitati.
Così il film è a rischio di rapida scomparsa dalle già rare sale.
Insomma, nessuna censura, ma per così dire, una specie di messa in disparte. Atteggiamento che si riflette anche nel pubblico, pare. Che preferisce non guardare questa storia. E che pure vive in milioni di casi esperienze analoghe. Ma preferisce dedicare le ore libere alla commedia, a storielle non importa quanto originali, e che hanno il pregio d’essere svaganti, lievi, e magari anche corrette. La sofferenza invece è scorretta.
L’impasto tremendo e glorioso di amore e dolore sono scorretti. Il dolore non è giusto. E anche l’amore riservato ai colpiti dal dolore non nasce per 'giustizia'. Preferiamo dunque raccontarci altre storie.
In un’Italia che sciaguatta tra crisi economica, politica confusa e fenomeni da baraccone, si preferisce raccontarsi altre cose. Si preferiscono altre storie. Che abbiano infine – quando pure si tratti di vicende esposte su abissi di dolore – un sapore di intrattenimento, grazie allo spettacolo a cui le riducono i media.
Vicende che si possano trasformare in commedia. In qualcosa cosa su cui chiacchierare davanti alla macchinetta del caffè. Si preferisce questo. Si preferisce sorvolare, si preferisce ridacchiare. E si adduce con grossolanità che c’è la crisi, e dunque c’è voglia di ridere. Indicando così uno dei principi del totalitarismo. Quello visibile e quello meno visibile. Che tiene le teste occupate con cose 'divertenti' mentre il manovratore decide da solo dove andare.
Eppure ci sono stati film (uno per tutti: Rain Man)
che parlando di cose dure presenti nelle vite di molti hanno aperto gli occhi a tantissimi. È come se nel caso di questo film di Avati i padroni del mercato avessero invece indicato che si doveva trattare di una questione secondaria. Di una faccenda minore. Forse perché non ci esplodesse davanti – e proprio in questo tempo di crisi – la necessità di attingere alle cisterne azzurre e profonde di amori senza ritorno. Forse perché in questa epoca del 'risentimento' parlare di dedizione, di senso del vivere, di vicende aperte sul mistero è scomodo per i signori del gusto e del mercato. Meglio pensierini risentiti, confezioni usa e getta di emozioni, o niente pensieri, niente emozioni troppo incontrollabili. Avati, come i veri e liberi artisti, non è tipo da scoraggiarsi. Continuerà a raccontare le storie necessarie di questa epoca. A lui forse rimarrà il cruccio di un film che per ora non è andato granché. In noi cresce, invece, il senso che il nostro cuore e la nostra cultura non vanno granché.
DAVIDE RONDONI

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