domenica 17 ottobre 2010

LA CRONACA DALL’ABISSO, E LA PREGHIERA - E LIBERACI TU DAL NOSTRO MALE

Di nuovo l’Italia ipnotizzata da Avetrana. Co­me sospesi sull’orlo di un pozzo buio, spa­lancatosi in un paese come tanti. Sbalorditi: quel­la ragazza solare che per un mese in tv abbiamo visto cercare Sarah, secondo gli inquirenti avreb­be sempre mentito. Radicalmente, fin dal primo istante: complice nella morte della cugina picco­la, della compagna di giochi in cortile. Un’abile manipolatrice di televisioni e web, lucida nel suo disegno: dire a tutti di cercare lontano, mentre bi­sognava cercare vicino. Sarah uccisa perché mi­nacciava di parlare, perché non sottostava al fe­roce ordine del silenzio sulle voglie dello zio.

E speri che i magistrati sbaglino. Però quel pozzo se ne sta lì, spalancato e nero con la sua doman­da: se è vero, come è possibile? Lo stesso pozzo di Cogne, o di Novi Ligure. Quella crepa slabbrata della realtà che a tratti emerge nella cronaca; su un terreno, però, che ci è familiare, lo stesso dei nostri passi quotidiani.

E ci si affanna a trovare categorie che inquadrino – arginino – quel che è accaduto: delitto di un’I­talia antica o di una modernità che si consuma su Facebook e nei talk show? Ma niente basta dav­vero a spiegare tanto male. L’orlo del pozzo dà le vertigini. Così profonda la crepa, che non se ne ve­de la fine. «Un baratro è l’uomo, e il suo cuore un abisso»: la sola parola vera sembra quella del sal­mista.

Attoniti di fronte al baratro. Alla sbalorditiva ca­pacità di male degli uomini; collettiva, organiz­zata, scientifica come nei lager, oppure privata, segreta, in una semplice casa di paese. La storia di Avetrana è uno schiaffo alle coscienze irriduci­bilmente ottimiste e tranquille: eccolo, il male, in tutta la sua concretezza. Velenosa pianta spunta­ta in un orto domestico; gibbosità deforme che sfi­gura gli affetti più certi e cari. La opaca concre­tezza del male è l’evidenza che ci ammutolisce oggi; quel male che tendenzialmente non vedia­mo, sottovalutiamo, oppure che è sempre “degli altri”; quel male che crediamo in qualche modo opinabile, “relativo”, a Avetrana si mostra nella sua plumbea mole. Radice che abbiamo addosso, scel­ta drammaticamente aperta alla nostra libertà.

Cosa diremo ai figli davanti ai tg, con la immagi­ne di una ragazza di 15 anni che sorride, e che è morta così? Non faremmo forse tanta fatica ad ar­ticolare una parola, se da tempo non avessimo in molti scordato la declinazione della nostra più antica preghiera. Che domanda: « Liberaci dal ma­le ». La prima ribellione al male per i cristiani non è sforzo volontaristico o impegno o promessa, ma domanda: liberaci dal male – giacché da soli non ne siamo capaci. Certo, è una domanda che im­plica la consapevolezza di un male originario che ci segna; ed è una domanda inerme, non da pa­droni del proprio destino, ma da creature. Tanti non la insegnano quasi più ai figli, quella pre­ghiera; quel chiedere da umili, ogni mattina.
Generazione educata a farsi, a “realizzarsi”, a sal­varsi da sé, il pozzo nero di Avetrana ci lascia pri­ma stupefatti e muti e poi cinici, o rassegnati, o incrinati nella speranza. Costruire mondi più giu­sti, impegnarsi, combattere, certo: e però, quella radice profonda continua a germinare, e a defla­grare ogni tanto in tranquilli sconosciuti paesi. Se qualcosa insegna l’orrore di A­vetrana, è l’antico realismo, e l’urgen­za quotidiana, delle parole di una pre­ghiera che gli adulti in Italia hanno im­parato da piccoli, e poi spesso messa da parte – come una fiaba da bam­bini. Quella domanda inerme di fi­gli che si riconoscono figli: libe­raci Tu dal nostro male.
MARINA CORRADI - editoriale Avvenire 17/10/2010

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