VENT’ANNI FA VENIVA PUBBLICATA L’ENCICLICA «VERITATIS SPLENDOR»
Vent’anni fa, nei primi giorni di agosto, venne pubblicata l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, dedicata ad alcune questioni fondamentali dell’insegnamento etico della Chiesa: per esempio, il rapporto tra verità e libertà, la legge morale naturale, la coscienza morale, l’esistenza di atti sempre malvagi (a prescindere dalle loro eventuali conseguenze positive). Un testo da leggere e rileggere. Qui, ci soffermiamo solo su un tema centrale dell’enciclica: l’affermazione di una morale positiva e affermativa. Nonostante un’insistita caricatura secondo la quale l’etica cristiana sarebbe una morale del «no» e dei divieti, la concezione morale cristiana è infatti incentrata sul primato del «sì» e dell’amore, rispetto a cui i «no» sono secondari e derivati. Un tema su cui c’è profonda continuità tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco, che si già espresso con chiarezza l’8 e il 16 giugno scorsi. Per la Veritatis splendor i comandamenti devono essere intesi «come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore». La vita morale, infatti, è «risposta dovuta alle iniziative gratuite che l’amore di Dio moltiplica nei confronti dell’uomo. È una risposta d’amore». Similmente, per Papa Francesco «i Dieci Comandamenti sono Comandamenti d’Amore», essi «non sono un inno al 'no'», bensì «un inno al 'sì' a Dio, all’Amore, alla vita». E «poiché io dico di 'sì' all’Amore, dico 'no' al non Amore, ma il 'no' è una conseguenza di quel 'sì' che viene da Dio e ci fa amare». Al fondo di questa impostazione «amorecentrica» dell’etica cristiana c’è l’affermazione evangelica, secondo la quale l’amore a Dio, a sé e al prossimo è la sorgente e insieme lo scopo di tutte le leggi morali: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore […] e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Invece, come accennato, molte sintesi e ricostruzioni riducono il magistero morale della Chiesa esclusivamente ad alcuni divieti, senza tener presente che essi sono la conseguenza del comandamento dell’amore, di un amore che dice un grande «sì» a Dio e all’uomo. Infatti, se amo il prossimo non lo devo calunniare, né derubare, né assassinare, eccetera. Non devo fargli del male in nessun momento della sua vita: da quando è concepito alla sua morte naturale. Come dice san Paolo: «Il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L`amore non fa nessun male al prossimo» (Rm 1, 13, 8-10). Insomma, tornando all’enciclica, i precetti «sono al servizio della pratica dell’amore»: per fare due esempi di Papa Wojtyla, il comandamento «non uccidere» diventa «l’appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo» e il precetto che vieta l’adulterio «diventa l’invito a uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo». Così vissuta, la morale cristiana è in grado di dare motivazioni incisive e slancio al soggetto che la segue, dato che tutto ciò che facciamo per amore lo svolgiamo con meno fatica o, meglio ancora, lo facciamo volentieri. Infine, «è Gesù stesso il 'compimento' vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé»: infatti, «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). | |||
giovedì 8 agosto 2013
Al centro, l’amore . 20.mo della "Veritatis Splendor"
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