Era maestro di retorica alla corte imperiale, era uomo di studi profondi e di amicizie intense, aveva una donna che amava. Agostino prima della conversione era, ha detto il Papa in apertura del Capitolo dell’ordine agostiniano, «un uomo arrivato».
Eppure, interiormente insoddisfatto, cercava; per vie anche sbagliate, da peccatore, continuava a cercare il volto di Dio. È così attuale la vicenda umana di Agostino, che sembra storia di oggi. ( Tendiamo sempre a pensare che i santi nascano già santi, dentro a un’aura immateriale e pura. Invece Francesco ha raccontato di un uomo, che un tempo non era così profondamente diverso da noi). Che cosa ne suscitò il cambiamento? Dapprima una insoddisfazione, una tenace inquietudine; come se tutto ciò che quell’uomo aveva non gli potesse bastare. Poi, anche quando trova Dio, Agostino non si chiude in se stesso come fosse arrivato; invece è spinto dall’urgenza di annunciare agli altri il Dio che ha incontrato. «Sempre in cammino, sempre inquieto», ha detto Francesco: questa, ha aggiunto, «è la pace dell’inquietudine».
La pace dell’inquietudine. In questo mese in molti abbiamo riposato, credendo di poter finalmente trovare in giornate tranquille la pace che ci sfugge, crediamo, per troppi impegni. Ma qualcuno di noi ha sperimentato, proprio nel sospirato momento in cui si può stare tranquilli, l’insorgere di una sottile inquietudine. Come se qualcosa, anche nella bellezza del mare o delle montagne, mancasse; come se la pace non si presentasse in quel riposo, e anzi la sua mancanza, nella quiete e nel silenzio, si facesse più vistosa. Insomma, abbiamo sperimentato l’inquietudine nella pace; e oggi invece il Papa ci dice di una pace dell’inquietudine.
Sembra, questa pace agostiniana di cui parla Francesco – in un forte eco di Benedetto XVI, da sempre innamorato di Agostino – qualcosa di totalmente diverso dalla pace come la intendiamo noi, quando andiamo in vacanza e ci ripromettiamo: adesso, non ci sono per nessuno. La nostra pace immaginaria è un chiudersi; è un atollo di cui difendiamo gelosamente i confini. La pace di cui ha parlato il Papa invece è un essere in cammino: giacché non può smettere di andare, chi cerca il volto di Dio. Né può ignorare i compagni di strada che gli si affiancano; perché anzi avverte l’ansia di dire, a quegli sconosciuti, del Dio che ha incontrato.
Ci ha chiesto, il Papa, se siamo fra gli inquieti, o fra quelli che «si sono accomodati» nella vita cristiana: paghi di ciò che hanno. Una domanda su cui varrebbe la pena ci soffermassimo, se siamo tra quanti hanno sperimentato, nella pace dell’estate, una confusa inquietudine. Come se qualcosa, anche quando all’apparenza non manca niente, cocciutamente mancasse. Come se fossimo fatti per qualcosa di più grande di ciò che stringiamo fra le mani. «Qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo, non è per questo!», dice una poesia di Clemente Rebora; come la riarsa preghiera di un uomo che soppesi ogni cosa, e scuota la testa: no, nemmeno questo è abbastanza.
Ma l’inquietudine nel tempo della pace può essere la spia di una domanda vera. «Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te», scrisse Agostino. Forse dovremmo prendere sul serio questa ipotesi, questo desiderio, di tutti il più censurato, come ci esorta il Papa. Con toni interamente suoi eppure in fedele continuità con Benedetto, che nel “Gesù di Nazaret” diceva che occorre essere come il vir desideriorum del libro di Daniele, che «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande». Rimettersi in cammino, dunque, verso il più profondo dei desideri del cuore. Nella fatica della strada, nella attenzione al compagno, in questa tesa domanda, ci dice Francesco, è la pace. Non quella che ci illudiamo di fabbricarci da noi come un castello illusorio, ma la pace vera. MARINA CORRADI
venerdì 30 agosto 2013
Sulla via di Damasco con gli occhi sbarrati
GUERRA IN SIRIA, NON DORMA LA COSCIENZA
N on è una fatalità. Va detto, ripetuto tra i denti. È il primo rispetto che dobbiamo alle già troppe vittime siriane (rispetto della ragione non solo dell’emozione). Non sono vittime di qualcosa di casuale e incomprensibile, di qualcosa di inevitabile. Cercare di capire le cause e le responsabilità – che non sono (quasi) mai divisibili semplicemente in 'buoni e cattivi' – è la prima forma di rispetto che dobbiamo a chi è vittima di un conflitto armato. Questo va ripetuto mentre il grido stridulo d’uccello di un’altra guerra sta per lacerare l’aria.
Speriamo che lo stormo maledetto non si alzi in volo. Che la guerra inizi (o piuttosto si estenda, divampando) non dipende da nessuno di noi che qui scriviamo e leggiamo. Ci sono Presidenti, Ministri, Organismi internazionali.
Dipende da loro. Speriamo che facciano in modo che l’Orrenda non stenda ancora una volta la sua ala buia sulla regione sacra e tremenda del Medio Oriente. Nel mirino c’è la bellissima e tumultuosa Damasco, dove San Paolo perse per qualche giorno la vista e acquistò per sempre la fede e si rifugiò da Ananìa (c’è ancora quella casa, in cui è cambiata la storia). Terra di luoghi sacri per i cristiani e dove i cristiani soffrono. E di luoghi sacri per altri. La guerra no, non è una fatalità. È comprensibile che il cittadino normale, tornando dalle ferie, si senta abbattuto davanti ai titoli dei tg e dei giornali: ancora guerra. Come se non bastasse la crisi, la fatica quotidiana, la durezza di tutti i giorni. È comprensibile forse che pensi alla guerra come a una maledetta fatalità. Come se non potesse non esserci. Come se, dunque, si potesse rinunciare a capire. Anche se una guerra non è mai facile da capire. Le cause, specie ai contemporanei, appaiono velate e sfuggenti. Ma questo giornale come non molti altri ha in questi mesi e settimane cercato di indagare e spiegare il dissidio siriano, senza pregiudizi e guardando il più attentamente possibile i fatti.
Di certo non appare all’orizzonte nessun 'liberatore' e la popolazione inerme soffre di un conflitto di potere che ha radici vecchie e profonde. Le semplificazioni, come le banalizzazioni, sono un’offesa ai vivi e ai morti. Semplificare la guerra o banalizzarla, pensando appunto che sia una specie di fatalità, una necessità legata agli interessi degli uomini è uno sfregio ulteriore ai già sfregiati nel corpo e nell’anima. Cercare di capire, farsi un giudizio è un modo per rispettare, anche da lontano e senza contentarsi di qualche esibizione sentimentale, la vita e la morte di chi in quella guerra ci è precipitato. La posizione del nostro governo è una indicazione: cercare sempre la pace più che la guerra è il compito, che mai dovrebbe essere ispirato da pavidità e da calcolo, degli organismi internazionali, l’Onu come l’Unione Europea, tanto enfatizzati nei discorsi tanto ripetutamente impotenti nei conflitti. Il mondo è un posto maledettamente complicato. Ma è anche chiaro che quando in un conflitto si superano certe linee – e l’intervento armato esterno è una di queste linee di non ritorno – si imbocca una strada che abbiamo già visto: non si rimedia mai alle stragi con la violenza. Occorre la politica. Rinunciare a cercare di capire significa consegnare il numero già impressionante dei morti a un limbo di coscienza, a un facile sdegno, a una indifferenza della ragione. Damasco per noi cristiani è una patria. Merita la nostra attenzione speciale. Contro la guerra serve la ragione resa più accesa dalla preghiera. Forse non potremo evitare quanto alcuni dei potenti del mondo hanno già deciso, ma potremmo almeno evitare che la nostra coscienza dorma e che la loro non rimorda. La solitudine e l’impotenza che ci attanagliano in frangenti di questo genere è una ferita che ci richiama a quanto sperimentiamo in tanti generi di conflitto. Senza perdono e senza attenzione acuta della comprensione delle cause e degli interessi in gioco (le due cose non sono in opposizione) non si ha convivenza civile.
A chi accende conflitti, a chi li accresce, a chi li usa per finalità di potere, fa comodo un popolo addormentato, che guardi lo svolgersi degli eventi come 'fatalità'.
Noi terremo gli occhi sbarrati, pieni di lacrime per la lunga sofferenza ingiustamente inferta a un popolo, ma anche aperti per comprendere e giudicare. È il primo rispetto che dobbiamo ai fratelli che vivono in quel duro gorgo, in quel fuoco. L’uomo che a Damasco ha trovato l’Amore, e lo ha poi cantato nello stupendo Inno alla carità, suggerisca ai cuori di tutti il punto di vista da cui guardare questo orrore, e se possibile, il punto di vista da cui partire per compiere ogni sforzo per evitare che continui e si allarghi. DAVIDE RONDONI
N on è una fatalità. Va detto, ripetuto tra i denti. È il primo rispetto che dobbiamo alle già troppe vittime siriane (rispetto della ragione non solo dell’emozione). Non sono vittime di qualcosa di casuale e incomprensibile, di qualcosa di inevitabile. Cercare di capire le cause e le responsabilità – che non sono (quasi) mai divisibili semplicemente in 'buoni e cattivi' – è la prima forma di rispetto che dobbiamo a chi è vittima di un conflitto armato. Questo va ripetuto mentre il grido stridulo d’uccello di un’altra guerra sta per lacerare l’aria.
Speriamo che lo stormo maledetto non si alzi in volo. Che la guerra inizi (o piuttosto si estenda, divampando) non dipende da nessuno di noi che qui scriviamo e leggiamo. Ci sono Presidenti, Ministri, Organismi internazionali.
Dipende da loro. Speriamo che facciano in modo che l’Orrenda non stenda ancora una volta la sua ala buia sulla regione sacra e tremenda del Medio Oriente. Nel mirino c’è la bellissima e tumultuosa Damasco, dove San Paolo perse per qualche giorno la vista e acquistò per sempre la fede e si rifugiò da Ananìa (c’è ancora quella casa, in cui è cambiata la storia). Terra di luoghi sacri per i cristiani e dove i cristiani soffrono. E di luoghi sacri per altri. La guerra no, non è una fatalità. È comprensibile che il cittadino normale, tornando dalle ferie, si senta abbattuto davanti ai titoli dei tg e dei giornali: ancora guerra. Come se non bastasse la crisi, la fatica quotidiana, la durezza di tutti i giorni. È comprensibile forse che pensi alla guerra come a una maledetta fatalità. Come se non potesse non esserci. Come se, dunque, si potesse rinunciare a capire. Anche se una guerra non è mai facile da capire. Le cause, specie ai contemporanei, appaiono velate e sfuggenti. Ma questo giornale come non molti altri ha in questi mesi e settimane cercato di indagare e spiegare il dissidio siriano, senza pregiudizi e guardando il più attentamente possibile i fatti.
Di certo non appare all’orizzonte nessun 'liberatore' e la popolazione inerme soffre di un conflitto di potere che ha radici vecchie e profonde. Le semplificazioni, come le banalizzazioni, sono un’offesa ai vivi e ai morti. Semplificare la guerra o banalizzarla, pensando appunto che sia una specie di fatalità, una necessità legata agli interessi degli uomini è uno sfregio ulteriore ai già sfregiati nel corpo e nell’anima. Cercare di capire, farsi un giudizio è un modo per rispettare, anche da lontano e senza contentarsi di qualche esibizione sentimentale, la vita e la morte di chi in quella guerra ci è precipitato. La posizione del nostro governo è una indicazione: cercare sempre la pace più che la guerra è il compito, che mai dovrebbe essere ispirato da pavidità e da calcolo, degli organismi internazionali, l’Onu come l’Unione Europea, tanto enfatizzati nei discorsi tanto ripetutamente impotenti nei conflitti. Il mondo è un posto maledettamente complicato. Ma è anche chiaro che quando in un conflitto si superano certe linee – e l’intervento armato esterno è una di queste linee di non ritorno – si imbocca una strada che abbiamo già visto: non si rimedia mai alle stragi con la violenza. Occorre la politica. Rinunciare a cercare di capire significa consegnare il numero già impressionante dei morti a un limbo di coscienza, a un facile sdegno, a una indifferenza della ragione. Damasco per noi cristiani è una patria. Merita la nostra attenzione speciale. Contro la guerra serve la ragione resa più accesa dalla preghiera. Forse non potremo evitare quanto alcuni dei potenti del mondo hanno già deciso, ma potremmo almeno evitare che la nostra coscienza dorma e che la loro non rimorda. La solitudine e l’impotenza che ci attanagliano in frangenti di questo genere è una ferita che ci richiama a quanto sperimentiamo in tanti generi di conflitto. Senza perdono e senza attenzione acuta della comprensione delle cause e degli interessi in gioco (le due cose non sono in opposizione) non si ha convivenza civile.
A chi accende conflitti, a chi li accresce, a chi li usa per finalità di potere, fa comodo un popolo addormentato, che guardi lo svolgersi degli eventi come 'fatalità'.
Noi terremo gli occhi sbarrati, pieni di lacrime per la lunga sofferenza ingiustamente inferta a un popolo, ma anche aperti per comprendere e giudicare. È il primo rispetto che dobbiamo ai fratelli che vivono in quel duro gorgo, in quel fuoco. L’uomo che a Damasco ha trovato l’Amore, e lo ha poi cantato nello stupendo Inno alla carità, suggerisca ai cuori di tutti il punto di vista da cui guardare questo orrore, e se possibile, il punto di vista da cui partire per compiere ogni sforzo per evitare che continui e si allarghi. DAVIDE RONDONI
domenica 25 agosto 2013
Il Papa all'Angelus: essere cristiani non è un'etichetta, ma testimoniare la fede nella carità e nella giustizia
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© Copyright - Libreria Editrice Vaticana
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Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo
Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo. Il titolo della XXXV edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli che si terrà a Rimini dal 24 al 30 agosto 2014
«L’uomo rimane un mistero, irriducibile a qualsivoglia immagine che di esso si formi nella società e il potere mondano cerchi di imporre. Mistero di libertà e di grazia, di povertà e di grandezza. […] Ecco allora l’emergenza-uomo che il Meeting per l’Amicizia tra i Popoli pone quest’anno al centro della sua riflessione: l’urgenza di restituire l’uomo a se stesso, alla sua altissima dignità, all’unicità e preziosità di ogni esistenza umana».
Il messaggio di papa Francesco ci ha accompagnato lungo tutta la settimana come giudizio sulla situazione drammatica dell’uomo contemporaneo: «Poveri di amore, assetati di verità e giustizia, mendicanti di Dio, come sapientemente il servo di Dio Mons. Luigi Giussani ha sempre sottolineato»; e come indicazione della strada da percorrere: «Restituire l’uomo a se stesso, alla sua altissima dignità, all’unicità e preziosità di ogni esistenza umana dal concepimento fino al termine naturale. Occorre tornare a considerare la sacralità dell’uomo e nello stesso tempo dire con forza che è solo nel rapporto con Dio, cioè nella scoperta e nell’adesione alla propria vocazione, che l’uomo può raggiungere la sua vera statura».
«Penso ai giovani che affollano la grande sala di Rimini e auguro loro di dare il contributo che tutti ci attendiamo dalle generazioni più giovani per una nuova fase di sviluppo in tutti i sensi dell’Italia e
dell’Europa», aveva detto il presidente Napolitano nel ideomessaggio che ha inaugurato il Meeting. E concludeva: «Io credo che l’emergenza che viviamo […] è quella di una grave, grave forma di
impoverimento spirituale, culturale, di motivazioni umane, di motivazioni non legate soltanto all’immediato interesse materiale. Chi può reagire a ciò? Può reagire la cultura, possono reagire certamente le istituzioni più di quanto non facciano. Possono reagire i sistemi educativi, può reagire molto di più di quanto non
faccia il sistema di informazione e possono molto contribuire le grandi organizzazioni sociali comprese quelle ispirate ad una fede religiosa. In questo senso il contributo che viene ai più alti livelli dalla Chiesa
cattolica è un contributo che soltanto dei ciechi possono non vedere».
Tanti che sono venuti al Meeting sono stati colpiti dalla serietà dei contenuti proposti negli oltre 100 incontri, nelle 5 grandi mostre, nelle 7 esposizioni “Uomini all’opera”, oppure nei 23 spettacoli, dall’attenzione di migliaia di persone che non sono venute a Rimini per partecipare a un rito di fine estate, ma per cercare risposta all’urgenza del vivere, alla domanda: come si fa a vivere?
Questi giorni sono stati un’occasione per andare «incontro a tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci!». Le miriadi di incontri pubblici e personali hanno mostrato quanto il Meeting non abbia paura dell’altro e della diversità, qualunque essa sia − religiosa, etnica, culturale, ideologica −, e come il suo scopo
sia quello di incontrare chiunque considerato come un bene per se stessi. Lo documentano le 800.000 presenze in fiera, agli incontri, alle mostre e agli spettacoli: visitatori, relatori e ospiti hanno vissuto il Meeting come se fosse casa propria, in un clima di rispetto reale per ciascuno e non di quella generica e astratta tolleranza che lascia indifferenti gli uni gli altri.
«Chi lo conosce lo frequenta», ha detto un relatore; e un altro ha commentato: «Qui ho fatto un’esperienza nuova, non fermarsi alle difficoltà politiche ed economiche, ma uscire dal bunker, spalancare le finestre per vedere le realtà che si stanno muovendo».
All’inizio del Meeting il Corriere della Sera aveva ricordato le parole di don Carrón del maggio 2012 sull’alternativa tra la vita come testimonianza o come ricerca dell’egemonia, invitando a seguire la settimana riminese perché «la fragile società italiana ha bisogno di soggetti che la aiutino a recuperare i propri valori e a ripartire».
Le persone che hanno partecipato al Meeting possono giudicare se l’esperienza incontrata a Rimini è stata all’altezza di questa sfida della testimonianza. La testimonianza che ci offrono tutti quei cristiani che nel mondo sono perseguitati e uccisi a motivo della loro fede ci ha fatto accogliere il grido di papa Francesco e lanciare un «Appello per i cristiani perseguitati», che in questi giorni ha raccolto decine di migliaia di adesioni − primo firmatario il Presidente del Consiglio Enrico Letta – e che proseguiremo nei prossimi mesi, per proporlo come punto qualificante del programma del prossimo semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea.
Al termine del Meeting torniamo nei nostri Paesi (oltre 70) e nelle nostre città con una consapevolezza maggiore dell’emergenza uomo e col desiderio di offrire la nostra esperienza, sempre correggibile, certi che la strada per una ripresa a tutti i livelli è solo in «un evento reale nella vita dell’uomo» (don Giussani).
Vogliamo continuare a incontrare chiunque, consapevoli che «finché non porteremo Gesù agli uomini avremo fatto per loro sempre troppo poco» e che «l’uomo è la via della Chiesa».
Per questo il titolo del XXXV Meeting per l’amicizia tra i popoli, che si svolgerà a Rimini dal 24 al 30 agosto 2014 è: «Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo».
Il messaggio di papa Francesco ci ha accompagnato lungo tutta la settimana come giudizio sulla situazione drammatica dell’uomo contemporaneo: «Poveri di amore, assetati di verità e giustizia, mendicanti di Dio, come sapientemente il servo di Dio Mons. Luigi Giussani ha sempre sottolineato»; e come indicazione della strada da percorrere: «Restituire l’uomo a se stesso, alla sua altissima dignità, all’unicità e preziosità di ogni esistenza umana dal concepimento fino al termine naturale. Occorre tornare a considerare la sacralità dell’uomo e nello stesso tempo dire con forza che è solo nel rapporto con Dio, cioè nella scoperta e nell’adesione alla propria vocazione, che l’uomo può raggiungere la sua vera statura».
«Penso ai giovani che affollano la grande sala di Rimini e auguro loro di dare il contributo che tutti ci attendiamo dalle generazioni più giovani per una nuova fase di sviluppo in tutti i sensi dell’Italia e
dell’Europa», aveva detto il presidente Napolitano nel ideomessaggio che ha inaugurato il Meeting. E concludeva: «Io credo che l’emergenza che viviamo […] è quella di una grave, grave forma di
impoverimento spirituale, culturale, di motivazioni umane, di motivazioni non legate soltanto all’immediato interesse materiale. Chi può reagire a ciò? Può reagire la cultura, possono reagire certamente le istituzioni più di quanto non facciano. Possono reagire i sistemi educativi, può reagire molto di più di quanto non
faccia il sistema di informazione e possono molto contribuire le grandi organizzazioni sociali comprese quelle ispirate ad una fede religiosa. In questo senso il contributo che viene ai più alti livelli dalla Chiesa
cattolica è un contributo che soltanto dei ciechi possono non vedere».
Tanti che sono venuti al Meeting sono stati colpiti dalla serietà dei contenuti proposti negli oltre 100 incontri, nelle 5 grandi mostre, nelle 7 esposizioni “Uomini all’opera”, oppure nei 23 spettacoli, dall’attenzione di migliaia di persone che non sono venute a Rimini per partecipare a un rito di fine estate, ma per cercare risposta all’urgenza del vivere, alla domanda: come si fa a vivere?
Questi giorni sono stati un’occasione per andare «incontro a tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci!». Le miriadi di incontri pubblici e personali hanno mostrato quanto il Meeting non abbia paura dell’altro e della diversità, qualunque essa sia − religiosa, etnica, culturale, ideologica −, e come il suo scopo
sia quello di incontrare chiunque considerato come un bene per se stessi. Lo documentano le 800.000 presenze in fiera, agli incontri, alle mostre e agli spettacoli: visitatori, relatori e ospiti hanno vissuto il Meeting come se fosse casa propria, in un clima di rispetto reale per ciascuno e non di quella generica e astratta tolleranza che lascia indifferenti gli uni gli altri.
«Chi lo conosce lo frequenta», ha detto un relatore; e un altro ha commentato: «Qui ho fatto un’esperienza nuova, non fermarsi alle difficoltà politiche ed economiche, ma uscire dal bunker, spalancare le finestre per vedere le realtà che si stanno muovendo».
All’inizio del Meeting il Corriere della Sera aveva ricordato le parole di don Carrón del maggio 2012 sull’alternativa tra la vita come testimonianza o come ricerca dell’egemonia, invitando a seguire la settimana riminese perché «la fragile società italiana ha bisogno di soggetti che la aiutino a recuperare i propri valori e a ripartire».
Le persone che hanno partecipato al Meeting possono giudicare se l’esperienza incontrata a Rimini è stata all’altezza di questa sfida della testimonianza. La testimonianza che ci offrono tutti quei cristiani che nel mondo sono perseguitati e uccisi a motivo della loro fede ci ha fatto accogliere il grido di papa Francesco e lanciare un «Appello per i cristiani perseguitati», che in questi giorni ha raccolto decine di migliaia di adesioni − primo firmatario il Presidente del Consiglio Enrico Letta – e che proseguiremo nei prossimi mesi, per proporlo come punto qualificante del programma del prossimo semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea.
Al termine del Meeting torniamo nei nostri Paesi (oltre 70) e nelle nostre città con una consapevolezza maggiore dell’emergenza uomo e col desiderio di offrire la nostra esperienza, sempre correggibile, certi che la strada per una ripresa a tutti i livelli è solo in «un evento reale nella vita dell’uomo» (don Giussani).
Vogliamo continuare a incontrare chiunque, consapevoli che «finché non porteremo Gesù agli uomini avremo fatto per loro sempre troppo poco» e che «l’uomo è la via della Chiesa».
Per questo il titolo del XXXV Meeting per l’amicizia tra i popoli, che si svolgerà a Rimini dal 24 al 30 agosto 2014 è: «Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo».
Francesco, il Papa della semplicità che apre i cuori al linguaggio di Dio
Riscoprire la “grammatica della semplicità”. È uno dei tanti inviti che hanno costellato gli interventi di Papa Francesco durante gli eventi della Gmg di Rio. Se la Chiesa si allontana dalla semplicità, ha affermato, “resta fuori dalla porta del Mistero” e rischia di non farsi capire dal mondo. Ma la semplicità è anche un tratto distintivo della personalità e del magistero di Papa Francesco:
Spogliarsi degli orpelli esteriori, dei sofismi espressivi, perché il vestito di Dio, la lingua di Dio, è la semplicità. Ciò che dall’avvio del Pontificato Papa Francesco sta insegnando ogni giorno col suo esempio alla Chiesa e al singolo cristiano riporta per singolare analogia alla memoria il gesto che anche l’“altro” Francesco aveva compiuto all’inizio della sua missione. Togliersi i vestiti e riconsegnarli al genitore, per il Povero di Assisi aveva avuto il significato di rendere visibile di quale Padre si sentisse davvero figlio e di quali beni volesse vivere. Una rinuncia di povertà che fu guadagno di libertà. La stessa libertà che affascina del comportamento di Papa Francesco e che, anche nel suo caso, è resa manifesta da una sobrietà di vita e da una semplicità di stile divenuti proverbiali in nemmeno quattro mesi di Pontificato. Un ingrediente basilare dell’anima, la semplicità. E anche il sale di un’azione pastorale che sappia scuotere, perché non offre una proposta di fede fredda, ma chiede di aprire la mente al cuore, bussandovi con dolcezza. Il Papa lo ha ribadito pochi giorni fa ai vescovi del Brasile, nella cattedrale di Rio:
“Un’altra lezione che la Chiesa deve ricordare sempre è che non può allontanarsi dalla semplicità, altrimenti disimpara il linguaggio del Mistero e resta fuori dalla porta del Mistero, e, ovviamente, non riesce ad entrare in coloro che pretendono dalla Chiesa quello che non possono darsi da sé, cioè Dio”. (Discorso all’episcopato brasiliano, 27 luglio 2013)
Semplicità è anche normalità. Per i vaticanisti a bordo dell’aereo papale di ritorno da Rio de Janeiro e testimoni della più straordinaria intervista mai rilasciata da un Papa dev’essere stato uno choc toccare con mano di quanta genuina schiettezza e quanta disponibilità immediata e non mediata poteva essere capace un Successore di Pietro. Una sincerità adamantina, quella di Papa Francesco, anche sulle questioni più spinose, che ha spiazzato i cronisti presenti avvezzi all’antico abito mentale per cui le cose vaticane sono difficilmente conoscibili e qualche volta un po’ torbide. Così, la replica sorridente di Papa Francesco al giornalista che gli chiedeva di svelare i segreti della sua valigetta non solo si fa simpaticamente beffe del vecchio pregiudizio, ma diventa una soave lezione sul valore della semplicità:
“Non c’era la chiave della bomba atomica! Mah! La portavo perché sempre ho fatto così: io, quando viaggio, la porto. E dentro, cosa c’è? C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere – ne ho portato uno su Santa Teresina di cui io sono devoto. Io sono andato sempre con la borsa quando viaggio: è normale. Ma dobbiamo essere normali (…) Dobbiamo abituarci ad essere normali. La normalità della vita”. (Intervista sul volo papale, 28 luglio 2013)
Ma forse lo zenit di cosa voglia dire “semplicità”, nella concezione del Papa venuto dall’altra parte del mondo, sta in quel capolavoro di affetto e umanità con cui durante la lunga intervista aerea si riferisce a Benedetto XVI. Una risposta di tale amabile spontaneità – ed era il Papa che parlava del suo rapporto con un Papa emerito al cospetto dei media, cioè dell’incredibile davanti all’inimmaginabile! – da disintegrare in un amen quella ritrosia un po’ sdegnosa che nell’immaginario collettivo viene spesso associata al modo di porsi in pubblico del prelato di rango:
“Lui adesso abita in Vaticano, e alcuni mi dicono: ma come si può fare questo? Due Papi in Vaticano! Ma, non ti ingombra lui? Ma lui non ti fa la rivoluzione contro? Tutte queste cose che dicono, no? Io ho trovato una frase per dire questo: ‘E’ come avere il nonno a casa’, ma il nonno saggio. Quando in una famiglia il nonno è a casa, è venerato, è amato, è ascoltato. Lui è un uomo di una prudenza! Non si immischia. Io gli ho detto tante volte: ‘Santità, lei riceva, faccia la sua vita, venga con noi’. E’ venuto per l’inaugurazione e la benedizione della statua di San Michele. Ecco, quella frase dice tutto. Per me è come avere il nonno a casa: il mio papà”.
(Intervista sul volo papale, 28 luglio 2013)
Ecco come parla un vescovo che non ha la mania del “principe”. È un esempio plastico: perfino con i temuti operatori dei media un Papa può essere semplice, diretto. Umile anche. Ed è in questo tipo di semplicità invocata e dimostrata da Papa Francesco che si coglie un che di profondamente cristiano. Perché in essa il continuo slancio della carità verso le persone – accompagnato da un calore sempre vivo, non importa che la circostanza sia eccellente o banale – non viene mai frenato dai meccanismi del protocollo, non soggiace a codici regali che vogliono passettini e pose austere, secondo quella secolare estetica della distanza che separa il Pontefice dalla gente e che i Papi dal Concilio in poi hanno via via ridimensionato. Con le udienze generali del mercoledì, come nell’ininterrotta apoteosi dei giorni di Copacabana, Papa Francesco il semplice ha ulteriormente eroso metri quadrati – ma che nelle abitudini vaticane valgono chilometri – a questa per lui insopportabile distanza tra sé e il suo popolo. Perché un pastore – va ripetendo – può stare avanti, in mezzo o dietro al suo gregge. Mai più in alto. Dunque, si può dire che la semplicità per Papa Francesco è una questione di spazio. È un luogo fisico, perché “Dio – ha detto – appare negli incroci”. Ed è un luogo dell’anima, cioè l’arena in cui la Chiesa vince o perde la sua partita:
“A volte, perdiamo coloro che non ci capiscono perché abbiamo disimparato la semplicità, importando dal di fuori anche una razionalità aliena alla nostra gente. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile ‘pescare’ Dio nelle acque profonde del suo Mistero”. (Discorso all’episcopato brasiliano, 27 luglio 2013),
Alessandro De Carolis
http://it.radiovaticana.va
Spogliarsi degli orpelli esteriori, dei sofismi espressivi, perché il vestito di Dio, la lingua di Dio, è la semplicità. Ciò che dall’avvio del Pontificato Papa Francesco sta insegnando ogni giorno col suo esempio alla Chiesa e al singolo cristiano riporta per singolare analogia alla memoria il gesto che anche l’“altro” Francesco aveva compiuto all’inizio della sua missione. Togliersi i vestiti e riconsegnarli al genitore, per il Povero di Assisi aveva avuto il significato di rendere visibile di quale Padre si sentisse davvero figlio e di quali beni volesse vivere. Una rinuncia di povertà che fu guadagno di libertà. La stessa libertà che affascina del comportamento di Papa Francesco e che, anche nel suo caso, è resa manifesta da una sobrietà di vita e da una semplicità di stile divenuti proverbiali in nemmeno quattro mesi di Pontificato. Un ingrediente basilare dell’anima, la semplicità. E anche il sale di un’azione pastorale che sappia scuotere, perché non offre una proposta di fede fredda, ma chiede di aprire la mente al cuore, bussandovi con dolcezza. Il Papa lo ha ribadito pochi giorni fa ai vescovi del Brasile, nella cattedrale di Rio:
“Un’altra lezione che la Chiesa deve ricordare sempre è che non può allontanarsi dalla semplicità, altrimenti disimpara il linguaggio del Mistero e resta fuori dalla porta del Mistero, e, ovviamente, non riesce ad entrare in coloro che pretendono dalla Chiesa quello che non possono darsi da sé, cioè Dio”. (Discorso all’episcopato brasiliano, 27 luglio 2013)
Semplicità è anche normalità. Per i vaticanisti a bordo dell’aereo papale di ritorno da Rio de Janeiro e testimoni della più straordinaria intervista mai rilasciata da un Papa dev’essere stato uno choc toccare con mano di quanta genuina schiettezza e quanta disponibilità immediata e non mediata poteva essere capace un Successore di Pietro. Una sincerità adamantina, quella di Papa Francesco, anche sulle questioni più spinose, che ha spiazzato i cronisti presenti avvezzi all’antico abito mentale per cui le cose vaticane sono difficilmente conoscibili e qualche volta un po’ torbide. Così, la replica sorridente di Papa Francesco al giornalista che gli chiedeva di svelare i segreti della sua valigetta non solo si fa simpaticamente beffe del vecchio pregiudizio, ma diventa una soave lezione sul valore della semplicità:
“Non c’era la chiave della bomba atomica! Mah! La portavo perché sempre ho fatto così: io, quando viaggio, la porto. E dentro, cosa c’è? C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere – ne ho portato uno su Santa Teresina di cui io sono devoto. Io sono andato sempre con la borsa quando viaggio: è normale. Ma dobbiamo essere normali (…) Dobbiamo abituarci ad essere normali. La normalità della vita”. (Intervista sul volo papale, 28 luglio 2013)
Ma forse lo zenit di cosa voglia dire “semplicità”, nella concezione del Papa venuto dall’altra parte del mondo, sta in quel capolavoro di affetto e umanità con cui durante la lunga intervista aerea si riferisce a Benedetto XVI. Una risposta di tale amabile spontaneità – ed era il Papa che parlava del suo rapporto con un Papa emerito al cospetto dei media, cioè dell’incredibile davanti all’inimmaginabile! – da disintegrare in un amen quella ritrosia un po’ sdegnosa che nell’immaginario collettivo viene spesso associata al modo di porsi in pubblico del prelato di rango:
“Lui adesso abita in Vaticano, e alcuni mi dicono: ma come si può fare questo? Due Papi in Vaticano! Ma, non ti ingombra lui? Ma lui non ti fa la rivoluzione contro? Tutte queste cose che dicono, no? Io ho trovato una frase per dire questo: ‘E’ come avere il nonno a casa’, ma il nonno saggio. Quando in una famiglia il nonno è a casa, è venerato, è amato, è ascoltato. Lui è un uomo di una prudenza! Non si immischia. Io gli ho detto tante volte: ‘Santità, lei riceva, faccia la sua vita, venga con noi’. E’ venuto per l’inaugurazione e la benedizione della statua di San Michele. Ecco, quella frase dice tutto. Per me è come avere il nonno a casa: il mio papà”.
(Intervista sul volo papale, 28 luglio 2013)
Ecco come parla un vescovo che non ha la mania del “principe”. È un esempio plastico: perfino con i temuti operatori dei media un Papa può essere semplice, diretto. Umile anche. Ed è in questo tipo di semplicità invocata e dimostrata da Papa Francesco che si coglie un che di profondamente cristiano. Perché in essa il continuo slancio della carità verso le persone – accompagnato da un calore sempre vivo, non importa che la circostanza sia eccellente o banale – non viene mai frenato dai meccanismi del protocollo, non soggiace a codici regali che vogliono passettini e pose austere, secondo quella secolare estetica della distanza che separa il Pontefice dalla gente e che i Papi dal Concilio in poi hanno via via ridimensionato. Con le udienze generali del mercoledì, come nell’ininterrotta apoteosi dei giorni di Copacabana, Papa Francesco il semplice ha ulteriormente eroso metri quadrati – ma che nelle abitudini vaticane valgono chilometri – a questa per lui insopportabile distanza tra sé e il suo popolo. Perché un pastore – va ripetendo – può stare avanti, in mezzo o dietro al suo gregge. Mai più in alto. Dunque, si può dire che la semplicità per Papa Francesco è una questione di spazio. È un luogo fisico, perché “Dio – ha detto – appare negli incroci”. Ed è un luogo dell’anima, cioè l’arena in cui la Chiesa vince o perde la sua partita:
“A volte, perdiamo coloro che non ci capiscono perché abbiamo disimparato la semplicità, importando dal di fuori anche una razionalità aliena alla nostra gente. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile ‘pescare’ Dio nelle acque profonde del suo Mistero”. (Discorso all’episcopato brasiliano, 27 luglio 2013),
Alessandro De Carolis
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sabato 17 agosto 2013
Diceva di essere il Figlio di Dio. Gesù raccontato da Davide Rondoni
Non era un intellettuale, né un filosofo. Non era neanche un ideologo. Era conosciuto come un guaritore, una persona buona e misericordiosa che curava e benediva gli storpi, i ciechi, i malati, e resuscitava i morti. Diceva di essere il Figlio di Dio, e questo fece così infuriare le autorità religiose da portarlo in Croce. I primi dodici che lo hanno seguito non avevano nulla di particolarmente straordinario, se non di averlo conosciuto, frequentato, ascoltato, accompagnato. Quell’incontro cambiò la vita a quegli uomini, al punto tale che il racconto di quella amicizia ha dato vita nei secoli alla religione più diffusa al mondo: il cristianesimo.
Partendo dal dato originario, cioè “l’incontro con il Cristo”, Davide Rondoni ha studiato la storia, gli ambienti, le persone che vissero in quel periodo storico cercando di penetrare la vicenda umana dei diversi personaggi di cui parlano i Vangeli. Il risultato di questa ricerca è un libro avvincente e sanguigno: “Gesù - un racconto sempre nuovo” edito da Piemme.
Nella presentazione, che si è svolta il 12 Agosto alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto, l'autore ha spiegato che il suo “è un racconto, non un libro di storia né di teologia”. Sono innumerevoli i libri, i saggi e gli studi su Gesù, e miliardi di persone pensano di conoscere più o meno la storia del Nazareno. Discutendo però con alcuni amici della editrice Piemme, Rondoni ha osservato che, in realtà, pochi conoscono veramente la psicologia, il ruolo politico e religioso, il pensiero, la dimensione umana dei tanti personaggi che popolano i Vangeli. Per questo ha sentito la necessità di raccontare come l’incontro con colui che diceva di essere il figlio di Dio ha cambiato la vita di tutti coloro che lo hanno conosciuto.
Ha chiesto Rondoni: “Chi è Gesù? Cosa vuole il suo sgangherato gruppo di amici che sfida il potere dei sacerdoti e abbraccia la disperazione della gente? Chi è quell'uomo che carezza la fronte degli ammalati, perdona i peccatori e piange per la morte dell'amico?" E "perché faceva arrabbiare quelli che pensavano di conoscere Dio? Perché per il Cristo uno storpio valeva come un re ed una prostituta come una regina?". E ancora: "Come è possibile che un rabbiconsiderato blasfemo dalle autorità religiose venne condannato alla più umiliante e dolorosa delle pene: la crocifissione?".
Fedele alle fonti storiche, il libro scava nella mente e nei cuori di Erode il Grande, di Erode Antipa, della giovane Maria e di Giuseppe, di Giovanni il Battista, degli apostoli: Simone chiamato Pietro, Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Giuda Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, dei sacerdoti Hannah e Caiaphas, di Pilato e sua moglie.
Un attenzione particolare l’autore l’ha rivolta alle figure femminili, siano esse colluse con il potere che preziose alleate e sostenitrici del Nazareno. Nel racconto di Rondoni, anche figure minori come l’indemoniato, trovano spazio e vengono rilette nella logica dell’incontro con il Salvatore. I miracoli di Gesù vengono rivissuti nel dettaglio, così come le parabole e gli insegnamenti pregn di quel parlare tra l’oscuro e il profetico tipico di Gesù.
Gli incontri del Cristo con l'adultera, il paralitico, Lazzaro, o episodi come la moltiplicazione dei pani e i pesci, rivivono in una forma viva e originale. Rondoni riesce a descrivere persone e vicende suscitando e illuminando immagini quasi fosse un film storico. La stessa figura di Gesù viene raccontata nella sua profonda dimensione umana e profetica. Notevoli anche le suggestioni e le ipotesi che Rondoni solleva, come la vicenda dell’apostolo Giovanni, giovane studente che intendeva accedere alla classe sacerdotale, il quale venne conquistato da Gesù, così come Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Curiosa e singolare l’ipotesi di Giuda Escariota che, secondo l'autore, non intendeva tradire Gesù bensì favorire un incontro con la classe sacerdotale per evitare lo scontro frontale.
Davide Rondoni, è poeta e scrittore. Ha fondato e dirige il Centro di Poesia Contemporanea in seno all’Università di Bologna. E’ stato fondatore e direttore della rivista “clanDestino”, è opinionista di “Avvenire” e critico letterario del supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore”. Dal 2006 conduce sull’emittente televisiva TV2000 “Antivirus”, un programma dedicato a poeti e poesia. Ha pubblicato varie raccolte poetiche e testi teatrali messi in scena dalle più affermate compagnie italiane. L’opera che lo ha imposto all’attenzione della critica è “Il bar del tempo” (Guanda, 1999).
Il libro Gesù - un racconto sempre nuovo” è stato presentato nell’ambito dell’iniziativa “Incontri con l’autore” promossa dal Comune di San Benedetto del Tronto, in collaborazione con “La Bibliofila”, “I luoghi della scrittura”, “Leggere 54”, “Circolo Nautico Sambenedettese”, Servizi Italia, Hotel progresso e Hotel Calabresi. http://www.zenit.org
venerdì 16 agosto 2013
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La prodigiosa reliquia di San Rocco
Correva l’anno 1854, il giorno era il 18 settembre. Il «Giornale di Roma», organo ufficiale dello Stato Pontificio, pubblicava l’annuncio di papa Pio IX che ogni fedele romano, durante quei giorni in cui regnava l’angoscia dovuta a un’epidemia di colera diffusasi in città, attendeva con concitazione. L’attesa si placò alla lettura della concessione da parte del Santo Padre di un’indulgenza di sette anni per chi avesse visitato la chiesa di San Rocco, e plenaria per chi l’avesse visitata per sette volte.
Il gesto confortò quelle moltitudini di fedeli che in quei giorni confluivano ininterrottamente all’interno di questa chiesa dalla facciata neoclassica, che si erge elegante innanzi all’Ara Pacis. Nelle settimane precedenti al diffondersi della pestilenza anche a Roma, lo stesso Pio IX aveva urgentemente prescritto che, oltre alle immagini più venerate della Vergine e alle reliquie dei SS. Pietro e Paolo, venisse esposto al pubblico anche «il prodigioso Braccio di San Rocco nella sua chiesa».
La prescrizione papale venne adempiuta rapidamente, ma ancor prima che si procedesse all’esposizione, frotte di romani accalcavano già la scalinata della chiesa, fiduciosi a ché l’intercessione dell’amato Santo arrestasse il protrarsi della pestilenza, già causa di migliaia di morti in poche settimane. Ebbene, la calamità conobbe un sensibile e costante calo sino a cessare completamente, nel dicembre 1854, a pochi giorni dal Santo Natale.
Fu, questa appena descritta, l’ultima occasione in cui la città di Roma conobbe un flagello di pestilenza di tale portata. Ultima ma non unica. Nei secoli precedenti, più e più volte venne invocato l’intervento di San Rocco e del suo miracoloso braccio, conservato nell’omonima chiesa, al fine di impedire il dilagare di pestilenze simili.
Sotto il Pontificato di Clemente VIII (1592-1605), quando la peste rappresentava in tutta Italia un male ormai già noto da qualche secolo, si decise di recare a Roma una reliquia di San Rocco, il «Santo Taumaturgo», per preservare la Città Eterna da immani sciagure. Così, il braccio del Santo venne depositato nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura, il Santo che prima di San Rocco era annoverato tra i principali protettori contro la peste. Appena qualche anno dopo l’arrivo della reliquia in città, venne decretato il trasferimento nella chiesa dedicata a San Rocco, nei pressi del porto di Ripetta. Era proprio questo, del resto, un luogo simbolo in cui la pestilenza andava arrecando contagio, giacché originaria di terre lontane che comunicavano con Roma mediante gli scambi commerciali per mezzo delle navi.
La processione per il trasferimento della reliquia - raccontano le cronache dell’epoca e riportano le testimonianze conservate negli archivi della “Associazione Europea Amici di San Rocco” - si svolse in maniera viepiù solenne e sentita dal popolo. Vi parteciparono colonne di porporati, vescovi e sacerdoti, il Senato romano, confraternite, corporazioni e maestranze, professionisti e scuole, artigiani e un’immensa fiumana di gente semplice, soprattutto pescatori e lavoratori del porto.
Pochi decenni più in là, si attesta alla reliquia di San Rocco il primo prodigio. Era l’anno 1624, un grave contagio di peste mieteva centinaia di vittime al giorno nella città di Palermo e timide avvisaglie lasciavano prevedere che il male potesse diffondersi anche a Roma. Sul soglio di Pietro, in quegli anni sedeva Urbano VIII, descritto come devotissimo di San Rocco. Egli decise di dar vita, partecipandovi intensamente, a delle pubbliche preghiere per ottenere da Dio, per intercessione del «Santo Taumaturgo», la liberazione della Sicilia dal terribile morbo e la preservazione di Roma dal contagio. La Domenica del 18 agosto 1624, Urbano VIII si recò a celebrar Messa nella chiesa di San Rocco, sul cui Altare Maggiore venne sistemata la reliquia del Santo. Non passarono che una manciata di giorni da quell’evento e il minaccioso flagello cessò a Palermo e in tutta l’isola siciliana, e inoltre evitò di approdare sulle sponde del Tevere.
Urbano VIII, dal canto suo, ordinò che dal Magistrato dell’Urbe venisse offerto a San Rocco ogni anno, nel giorno della sua solennità, un calice d’argento e quattro ceri. Ancora oggi, in una parete posta nella navata destra all’ingresso della chiesa di San Rocco, è possibile leggere l’iscrizione, datata luglio 1625, che attesta l’approvazione del Senato Romano.
Prima del colera del 1854, un’altra testimonianza di un’epidemia che si diffuse a Roma risale all’anno 1656. Durante l’estate, una nave proveniente dal porto di Napoli approdò a Nettuno, vicino Roma, lasciandovi nei pressi del porto alcune vesti infette di peste. Si racconta che accidentalmente alcune parti di esse vennero portate in città, così da far dilagare la malattia con furia atroce. In breve tempo perirono a causa sua circa 14.500 persone. L’allora papa Alessandro VII (1655-1667), che si trovava a villeggiare a Castelgandolfo, tornò precipitosamente a Roma per soccorrere i cittadini con urgenti provvedimenti e per ordinare pubbliche preghiere e solenni funzioni in memoria di San Rocco nella chiesa a lui dedicata. Dopo di che, il flagello passò.
Intercessioni miracolose attribuite a San Rocco, in Europa e nel mondo, se ne contano del resto numerosissime. Ciò ha reso il Santo nato nella francese Montpellier uno dei più popolari e venerati in tutto l’orbe cattolico. Malgrado questa popolarità, le notizie sulla sua vita sono poche e frammentarie. Si narra che, vissuto nel secolo XXII, all’età di vent’anni vendette i suoi beni, si affiliò al Terz’ordine francescano e fece voto di recarsi a Roma, per pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo. Fermatosi durante il pellegrinaggio ad Acquapendente, vicino Viterbo, ignorò i consigli della popolazione in fuga dalla peste e decise di prestare servizio nel locale ospedale.
È qui che iniziò la sua santa fama, in tre mesi di attività operò numerosi miracoli nella guarigione degli appestati. Morì il 16 agosto di un anno tra il 1376 e il 1379 a Voghera, dove si trovava imprigionato poiché sospettato dalle autorità comunali di essere una spia. È dalla città lombarda che iniziò a fiorire, subito dopo la sua morte, il culto di San Rocco: amico degli ultimi, degli appestati, dei poveri.
martedì 13 agosto 2013
Il vero 'volere bene' non è ondivago ma viene guidato dalla verità .
UN INSEGNAMENTO DELLA «LUMEN FIDEI» « A moderno sembra […] che la questione ll’uomo dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità»: lo mette in luce un intero paragrafo della Lumen fidei di Papa Francesco, scritta 'a quattro mani' con Benedetto XVI, dal quale recepisce una questione diverse volte sottolineata dal predecessore, perché, in realtà, l’amore «non si può ridurre a un sentimento che va e viene». In effetti, in primo luogo, l’amore ha bisogno di stabilità per costruire rapporti interpersonali profondi, per «perdurare nel tempo, per superare l’istante effimero». Oggi, per contro, vige la logica del consumo delle persone e della rinuncia a progettare per il futuro; nella coppia, in particolare, si cerca una vivibilità fondata solo o quasi solo sull’empatia e/o sull’intensità del sentire, col risultato di fare prove su prove con persone diverse, sfasciando famiglie e provocando enormi sofferenze (quantomeno nei figli), invece che impegnarsi nella costruzione di una vera reciprocità, di una vera comunione profonda. In secondo luogo, l’enciclica richiama il fatto che l’amore non è principalmente un caleidoscopio di emozioni, ancorché possa esserne sovente innervato, non consiste soprattutto nello 'stare bene insieme', nel trasporto emotivo. Come rilevava già Aristotele, esso consiste principalmente nella bene-volenza. Del resto, dire a qualcuno 'ti voglio bene' equivale a dirgli 'io voglio il tuo bene', 'il tuo bene è la mia premura', desidero realizzarlo e favorirlo. Anche se mio figlio mi disgusta per ciò che ha fatto (per esempio perché ha assassinato qualcuno), anche se provo repulsione verso di lui, nondimeno io lo amo se voglio, desidero e cerco il suo bene, il suo riscatto, la sua redenzione... Se nell’amore non cerco come obiettivo prioritario di accendermi e ri-accendermi di emozioni, se con la volontà mi prefiggo piuttosto il bene dell’altro, posso essere in grado di spostare il mio baricentro vitale da me all’amata\o: allora l’amore stesso è foriero di conoscenza e di verità sull’altro. Invece di focalizzarmi sulle mie emozioni, posso comunionalmente realizzare l’immedesimazione con l’altra persona: così mi è possibile l’ intus legere, il conoscere dal di dentro. L’enciclica al riguardo cita Gregorio Magno che diceva che « amor ipse notitia est », l’amore stesso è una conoscenza. Riconnettere l’amore alla verità e alla conoscenza vuol dire, allora, andar oltre l’emozionalismo delle odierne fragilissime relazioni interpersonali, non ridurlo ad emozione – che pur è assai preziosa nella vita –, non seguire la mera regola del 'va dove ti porta il cuore'. Vuol dire, ancora, guardarsi da certe forme di falso amore: per esempio, l’uccisione eutanasica viene non di rado presentata in questi termini, e viene da qualcuno, anche in buona fede, realizzata per questo motivo. Bisogna perciò che la verità dell’incommensurabile preziosità dell’essere umano indirizzi l’amore verso la protezione, l’accudimento, la com-passione per l’umano, in qualsiasi condizione si trovi. D’altra parte, come dice l’enciclica, «anche la verità ha bisogno dell’amore», altrimenti diventa fredda, impersonale, asettica, e l’uomo che la professa si rende insensibile e talvolta perfino arrogante. Del resto, alla radice di tutto, amore e conoscenza sono sinergicamente uniti in Colui che è insieme Amore e Ragione: l’uomo deve prefiggersi la caritas in veritate (per dirla col titolo dell’ultima enciclica di Benedetto XVI) se vuol essere fedele alla sua natura di imago Dei. GIACOMO SAMEK LODOVICI |
venerdì 9 agosto 2013
La fede è «sguardo»
LA «LUMEN FIDEI» E QUELLA PAROLA CHE RICORRE BEN 16 VOLTE
Il secolo XX e il brano di anni che seguono hanno conosciuto due sbandate culturali: la prima è la concezione dell’aggregarsi umano in senso massivo che ha avuto la reazione critica di tanti intellettuali, fra i quali Simone Weil, Hannah Arendt, Edith Stein; la seconda è il progressivo rattrappirsi dell’idea di uomo dentro le strettoie dell’individualismo, contro cui ha esercitato la sua severa analisi Benedetto XVI. Il magistero cattolico, da parte sua, ha invece coniugato comunione e singolarità. Anche la Lumen fidei compie tale sintesi fra queste due genialità cristiane. Papa Bergoglio accentua il rapporto singolarità- fede (cfr. nn. 14, 22, 25, 34, 39), ricordando che la perdita della singolarità è uno dei pericoli cristiani (cfr. Karl Rahner, Pericoli nel cattolicesimo d’oggi, Roma 1961). Francesco, in modo marcato, mostra però il filo forte che lega fede e dimensione ecclesiale (cfr. nn. 12-14, 22, 37-49). La Lumen fidei afferma: «L’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale » (n. 22). I cristiani non possono dire 'io credo' e finirla qui. Veramente, nulla può dirsi solo al singolare nel cristianesimo, neppure 'io spero' e 'io amo'. Il Papa sottolinea: «I cristiani sono 'uno' (Gal 3,28), senza perdere la loro individualità, e nel servizio agli altri ognuno guadagna fino in fondo il proprio essere» (n. 22). L’ecclesialità la si vede spesso come un alcunché di aggiunto, quasi una forma decorativa sia rispetto al cristianesimo (si ricordi la pretesa più volte avanzata di un cristianesimo a-ecclesiale, contro cui papa Bergoglio ha fatto sentire il suo disappunto), sia rispetto alla fede. E ora ribadisce: «La fede ha una forma necessariamente ecclesiale » (n. 22). La fede si diffonde da comunità a comunità cristiana. Si tratta di una traditio lampadis, per usare una parola di Comenio. «La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi» (n. 37).
Un pedagogista, Carl Rogers, insegnava che i valori si trasmettono per 'congruenza', per contagio, proprio come dice Bergoglio per la fede: «La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma » (n. 37). In concreto, s’espande con i sacramenti, specie col battesimo (cfr. nn. 41-43), con la preghiera e la vita morale (cfr. n. 40).
Originale è la Lumen fidei quando, in contesto di fede, parla di 'sguardo', parola che vi ricorre sedici volte. Fra l’altro, il Papa parla di fede e amore che permettono lo «sguardo del futuro» (n. 4), del fatto che all’interno dell’esperienza di fede, «nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi» (n. 14). Inoltre afferma che «nell’ora della Croce [è situato] il momento culminante dello sguardo di fede» (n.
16); definisce «la fede [...] come un cammino dello sguardo» (n. 30) e, infine, asserisce: «Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, […] irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà» (n. 47).
Uno dei bei lasciti della Lumen fidei è proprio il modo con cui Francesco vi modula il tema dello sguardo di fede. È una sua vera prospettiva pastorale.
Nell’Omelia nel Santuario di Aparecida ha esortato: «Abbiamo uno sguardo positivo sulla realtà» (Mercoledì, 24 luglio 2013). Egli chiede di avere uno sguardo prospettico nei confronti dell’uomo contemporaneo: si tratta d’imparare l’arte di vederlo nel suo mondo aggiungendo alle due dimensioni piatte (l’orizzontale e la verticale) una terza, quella della 'profondità'. La prospettiva è una rivoluzione che è avvenuta nella pittura da oltre cinque secoli, ma la Lumen fidei ci chiede di adottarla oggi nella missione e nella pastorale. MICHELE GIULIO MASCIARELLI
giovedì 8 agosto 2013
Al centro, l’amore . 20.mo della "Veritatis Splendor"
VENT’ANNI FA VENIVA PUBBLICATA L’ENCICLICA «VERITATIS SPLENDOR»
Vent’anni fa, nei primi giorni di agosto, venne pubblicata l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, dedicata ad alcune questioni fondamentali dell’insegnamento etico della Chiesa: per esempio, il rapporto tra verità e libertà, la legge morale naturale, la coscienza morale, l’esistenza di atti sempre malvagi (a prescindere dalle loro eventuali conseguenze positive). Un testo da leggere e rileggere. Qui, ci soffermiamo solo su un tema centrale dell’enciclica: l’affermazione di una morale positiva e affermativa. Nonostante un’insistita caricatura secondo la quale l’etica cristiana sarebbe una morale del «no» e dei divieti, la concezione morale cristiana è infatti incentrata sul primato del «sì» e dell’amore, rispetto a cui i «no» sono secondari e derivati. Un tema su cui c’è profonda continuità tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco, che si già espresso con chiarezza l’8 e il 16 giugno scorsi. Per la Veritatis splendor i comandamenti devono essere intesi «come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore». La vita morale, infatti, è «risposta dovuta alle iniziative gratuite che l’amore di Dio moltiplica nei confronti dell’uomo. È una risposta d’amore». Similmente, per Papa Francesco «i Dieci Comandamenti sono Comandamenti d’Amore», essi «non sono un inno al 'no'», bensì «un inno al 'sì' a Dio, all’Amore, alla vita». E «poiché io dico di 'sì' all’Amore, dico 'no' al non Amore, ma il 'no' è una conseguenza di quel 'sì' che viene da Dio e ci fa amare». Al fondo di questa impostazione «amorecentrica» dell’etica cristiana c’è l’affermazione evangelica, secondo la quale l’amore a Dio, a sé e al prossimo è la sorgente e insieme lo scopo di tutte le leggi morali: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore […] e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Invece, come accennato, molte sintesi e ricostruzioni riducono il magistero morale della Chiesa esclusivamente ad alcuni divieti, senza tener presente che essi sono la conseguenza del comandamento dell’amore, di un amore che dice un grande «sì» a Dio e all’uomo. Infatti, se amo il prossimo non lo devo calunniare, né derubare, né assassinare, eccetera. Non devo fargli del male in nessun momento della sua vita: da quando è concepito alla sua morte naturale. Come dice san Paolo: «Il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L`amore non fa nessun male al prossimo» (Rm 1, 13, 8-10). Insomma, tornando all’enciclica, i precetti «sono al servizio della pratica dell’amore»: per fare due esempi di Papa Wojtyla, il comandamento «non uccidere» diventa «l’appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo» e il precetto che vieta l’adulterio «diventa l’invito a uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo». Così vissuta, la morale cristiana è in grado di dare motivazioni incisive e slancio al soggetto che la segue, dato che tutto ciò che facciamo per amore lo svolgiamo con meno fatica o, meglio ancora, lo facciamo volentieri. Infine, «è Gesù stesso il 'compimento' vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé»: infatti, «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). | |||
domenica 4 agosto 2013
"Le Gmg non sono fuochi d'artificio ma tappe di un lungo cammino"
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sabato 3 agosto 2013
In pellegrinaggio per imparare cosa sostiene l’esistenza
IL CAMMINO A PIEDI DA CRACOVIA A CZESTOCHOWA
JULIÁN CARRÓN il messaggio inviato da Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e liberazione, ai 1.100 giovani del movimento che nei prossimi giorni parteciperanno al pellegrinaggio a piedi da Cracovia a Czestochowa. C arissimi, il pellegrinaggio è per chiedere la fede, perché questa è la cosa più urgente ora. Per la natura del gesto, siete facilitati a cogliere questa urgenza, perché – essendo lungo e impegnativo – si passa attraverso momenti (come nella vita quotidiana) in cui emerge più facilmente la consapevolezza di tutto il nostro bisogno, del bisogno che tutti abbiamo. E questo non verrà a galla perché facciamo un discorso o diamo una spiegazione, ma attraverso la strada, le circostanze: la stanchezza, le difficoltà, la solitudine (nel senso vero del termine: sentire la propria impotenza, che è segno di ogni esperienza umana vera, dice don Giussani). Proprio dall’esperienza che farete lungo il cammino sorgerà la coscienza del vostro bisogno e la domanda: «Che cosa avvertiamo di più necessario, se non il bisogno che una presenza ci accompagni lungo la strada della vita?». Questo dovete chiedere: che la Sua presenza si manifesti in modo così potente che possiate riconoscerla, perché la fede – don Giussani ce lo ha sempre insegnato – è il riconoscimento di una Presenza presente. Come ci ha detto Papa Francesco il 18 maggio a Roma, «l’importante è Gesù e lasciarsi guidare da Lui». Siete fortunati, perché da mattina a sera potrete abbandonarvi a Colui che segnerà i passi da seguire. Se tornaste a casa da Czestochowa avendo sperimentato la fede come una esperienza presente, come il riconoscimento della Sua presenza presente, sarebbe il dono più grande per continuare a vivere. Non vedo una urgenza più decisiva di questa per ciascuno di voi, perché la sperimento innanzitutto in me. Certo, prima di partire uno vorrebbe avere alcune sicurezze. E pur avendo preparato tutto bene ma non essendo sicuro di che cosa lo aspetta, si lascia afferrare da qualche paura. Come educarci a vincere queste paure che molte volte sono senza fondamento? Ricordatevi che non andate da soli a Czestochowa, ma insieme. E questa è già una iniziale risposta, ma – come vedrete col passare dei giorni – questo non vi risparmierà le sfide né le difficoltà, ma sarà proprio attraverso le sfide e le difficoltà che potrete sperimentare la sorpresa di Cristo presente, compagnia alla vostra vita, e vedere che non c’è alcuna circostanza in cui Cristo non si possa manifestare. Questo è decisivo per vincere la paura, perché non la si supera restando nella propria stanzetta, senza rischiare nella realtà. Come ci ha sempre detto don Giussani, la vita come vocazione è un camminare al destino attraverso le circostanze, che sono parte della modalità attraverso cui il Mistero si rivela. Il popolo di Israele ha acquistato questa certezza in mezzo a tutte le paure e le vicissitudini, attraverso le circostanze, come i discepoli, come la Chiesa, come ciascuno di noi. Le paure non si vincono restando fuori dalla mischia, ma attraversandola. Non potrai rinviare il pellegrinaggio a domani perché sei stanco e mancano ancora trenta chilometri, non ti è consentito distrarti facendo altro, perché devi pur camminare, non puoi sederti. È questo 'l’attraverso'! Perciò devi costantemente darti le ragioni per cui vai avanti. Questo è il valore pedagogico di un gesto come il pellegrinaggio, che fate liberamente, non è imposto o subìto (come una malattia o gli esami universitari). Il pellegrinaggio è per imparare che cos’è la vita e chi è Cristo che ci accompagna in questa avventura. Vi auguro che questo venga fuori nell’esperienza che farete, altrimenti Cristo potrebbe rimanere come «il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima» (G. Leopardi). Dovete tornare più certi di ciò che vi ha messo in cammino e darcene testimonianza. La vita è un camminare verso la meta. Tanto è vero che la Bibbia parla dell’homo viator, l’uomo che va lungo la via. La questione è che questo diventi sempre più cosciente, perché – dice don Giussani – «la vita si esprime […] innanzitutto come coscienza di rapporto con chi l’ha fatta»: tu sei rapporto con Chi ti fa adesso, questo fa parte della dimensione del tuo vivere. «La preghiera è accorgersi che in 'questo' momento la vita è 'fatta'. […] La preghiera, così, non è un gesto a parte, ma realizza la prima dimensione di ogni azione' (di ogni azione!). Mentre camminate, nelle ore della vostra giornata, 'l’atto di preghiera sarà necessario per allenarci a tale coscienza di ogni azione. Per questo, il più alto vertice della preghiera non è l’estasi, ciò una coscienza del fondo tale che uno smarrisce il senso del solito; ma piuttosto vedere il fondo come si vedono le cose solite» (All’origine della pretesa cristiana, pp. 113-114). L’uomo per natura è un viator e noi siamo sempre nello status viatoris, siamo sempre 'camminanti', è una dimensione del vivere. Ma possiamo vivere camminanti distratti o camminanti coscienti: non per il fatto che siamo camminanti, non per il fatto che io e te riceviamo costantemente la vita, per ciò stesso siamo anche coscienti che la riceviamo! È questa consapevolezza che ci fa dare spazio alla preghiera, a questo atto che facilita la nostra presa di coscienza, non per chiudere la partita (come a dire: «Adesso ho fatto il mio atto buono di preghiera e posso passare ad altro, dimenticandomi»), ma perché questo diventi sempre di più la dimensione di ogni azione. Tra le intenzioni che porterete alla Madonna Nera, vi chiedo di metterne una per il Movimento, perché è il luogo che Cristo ci ha dato per accompagnarci e poiché ci interessa trovare sempre compagni di strada che ci aiutino a questo, perché questo è il Movimento. E poi 'portate' con voi anche me, a cui don Giussani ha chiesto questa responsabilità: che io possa aiutare il Movimento a essere il luogo di un’esperienza presente. «Sarà attraverso le sfide e le difficoltà che potrete sperimentare la sorpresa di Cristo presente, compagnia alla vostra vita, e vedere che non c’è alcuna circostanza in cui Cristo non si possa manifestare»» | |||
venerdì 2 agosto 2013
La distanza colmata .COSÌ BERGOGLIO CI INVITA A SUPERARE LA FRONTIERA RICCHI-POVERI
Capita, a chi viaggia per lavoro e spesso ai giornalisti, di conoscere Paesi lontani non come li vedono i turisti, ma davvero. Certa Africa, certo Est, certa America Latina: posti in cui, come valichi i quartieri dei grandi alberghi, ti si para davanti una miseria che nemmeno sapresti immaginare, finché non la vedi con i tuoi occhi. E se poi hai occasione di fermarti qualche giorno nelle città dove i bambini ai semafori si arrampicano ai finestrini delle auto chiedendo la carità, o dove le madri elemosinano con tre o quattro figli attaccati alla gonna, se prendi atto insomma di quale mole di miseria prema alla frontiera – o alla barriera – del 'primo mondo', quando ritorni e atterri a Roma o a Milano, per giorni ti guardi attorno stranito: tanto aspro è il salto, dall’al di là all’al di qua del confine. E riconosci per la prima volta tutto ciò che abbiamo; e perfino il pane, perfino l’acqua che scende dal rubinetto ti meraviglia, e ti pare un regalo.
Insomma: da certi viaggi capita, a noi è capitato, di tornare e avere la sensazione che, nell’urto con un’altra realtà, si sia come spostato l’asse dell’Occidente, attorno a cui abbiamo sempre gravitato.
Per qualche giorno resti in uno smarrimento: confronti la vita dei tuoi figli e quella dei figli di laggiù, con imbarazzo.
Chi è credente è ancora più turbato dal tacito status quo per cui è normale che un bambino, in certi Paesi, viva di carità ed espedienti, o muoia di fame. Poi, si sa, dopo qualche giorno ci si riabitua al proprio mondo, alle sue garanzie e ai suoi diritti – e ci si indigna, magari, se ti chiedono di lavorare, d’ora in poi, qualche anno in più.
Il silenzioso scandalo cui è esposto chi traversa l’invisibile frontiera che passa per Lampedusa, o per il Messico, o tra l’Asia e l’Europa – là dove i due mondi sono più geograficamente vicini – è destinato a farsi più evidente con l’elezione di questo Papa che viene, l’ha detto lui, «quasi dalla fine del mondo». Un Papa che è stato prete callejero,
cioè uso ad andare per strada, uno dunque che non ha sulla realtà lo sguardo dell’Occidente: che, per quanto caritatevole possa essere, è sempre lo sguardo nostro, di noi cresciuti al di qua.
Il prete che Francesco è stato sa bene invece come le guardano, certe sontuose auto blu, se per sbaglio finiscono in un quartiere diseredato del Sudamerica. Sa come le fissano i ragazzini, e con che occhi, come non automobili fossero, ma astronavi di un’altra galassia; e sa quale silenziosa profonda distanza si interpone tra la gente e chi si presenta su berline perfino più grandi di certe baracche.
Di modo che, visto dall’altra parte del mondo, salire su una piccola Fiat e abbassare i vetri dei finestrini è stato semplicemente il primo modo per dire che il Papa veniva a farsi prossimo all’ultimo dei poveri. Era già un parlare la lingua dell’«altro» mondo.
Quegli stessi gesti di semplicità hanno al contempo suscitato un certo disorientamento tra alcuni cattolici di area tradizionalista, e perfino forse tra quelli che potremmo chiamare cattolici occidentali 'normali', abituati a vivere la fede come un tranquillo, e a volte sedentario, fatto privato e, magari, di quando in quando, ritualmente rivendicativo. Qualcuno ha interpretato le scelte di Francesco come 'pauperismo', o – utilizzando categorie ormai superate – come un fare 'di sinistra'. Ma forse qualcosa sfugge, e questo qualcosa sta anche nella distanza geografica e politica ed economica da cui proviene Jorge Mario Bergoglio. Il Papa che arriva dalla fine del mondo conosce altri codici, e li parla come una lingua materna (e forse, a ogni viaggio a Roma, misurava fra sé le distanze fra i diversi universi).
Allora, dentro e fuori i palazzi vaticani, Francesco sceglie un modo di vivere il più possibile semplice, perché troppo tagliente e viva è la coscienza dell’'altro' pianeta, per poterla ignorare. O, anche, perché sa che per capire i poveri occorre vivere il più possibile come loro, e quasi imparare da loro; e ci si guadagna, magari, in libertà spirituale.
Forse questa coscienza, che Francesco ci porta da lontano, potrà spingere noi, i popoli della sazietà e dei 'diritti', a spostare almeno di poco l’asse attorno a cui gravitiamo? È presto per dirlo. Ma non è escluso che la foto di Francesco sulla Fiat Idea a Rio resti a segnare, fra degli anni, il momento in cui il primo dei mondi si è chinato sull’altro – cercando di capire, e balbettando un’altra lingua, un altro sguardo. MARINA CORRADI
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