domenica 16 settembre 2012
Quando sono debole è allora che sono forte
Dio è avvenimento. Non è un’idea mia, un’astrazione lontana. Egli accade nell’incontro con le persone che mi mette a fianco, perché scatti la scintilla dell’incontro con Lui. L’inizio della novità è l’incontro con un altro, o con altri, che mi portano l’annuncio e il segno della sua presenza.
Tale inizio matura poi in una vita con le persone che più mi sono vicine e che più mi ricordano Cristo. Questo ricordo di lui, questa memoria, questa sua presenza, è fatta di gioia e di dolore, è fatta di vicinanza e di distanza, di corrispondenza e di incomprensione. Entrambe le strade portano realmente a Dio nella misura in cui noi le abbracciamo. Nella gioia può nascere la dimenticanza e nel dolore la disperazione. Ma, all’opposto, gioia e dolore diventano strade di compimento della nostra vita se le abbracciamo vivendo la gioia come anticipo della vita definitiva, come dono della sua resurrezione e il dolore come partecipazione alla sua croce e richiesta di cambiamento dello sguardo sull’altro, del giudizio sull’altro.
La presenza degli altri, sia nei loro doni sia nei loro limiti, sia nelle loro grandezze sia nelle debolezze, diventa occasione di pienezza già nel presente, diventa la via per andare a Dio, per riconoscere il suo mistero presente nella vita, per abbracciare la verità.
L’altro è diverso da me, di una diversità che nasce dal fatto che la comunione non è un’uniformità, ma è fatta di tanti colori, di una pluralità di volti e di sfumature. Non c’è un volto uguale a un altro, non c’è un’impronta uguale a un’altra. Questi aspetti superficiali della nostra diversità, che talvolta ci fanno soffrire, in realtà ci introducono nell’infinitudine di Dio. Non c’è un fiore uguale a un altro, un filo d’erba uguale a un altro. Accettando la diversità dell’altro comincio a fare l’esperienza positiva che la vita è sempre nuova perché Dio è infinito. Egli, attraverso l’incontro con gli altri, attraverso la realtà inattesa dell’attimo che accade, attraverso la sorpresa che suscita continuamente nella vita, arricchisce il mio cammino verso di Lui e il mio canto di lode per la sua infinita novità.
E così grazie alla diversità dell’altro entro nell’esperienza della ricchezza di Dio. Certamente la diversità a volte è un ostacolo, causa fatica e talvolta è ragione di incomprensione. Eppure, tutte queste strade, al fondo, se accettate, ci conducono a scoprire qualcosa che ancora non stiamo vivendo.
La ricchezza di Dio è una ricchezza misteriosa. L’aspetto più sconvolgente della sua ricchezza è che per Dio la vita include anche la morte, il bene include il sacrificio, e la fatica. Arrivare alla resurrezione significa passare attraverso la croce: ma l’ultima parola non è la diversità dell’altro come disagio o alterità, ma l’unità come ricchezza di forma e di colore.
Oggi c’è parecchia confusione su un aspetto particolare della ricchezza di Dio. La sua debolezza. Dio non è debole, è forte. Ma Dio si è fatto debole, per raccogliere l’uomo nella sua debolezza, per scendere al nostro livello, per comunicarci la sua forza. San Paolo dice che da ricco che era si è fatto povero, per renderci ricchi con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). Dio si è fatto debole per prendere su di sé la nostra debolezza e comunicarci la sua forza.
Oggi assistiamo a un’apologia della debolezza che è molto dannosa, la cui massima espressione è il cosiddetto “pensiero debole”. Ma Dio è forte e vuole comunicarci la sua forza. E la sua misericordia è segno della sua forza, che sa comprendere ogni distanza e ogni lontananza, ogni esperienza di debolezza. Come dice san Paolo: quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10). Perché la mia forza non sono io, ma è Cristo.
La mia debolezza fa strada alla forza di Dio. È per questo che Dio sceglie i deboli: per confondere i forti, perché i forti sono pieni della loro forza e non sentono il bisogno di aprirsi a Dio. Ed è questa la ragione per cui Dio sceglie i bambini, che non hanno una sapienza propria, evoluta, erudita. Sono ricchi soltanto delle parole che hanno sentito direttamente da Dio attraverso i loro genitori e i loro amici. E in questo modo essi, non avendo altre parole oltre quelle ascoltate, sono forti della forza di Dio.
http://www.sancarlo.org/it/?p=5737 di Massimo Camisasca ·
Il vero realismo. La preghiera non si perde
Non sembrerebbe un momento granché propizio, questo, per una visita del Papa in Libano. Benedetto XVI parte nel momento in cui dal Mediterraneo, dal Nord Africa al Medio Oriente, si alzano nuove vampate di incendio. L’immagine del cadavere straziato dell’ambasciatore americano in Libia è un cupo monito a chi sperava un nuovo corso in quel Paese. E poi le tensioni in Egitto; e a Nord del Libano, la Siria dei massacri; a Sud, Israele, così piccolo sulla carta geografica tra i colossi arabi, così perennemente inquieto; e ancora, a Est, lontana eppure vicina, l’oscura minaccia dell’Iran. Il Papa parte. Come, con cosa nel cuore, per un viaggio così?
Il testo della Udienza di mercoledì scorso, dedicato alla preghiera nel libro dell’Apocalisse, suona singolarmente vicino a quel può avere nell’anima un cristiano pellegrino per tormentati Paesi. La strada per saper leggere i fatti della storia, ha esordito il Papa, è «il rapporto costante con Cristo». Solo in questo rapporto – che è poi la preghiera – impariamo a vedere le cose in modo nuovo. Cristo «guida a una lettura più profonda della storia»: e lo fa anzitutto invitandoci a «considerare con realismo il presente».
Già questa annotazione devia parecchio da ciò che noi, semplici cristiani, abitualmente facciamo. Per riuscire a vivere tendiamo a non voler vedere la realtà com’è, appena fuori dal fragile recinto del nostro Primo Mondo – e spesso anche dentro, magari sulla soglia di casa. Se un tg diligentemente ci raccontasse ogni sera di tutte le violenze, persecuzioni, carestie che tormentano il pianeta, non lo tollereremmo. Per vivere abbiamo bisogno di non sapere, di non vedere ogni cosa; giacché messi a davanti alla opaca mole di dolore e male che ogni giorno opprime l’umanità, la maggior parte di noi sarebbe disperata (a volte non sembra quasi che per poter vivere occorra illudersi?).
Invece secondo Benedetto XVI proprio dal rapporto con Cristo viene la spinta a uno sguardo realista. Ma come si fa a tenere questo sguardo? Chi scrive tornò, anni fa, da un viaggio per gli orfanotrofi di un Paese dell’Est, annientata dalla quantità di dolore incontrata. Soli in sé stessi, guardare e reggere il male e il dolore è impossibile. Eppure «come cristiani siamo chiamati a non perdere mai la speranza, a credere fermamente che l’apparente onnipotenza del Male si scontra con la vera onnipotenza, che è quella di Dio
Occorre dunque credere davvero nella Croce, e nella pietra di sepolcro divelta – in Cristo risorto. Non però in uno sforzo eroico della volontà. Invece, dice il Papa, è proprio la preghiera che alimenta in noi «questa visione di profonda speranza». La speranza dunque nasce nel rapporto con Cristo; come quando un padre prende un bambino per mano, e quello lo segue anche per una strada buia, dove da solo non andrebbe mai.
In virtù di questo rapporto con Cristo, «come cristiani non possiamo mai essere pessimisti»; nella certezza di un padre che conduce la storia, per i suoi tormentati e straziati sentieri, verso un destino misterioso ma buono. Pregare, dunque – questa attività agli occhi del mondo così immateriale, così astratta, inutile – come vertice del realismo. Pregare, e come? Nella fatica, nella povertà, di quale preghiera saremo capaci, se non monca, o zoppa? Ma «tutte le nostre preghiere», ha assicurato Benedetto «vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Non esistono preghiere inutili; nessuna va perduta».
Nessuna preghiera che apra almeno uno spiraglio a Cristo, va perduta. E in questa certezza sovrana il successore di Pietro, a 85 anni, parte, pellegrino in una regione sofferente sotto a mali opprimenti, sotto a una violenza cieca. Quasi implicitamente chiedendo, per questa missione fra uomini a noi estranei, da noi lontani, preghiere. Povere, magari; o balbettanti. Quel che sappiamo fare. Non importa: nessuna, dice il Papa, andrà perduta.
Marina Corradi
venerdì 7 settembre 2012
Cl e il cardinale, due voci, un solo pezzo di umanità ferita
La morte di un uomo di Dio, non solo un ecclesiastico, ma proprio di uno spirito evidentemente religioso, è sempre l’occasione per ricordare quanto possa essere decisivo il rapporto con il Mistero. E martedì mattina la lettera del presidente della Fraternità di Cl, Julián Carrón, ha come arricchito questa opportunità. Sulla morte del cardinale Carlo Maria Martini, per 22 anni guida della Diocesi di Milano, gesuita e grande studioso della Bibbia, si sono infatti scritti fiumi di parole. Come spesso accade in Italia, essa è diventata a volte un pretesto per strumentalizzare, dividere, persino per denigrare la Chiesa cosiddetta "arretrata", contrapponendola ad una presunta “Chiesa illuminata”, rispolverando l’immagine distorta di un “anti Papa” milanese, così lontano e diverso da Roma.
Carrón invece con la sua lettera al Corriere ha tagliato di netto il nodo di questa (un po’ odiosa e ingiusta) polemica. Ribaltando la prospettiva, che nella geopolitica ecclesiastica avrebbe visto sempre Cl da una parte e l'arcivescovo di Milano, appena scomparso, dall’altra. C’è qualcosa di geniale e necessario, anche per tutti noi, in questo cambiamento di atteggiamento. E forse anche di profetico. È giusto forse allora entrare meglio nella logica della lettera. Quando infatti Carrón ricorda il cuore dell’insegnamento martiniano, cita la Resurrezione, “il momento culminante” della vita di Gesù. Personalmente devo proprio ad un piccolo libretto di Martini sulla Sindone di Torino (intitolato “Il Dio nascosto”) la messa a fuoco, semplice e profonda, della discrezione con cui Gesù Cristo risorge, quasi tornando a riprendersi quel corpo umano, che il rifiuto violento degli uomini gli aveva negato fino allo strazio della Croce. Ecco perché non esisterà mai una prova schiacciante, scientifica e definitiva della Resurrezione. Toccherà per sempre ogni giorno, ad ogni essere umano, decidere se credere o no. Il Dio onnipotente non si è imposto, come pure avrebbe potuto, ma ha voluto proporsi all’uomo, conquistando la sua libertà.
L’ecumenismo di Martini, la sua capacità di dialogo coi non credenti, coi lontani, nasce da qui. Da una grandissima fede nella Resurrezione e insieme nella libertà umana. Quella “tensione del Cardinale a intercettare ogni briciolo di verità che si trova in chiunque incontriamo” è il primo punto che il presidente di Cl ricorda. Don Giussani a volte raccontava l’episodio dell’incontro casuale su un aereo diretto in Brasile col grande filosofo Jean Paul Sartre. Sartre, visto che gli avevano assegnato il posto nel velivolo vicino a don Giussani, riconoscendo il colletto di quel giovane prete sconosciuto, aveva chiesto di sedersi da un’altra parte. “A me invece”, raccontava il Gius, “sarebbe piaciuto molto conoscerlo e parlargli e questo dice oggettivamente qual è la posizione umana migliore…”.
Il secondo punto ricordato dalla testimonianza di Carrón è la carità: “Dobbiamo fare”, ha scritto “tesoro di questo desiderio di intercettare questo bisogno degli uomini che l’Arcivescovo incontrava lungo il cammino della vita”. La dimensione dell’azione umana evocata non come un progetto, una pretesa, una “lezione”. “La nostra epoca ha bisogno di testimoni più che di maestri”, ha ricordato citando Paolo VI. Gli uomini di oggi non hanno bisogno di egemonia ma di presenza. Chi non è testimone non è neanche vero maestro. Chi non è dentro un disegno, propone se stesso. Usiamo pure la parola un po’ consunta “servizio”: chi non è al servizio del Mistero può anche costruire e agire ma lo farà, volente o nolente, fatalmente per conto del Potere, magari pensando di farlo per se stesso.
Martini era “un uomo di Dio” e anche come tale, prima di lasciare il suo lungo incarico ambrosiano, aveva affrontato la questione dei rapporti coi Movimenti e le associazioni laicali: “Chiedo perdono ai gruppi, alle associazioni, ai movimenti che si fossero sentiti poco valorizzati o sostenuti da me. Ho sempre goduto di fronte a testimonianze autentiche di vangelo vissuto, dovunque si trovassero, ma ho avuto anche difficoltà nel comprendere alcune logiche che mi sembravano particolaristiche e autoreferenziali”, aveva scritto in una lettera pastorale. Per poi aggiungere: “Come Vescovo ho sentito una istintiva preferenza per la centralità della pastorale diocesana e parrocchiale”. E infine: “affido alla misericordia di Dio la maturazione dei semi di bene lanciati nel dialogo che mi pare avere sempre cercato”.
Le parole scritte ieri da Carrón sul Corriere sembrano in qualche modo allora “rispondere” nel dialogo “sempre cercato” fra Martini e Cl: “Ci rincresce e ci addolora”, ha scritto il presidente della Fraternità, “se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso”. Un “dialogo” commovente che, semmai ce ne fosse ancora bisogno, ci fa stupire. La Chiesa è quel pezzo di umanità (e anche di santità) che fra mille peccati e nefandezze resta un luogo privilegiato di Grazia.
Viene da dire: Grazie Signore che costruisci la tua Chiesa anche attraverso il nostro nulla, le nostre povere e a volte meschine diatribe, attraverso grandi testimoni, “uomini di Dio”, che hanno lasciato il segno nelle nostre vite. Come il cardinal Carlo Maria Martini.
di Alessandro Banfi - http://www.ilsussidiario.net
libera la Chiesa dall'equivoco della politica
La scomparsa del Cardinale Martini – una figura ascetica e autorevole nella doppia e non divergente fedeltà a Dio e all’uomo, nella sua capacità di dialogo e di accoglienza – ha stimolato riflessioni e commenti, esami di coscienza e testimonianze, che, a loro volta, hanno animato dibattiti, talora pertinenti e adeguati. Anche questa è l’eredità di una grande anima, che ha servito la Chiesa e ha affrontato seriamente i problemi dell’ora presente: sarebbe bello che non la lasciassimo disperdere, travolti dalle false urgenze imposteci dai vortici della cronaca.
I pensieri, di gratitudine e di memoria, che Don Juliàn Carron ha confidato alle pagine del Corriere della sera, ci aiutano a sviluppare alcune considerazioni e provocano a domande che non dovrebbero trovare risposta solo in analisi intellettuali e concettuali, ma potrebbero muovere a un’esperienza vissuta, in quanto uomini e in quanto cristiani. Di Martini si ricorda la capacità di valorizzare tutto il bene e il vero presente in chi si incontra, affinché mai si corra il rischio che qualcosa di positivo vada perduto o che qualcuno non sia raggiunto dallo sguardo che comprende e dall’abbraccio che accoglie. Si apprezza l’urgenza, avvertita sin dagli inizi del suo ministero milanese, di incontrare il bisogno degli uomini, gli ultimi e i reietti, per offrire a tutti il dono della speranza e richiamare tutti alla possibilità della salvezza e di un riscatto. E, con grande onestà, ci si rammarica di non aver forse colto tutte le occasioni di collaborazione, pur non avendo mai fatto mancare l’obbedienza al Vescovo.
Naturalmente queste parole hanno suscitato e susciteranno dibattiti e polemiche sulle diverse anime presenti nella Chiesa e in essa confliggenti, che sarebbero ormai arrivate a determinare un punto di rottura così radicale da mettere forse in pericolo la stessa unità sostanziale della comunione ecclesiale. Credo che un’impostazione di questo tipo, pur ponendo una questione essenziale ed invitando a una chiarificazione opportuna, non sia adeguata a comprendere quella realtà viva e complessa, ma del tutto peculiare, che è la Chiesa. Essendo un organismo, essa è fatta di molte parti, di membra diverse con funzioni e doni, carismi e sensibilità differenti, destinati però a interagire e collaborare all’unità dell’insieme, giacché solo in questa unità ciascuno può pienamente realizzarsi e vivere. Ma anche il paragone con un organismo vivente, analogicamente assai adeguato, può trarre in inganno se si dimentica che pur sempre di un “corpo mistico” si tratta. Un’analisi sviluppata solo con categorie naturali o in una prospettiva meramente politica è riduttiva e fuorviante. La dialettica politica implica un rapporto tra forze, che reciprocamente si escludono e che nel conflitto e attraverso esso pervengono a una sintesi superiore, la quale, come tale, supera e oltrepassa le componenti opposte (è l’immane potenza del negativo, di hegeliana memoria!). E questo superamento, che il conflitto genera, urge a un esito finale che assorbe e annulla le singole parti, nella loro individualità.
Se si interpreta la vita della Chiesa in questi termini, la si snatura, in quanto la si riduce a qualcosa di altro da quello che essa è, o è chiamata ad essere. Nella Chiesa le diverse sensibilità, la varietà dei carismi non si collocano in un rapporto dialettico di forze, ma in una logica di comunione, in cui ciascuno porta un contributo prezioso e insostituibile, che, mentre afferma e realizza se stesso, deve tendere all’unità sinfonica, non monotona, alla reciproca integrazione complementare. In questa tensione unitiva i singoli individui e gruppi non annullano se stessi, smarrendo le loro peculiarità e i loro carismi, perché solo in essa possono farli crescere e rendere fecondi. Il movimento, che qui si determina, ancorché apparentemente affine, è assai diverso rispetto alla dialettica precedentemente ricordata. Qui ognuno deve vivere con intensità totale il proprio carisma e dare il proprio contributo, nella consapevolezza che è unico e irripetibile (come lo è ogni persona umana), ma insieme sa anche di essere un servo inutile e che solo nell’accogliente apertura agli altri egli può fiorire.
Sembra un paradosso: quanto più sono me stesso, tanto più sono capace di accogliere, e viceversa. La logica dell’opposizione viene superata nella logica dell’amore. E questa non è facile: la carnalità e fisicità delle nostre presenze ci rende spesso orgogliosi, spigolosi e scontrosi, invita alla frammentazione, suscita e stimola a contrapposizioni, che non valorizzano il positivo, ovunque esso sia, ma si appagano solo della critica distruttiva. Il compito che il cristiano ha di fronte non solo è difficile, ma sarebbe letteralmente impossibile, se fosse affidato alle sole forze umane e se non giungesse come dono di grazia. L’amore, che lo Spirito suscita nella Chiesa, aiuta a valorizzare i vari carismi nella loro pluralità, che la tensione all’unità esalta e completa. In questo cammino, che è storico – e, come tale, comporta cadute, arretramenti, soste, avanzamenti repentini e inattesi – , ai pastori, cioè ai vescovi in comunione con il Papa, compete la missione di confermare nella fede, cioè di fare sintesi vissuta (e non solo teoricamente affermata) in dimensione orizzontale, diacronica e sincronica, e, soprattutto, in dimensione verticale, guardando a Cristo, che del Corpo mistico è il Capo. E anche una tale sintesi, una tale comunione vissuta accade nella storia e implica complessità; non è un automatismo meccanico, ma ha i tempi, le cadenze, le difficoltà, le gioie e le sorprese della vita. Per questo occorre pregare perché il Signore assista i pastori in un compito che, allo sguardo umano, apparirebbe impossibile o, peggio, si risolverebbe esclusivamente in mediazioni politiche.
Come ricordava Benedetto XVI nella bella omelia, tenuta, lo scorso 2 settembre, al ristretto circolo dei suoi ex-allievi, non abbiamo la verità come nostro possesso, ma siamo dalla verità afferrati: essa ci possiede come qualcosa di vivente. La saggezza, data al cristiano da Dio, non è frutto della genialità umana, ma dono e regalo: ricordando questo, si prova “la gioia umile di Israele”, che rifugge sia dal trionfalismo arrogante, sia dalla deriva della frammentazione autoreferenziale.
Michele Lenoci
http://www.ilsussidiario.net/
martedì 4 settembre 2012
Carròn: «Sono addolorato, potevamo collaborare di più» «Ci spiace di non aver sempre trovato il modo adeguato di partecipare alla sua ardua missione»
Caro direttore,
la morte del cardinale Martini mi consente di riflettere su alcune parole-chiave della sua vita e sul rapporto con don Giussani e col movimento di Comunione e liberazione. La mia vuole essere una semplice testimonianza.
Ecumenismo. La sua capacità di entrare in rapporto con tutti testimonia la tensione del cardinale a intercettare ogni briciolo di verità che si trova in chiunque incontriamo. Chi ha incontrato Cristo non può non avere questa passione ecumenica. Mi ha colpito come il cardinale rispondeva a chi gli domandava quale considerava il momento culminante della vita di Gesù (il discorso della montagna o l'ultima cena o la preghiera nell'orto degli ulivi): «No. Il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena». È la certezza che introduce la resurrezione di Cristo che spalanca lo sguardo del cristiano.
L'antico termine oikumene sottolinea che lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c'è in tutto ciò che si incontra, come ricordava don Giussani: «L'ecumenismo non è allora una tolleranza generica, ma è un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque. Nulla è escluso di questo sguardo positivo. Se c'è un millesimo di verità in una cosa, lo affermo». Solo una tensione così può generare una vera pace fra gli uomini, anche questa una preoccupazione costante del cardinale Martini.
Carità come condivisione dei bisogni. Noi dobbiamo fare tesoro di questo desiderio di intercettare il bisogno degli uomini che l'Arcivescovo incontrava lungo il cammino della vita. La Chiesa non può essere mai indifferente alle domande e ai bisogni degli uomini. Queste domande, che sono le nostre, sono una sfida per noi credenti, perché solo così ci rendiamo conto se abbiamo qualcosa nella nostra esperienza da comunicare a chi ci chiede ragione della nostra speranza. Questo è il vantaggio del tempo presente per noi credenti: non è sufficiente la ripetizione formale delle verità della fede, come ci ricorda continuamente Benedetto XVI. Gli uomini attendono da noi la comunicazione della nostra esperienza, non un discorso astratto, sia pure corretto e pulito. Come ci richiamò Paolo VI: la nostra epoca ha bisogno di testimoni, più che di maestri. Solo il testimone può essere maestro. Sono sicuro che il cardinale Martini, dal Cielo, ci accompagnerà a condividere i bisogni degli uomini e a trovare strade per risponderne che siano all'altezza delle loro domande.
Quanto al rapporto con Cl, don Giussani ci parlava sempre della paternità del cardinale Martini, che aveva abbracciato e accettato nella diocesi di Milano una realtà come Cl. Nel suo cuore di pastore sempre c'è stato spazio per noi. Ricordo la gratitudine di don Giussani quando l'Arcivescovo gli concesse di aprire una cappella in uno dei locali della sede centrale del movimento a Milano, così da avere il Signore presente sempre.
E come l'arcivescovo Montini, che inizialmente confessava di non capire il metodo di don Giussani ma ne vedeva i frutti, anche il cardinale Martini ci incoraggiava ad andare avanti. Mi commuovono ancora le parole che rivolse a don Giussani nel 1995, durante un incontro di sacerdoti, quando ringraziò «il Signore che ha dato a monsignor Giussani questo dono di riesprimere continuamente il nucleo del cristianesimo. "Ecco, tu, ogni volta che parli, ritorni sempre a questo nucleo, che è l'Incarnazione, e - con mille modi diversi - lo riproponi"».
Per questo ci rincresce e ci addolora se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso. Un rapporto che non è mai venuto meno all'obbedienza al Vescovo a qualunque costo, come ci ha sempre testimoniato don Giussani.
Sono sicuro che, insieme a don Giussani, ci accompagnerà dal Cielo a diventare sempre di più quello per cui lo Spirito ha suscitato proprio nella Chiesa ambrosiana un carisma come quello di Cl. La morte del cardinale Martini e di don Giussani costituiscono un richiamo per tutti noi che, nella varietà di sensibilità, abbiamo a cuore la Chiesa ambrosiana. Mi auguro che non ci stanchiamo mai di cercare quella collaborazione che è indispensabile - soprattutto oggi - per la missione della Chiesa, così come ne parlava il cardinale nel 1991: «La "novità" della cosiddetta "nuova evangelizzazione" non va cercata in nuove tecniche di annuncio, ma innanzitutto nel ritrovato entusiasmo di sentirsi credenti e nella fiducia dell'azione dello Spirito Santo», così da «evangelizzare per contagio... da persona a persona».
JULIÁN CARRÓN
presidente della Fraternità di Cl 4 settembre 2012 | 10:41
Ma che ne sapete voi dell’amore «Non ti amo perché è giusto» |
I rotocalchi, le tv, i libri (con cinquanta sfumature o mille) parlano d’amore. Fan bene. Lo han sempre fatto anche i cristiani. È ora che ricomincino a farlo. Non si può non fare. Perché l’amore è forte come la morte, come dice il Cantico dei Cantici. Spiazza e attrae tutti. Non ha misura. In Romagna, dove il Cantico dei Cantici non è certo la lettura più diffusa, si usava però la stessa parola, “trasporto”, per indicare l’innamoramento e il funerale. In entrambi i casi sei portato da qualcosa a cui non ti puoi opporre. Per questo l’amore – come la morte – non è giusto. Non sta in nessuna giustizia che non sia una strana giustizia “ingiusta” secondo le misure umane. Siamo tutti amati “ingiustamente”. Per fortuna. Quale bacio, abbraccio, quale perdono e quale “ti amo” meritiamo? Che razza d’amore sarebbe quello che non riesce a essere un po’ ingiusto… Lo dice la splendida Violaine. personaggio chiave de L’Annuncio a Maria, capolavoro di Paul Claudel, ignorato in Italia se non fosse per le letture che ne ha mosso don Luigi Giussani. Violaine, il personaggio in cui il poeta adombra la sua amata e sfortunata sorella, la gran scultrice Camille, a un certo punto dice al suo fidanzato Giacomo: «Io non ti amo perché è giusto». Verso dinamitardo. Da scrivere sugli stipiti delle porte di ogni genere di casa, di famiglia o convento, di don Giovanni o di consacrati. Cent’anni fa mentre a Parigi veniva rappresentato per la prima volta L’Annuncio, uno strano personaggio, figlio di gente ombrosa, tentato dal suicidio e però definito da Oscar Wilde “poetry itself”, la poesia stessa, dava alle stampe un dramma teatrale. Oscar Vladislas Milosz scrive la vera storia del personaggio che ha ispirato la figura di don Giovanni, il nobiluomo di Siviglia Miguel Mañara. Colui che nel 1619, dopo aver collezionato un catalogo di ogni tipo di femmina (per abbracciare le infinite possibilità, dice), sposa Girolama. Anche nel destino di don Giovanni amore e morte si incontrano, come nel Cantico dei Cantici. Due cose ingiuste e ugualmente forti. Da comprendere e vivere veramente fino in fondo nella loro “ingiustizia”.
I mormoratori naturalmente oppongono a questa idea il fatto che l’amore vero corregge, cerca di condurre a giustizia, alla misura giusta le cose. Non è così. La vita è un continuo debordare nostro dalla giustizia, e tali debordamenti sono da correggere, sì, ma amando. Forse è giusta l’esuberanza erotica di un diciassettenne, forse è giusto l’invecchiamento che tutti assale? O la ritrosia della bella ragazza? Tutto giusto e ingiusto insieme, una misura con una dismisura dentro. Non si capisce bene, perciò occorre parlarne di continuo.
«Possiamo soltanto amare/ il resto non conta/ non funziona». I poeti ne parlano sempre, anche per chi non ne ha più voglia, non si azzarda, o crede che non ci sia più niente da dire. Ma l’amore, finché lo si vive, mobilita parole. Siamo la patria della canzone d’amore. Non abbiamo mai preso troppo sul serio quelli che pensano che il diavolo abbia la minigonna. Mio nonno a ottantatré anni inventava soprannomi per mia nonna. Non era stato di certo un marito perfetto. Aveva una concezione romagnola del matrimonio (che è durato 65 anni, fino alla morte). Ma inventava nomi per lei.
Nessuno come il cristiano sa d’amore che impasta i destini, gli attimi di uomini e donne con paradisi e inferni. Così mentre settimanali e rotocalchi ne parlano in modo superficiale e soprattutto d’estate per riempire vuoti e pascersi lettori annoiati con storielle e gossip, ecco che Tempi, settimanale catto-corsaro, e d’ora in poi catto-amoroso, chiede a me di parlarne, mentre le ferie finiscono e riprende la vita di tutti i giorni. Perché la vita di tutti i giorni senza amore inaridisce. Del resto, i grandi autori (cristiani) hanno sempre parlato d’amore. Quindi lo posso far anch’io, il minimo. Dante non scrive mica la Commedia perché voleva lasciarci un malloppone sintetico sulla cultura e sull’universo medievale. Ma perché ha incontrato Beatrice. E capisce che in quella esperienza si sintetizza il grande dibattito e il grande dramma d’esperienza dei teologi del secolo precedente e dei poeti. Gli uni discutevano se si conosce Dio amandolo, gli altri inventano la grande poesia provenzale e stilnovista cantando un oggetto “imprendibile” come Dio (le dame sono sempre sposate o d’altri), amando il quale l’uomo si nobilita e si conosce. Dante compie la sintesi: amando Beatrice, che sua non è, e che gli viene sottratta dalla morte, arriva a conoscere Dio, la stoffa dell’Essere.
Senza voler insegnare niente
Dire “ti amo” non significa dire sei mio o mia. Pochi come il cristiano Baudelaire, che dedicava poesie come a una principessa alla sua prostituta mulatta Jeanne, sono penetrati nel dramma misterioso dell’amore. E non è il cattolico Manzoni il primo grande autore italiano di telenovela (lui, lei, l’altro che la vuole…) mettendo in scena il dramma di Renzo, Lucia e don Rodrigo? Sia Dante che Manzoni san bene, senza bisogno di fare letteratura banale, i legami misteriosi tra corpo, amore, tra desiderio sessuale e legame. Tra corpo e anima amanti. Il cattolico Ungaretti scrive tra le più belle poesie d’amore e di desiderio. E il filosofo accademico di Francia Jean-Luc Marion sta da tempo riflettendo sulla conoscenza erotica.
Certo, rispetto al fuoco della poesia, spesso gli uomini di Chiesa hanno parlato dell’amore – tranne rare eccezioni tra cui Wojtyla e il Papa in carica – in modo banale, spesso untuoso e complessato. È ora di voltare pagina. Senza voler insegnare niente, se non quello che tutti, in fondo, sappiamo. Ci state?
Davide Rondoni
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