venerdì 13 gennaio 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 11 gennaio 2012


Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo XIV, Rizzoli, Milano 2010, pp. 185-195.
• Parsifal (Canzone dell’ideale)
• Mandulinata a Napule
Gloria
Buon anno a tutti! E che cosa c’è di meglio per incominciare l’anno che questo capitolo de Il senso religioso! Perché non c’è un altro capitolo così vertiginoso, possiamo dire, cioè che esprime così bene lo «struggimento» (è la parola che usa don Giussani) della ragione di poter conoscere l’incognito. Lo stesso struggimento che abbiamo appena percepito in questo canto napoletano, la tensione a «entrare nel mistero che sottende l’apparenza». Questo è quello che sentivano Ulisse e i
compagni. Ma questa posizione è una pazzia per la “saggezza” della mentalità comune. E allora ciascuno di noi si trova davanti a questa lotta tra l’umano (cioè il senso religioso) e il disumano(cioè la posizione positivista). Ed è la lotta che ciascuno di noi vive in ogni momento nel suo rapporto con la realtà: vivere le colonne d’Ercole come un confine o come un invito. Questo è il dramma della vita.


Quando ho letto questo capitolo ho provato un’enorme sproporzione. Mi dicevo: la natura del mio umano è quella di andare oltre, ma sarà proprio vero? Continuavo a rileggerlo, ma questa domanda continuava a rimanermi dentro, e alla fine l’avevo un po’ chiusa dicendomi che secondo me io non sono fatta così. Poi sono partita per le vacanze, è venuta a trovarmi una mia amica affrontando il viaggio con la neve, ed era tutta contenta; la sera è andata a letto e mi ha mandato un messaggio bellissimo che diceva: «Ma chi è che mi vuole così bene per essere accolta così?». E
io le ho risposto: «E io ti invidio», spiegandole poi, il giorno dopo, perché. Era andata oltre, come dice questo capitolo. Poi ho incontrato una signora che mi dà una mano a fare le pulizie; mi raccontava di essere stata a Venezia con la figlia (che non aveva mai visto il mare), e quest’ultima è scoppiata a piangere dicendo: «Ma che bello questo mare; ma che cos’è che è così immenso?». E allora è stato un altro contraccolpo, perché mi sono detta: anche in lei (che non è cristiana) l’umano è andato oltre, quindi è vera questa cosa che il don Gius ci ha detto, che il nostro umano è fatto per andare oltre. Allora mi sono accorta che c’è qualcosa che blocca il mio umano ad andare oltre. Ho vissuto quindici giorni in vacanza in cui mi sono resa conto che, se fossi andata oltre, non sarebbero stati un lamento o solo una fatica. Voglio capire se c’è qualcosa che blocca questa mia natura dell’umano.
C’è qualcosa che blocca. Infatti, anche se uno a volte non si sente di andare oltre – e lo giustifica dicendo: «Non sono fatto così» –, la realtà rilancia la questione mettendogli davanti delle persone che con una semplicità disarmante documentano e testimoniano che non è così, che non si può chiudere la partita così in fretta. E si apre la domanda: perché in noi sentiamo questo blocco? La nostra amica non sta dicendo qualcosa di cui non abbiamo esperienza: quello che lei ha il coraggio
di dire davanti a tutti è quello che noi, a volte, non abbiamo il coraggio di confessare neanche a noi stessi! Allora che cosa ci blocca, pur avendo a disposizione un capitolo così, una proposta così, noi tutti quanti che abbiamo incontrato Cristo? È questo il dramma; non stiamo parlando solo degli uomini prima di Cristo, stiamo parlando di noi che sperimentiamo questo dramma. Per questo è giustissima la domanda che ci fa lei, perché ci mette davanti a una questione che dobbiamo affrontare, perché è il nostro dramma. Non pensiamo di essere immuni dal positivismo solo perché lo sappiamo definire! Non basta per liberarsene. Infatti, come vediamo, poi ci sorprendiamo nella realtà di esserci immersi fino al collo in questo positivismo, per cui la realtà, invece di un invito, è semplicemente un confine che ci blocca. Lasciamo aperta la questione.
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Questo capitolo de Il senso religioso è forse il mio capitolo preferito; mi ha sempre affascinato, anche esteticamente, forse anche per il riferimento iniziale all’Ulisse di Dante che mi ha sempre colpito. In questo tempo in cui tu ce lo hai dato come compito, io l’ho riletto tante volte, e mi ha fatto impressione il fatto che ero d’accordo, anche entusiasticamente, ma non vedevo “spostamenti” in me, e mi ero anche un po’ preoccupata per questo. Poi l’altro ieri, partecipando a una riunione con te, a un certo punto ti ho posto un problema su una situazione su cui avevo un certo giudizio, e tu mi hai detto – rispetto al fatto che io ero intervenuta dicendo: «Mi sembra che questo sia giusto, mi sembra che questo sia sbagliato» –: «No, guarda, devi andare da quella persona e porle questa domanda: “Ma di che cosa è esigenza questo vostro problema?”». Io sono rimasta molto colpita da questa tua osservazione, perché ho sentito questo quattordicesimo capitolo non più come un discorso, ma come un movimento rispetto al vivere, tanto che poi il giorno dopo l’ho riletto sull’onda dello spostamento di posizione che aveva posto la tua
osservazione, e ho cominciato a entrarci. Mi è sembrato di capire questo: che il mio Mediterraneo è continuare a definire che «questo è giusto e questo è sbagliato» (in fondo, mi muovo sempre così),mentre è una presenza che ti fa risentire che tu sei Ulisse. E non varchi le colonne d’Ercole del Mediterraneo solo perché parli dell’Oceano, ma perché l’Oceano presente ti fa risentire la totalità
della tua esigenza. L’osservazione che tu mi hai suggerito di porre a quella persona è un’osservazione che io ho sentito posta a me: era Cristo presente che mi faceva risentire, come ci hai detto nell’articolo su L’Osservatore Romano a Natale, l’ampiezza dell’esigenza che ho (e che io riduco sempre). E così d’improvviso quel capitolo non descriveva più quello che io dovrei essere, ma quello che sono. Mi ha fatto impressione che ieri pomeriggio, parlando con un amico a cui
voglio molto bene e a cui ho detto tante volte quello che è giusto fare, mi sono ritrovata a dirgli: «Ma di che cosa è esigenza questo tuo muoverti?», immediatamente riusando, senza quasi accorgermene, la stessa frase che tu avevi detto a me lunedì, sentendo in me e in lui questo struggimento che detta ogni nostra mossa, sia quelle giuste sia quelle sbagliate. Oppure mi ha fatto
impressione che questa mattina a scuola – sto trattando il nazismo – ho fatto una lezione sui giovani tedeschi della “Rosa Bianca”, sfidando i miei alunni a partire da questa esigenza di totalità; non avevo pensato di farla perché avevo già giudicato che questi non avrebbero capito, e sono rimasta invece colpitissima dal fatto che siccome tu mi avevi reso di nuovo “Ulisse”, io li guardavo da Ulisse.

Qual è il nostro positivismo? Che noi cerchiamo di chiudere la partita, definendo quello che è giusto e quello che non lo è. Non è questa la posizione esistenziale che mette la vertigine nella vita, perché la legge antropologica, dice questo capitolo, è rimanere sospeso a una volontà che non conosco. E questo, scrive don Giussani a pagina 189, è l’unico atteggiamento ragionevole, razionale: «La vera legge morale [quella che esprime al meglio che cosa siamo] sarebbe quella di essere sospesi al cenno di questo ignoto “signore”, attenti ai segni di una volontà che ci apparirebbe attraverso la pura, immediata circostanza. Ripeto [insiste!]: l’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno». Ma noi pensiamo che questo “signore” sia matto! Pensiamo che noi siamo la misura di quello che questo “signore”, se fosse intelligente come noi, dovrebbe fare! E, siccome continuamente ci provoca a qualcosa che noi non capiamo, che ci porta oltre, oltre, oltre in una modalità che a noi sembra assolutamente irragionevole, noi pensiamo che questo essere sospesi così sia la pazzia più grande che si possa dare. Invece Giussani prosegue: «Dir “sì” a ogni istante [...] semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni. È una posizione vertiginosa», questa è la vera natura dell’uomo religioso. Ma chi può vivere così? Forse per qualche momento, ma poi decadiamo. Mi scrive una persona raccontandomi come sta vivendo una certa circostanza:

«Parto da un fatto successo il primo di settembre di quest’anno. Una cara amica prossima al matrimonio, di una intelligenza e una sensibilità rare, è stata colpita da una emorragia cerebrale. Ha lottato tra la vita e la morte per circa due mesi. Questo fatto mi ha travolto per l’amicizia con lei e la sua famiglia, ma anche per professione essendo io dottore. Sono passata attraverso varie fasi. Prima ho
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cercato di eludere l’urgenza delle domande che l’imponenza di questo fatto suscitava, occupandomi degli aspetti medici e organizzativi: ho messo a disposizione la casa, ho tenuto le fila delle questioni mediche eccetera. Andavo in rianimazione facendo fatica a reggere il suo sguardo vuoto o quello pieno di domande dei suoi familiari, e scappavo con la scusa di andare a vedere le lastre o altri esami; insomma, evitavo l’urto dedicandomi ad attività “socialmente utili”. Ma non ho retto molto
perché le cose precipitavano e la domanda di senso che questo fatto misterioso suscitava non riusciva più a essere soffocata dalla “distrazione” dell’attività di medico. E allora è iniziato un dialogo acceso con il Mistero, un dialogo senza tregua. Ho accettato, o forse sono stata costretta a lasciarmi ferire. La percezione della vibrazione dell’essere è diventata il tessuto della mia giornata come mai lo è stato prima. Ho anche sperimentato che la vita, vissuta come percezione continua e
viva del Mistero, si riaccende. Mi sono appassionata di più al valore del mio lavoro, al destino dei miei figli, di mio marito, degli amici; le cose bruciavano di più, è vero, ma così è tutto più intenso.
Però – inizio con i però – ho sperimentato che questo non basta. La persistenza in questa posizione vertiginosa, che peraltro è quasi impossibile mantenere a lungo, alla fine mi portava a un sentimento di ribellione contro questo essere senza nome e senza volto. Ho iniziato a sentire il bisogno urgente di qualcosa che mi dicesse: “Donna non piangere!”, e fosse tenero e convincente nel dirmelo; ho iniziato a sentire il bisogno di qualcuno che mi proponesse una strada concreta, senza nulla togliere alla percezione del Mistero, ma che al tempo stesso mi facesse assaporare la bellezza del Suo essersi piegato sulle nostre vite. Nel momento in cui lo desideravo, forse prima, è accaduto [ha avuto alcune persone che l’hanno accompagnata in questa situazione]. Se non ci fosse stato qualcuno che si è piegato su di me dicendomi: “Donna non piangere”, io sinceramente della
percezione vivissima di un Mistero senza volto non me ne sarei fatta alcunché. Questi fatti non mi hanno tolto il senso del Mistero, che di fronte alla mia amica martoriata nel corpo e nella mente rimane più vivido che mai. Quando sono venuta alla Giornata d’inizio anno, in cui per due ore consecutive hai parlato della vibrazione dell’essere, ho sentito il tuo richiamo come monco di significato, mi sembrava ultimamente triste e senza respiro. Davanti alla vita così drammatica ho
pensato: ma perché Carrón continua a parlare solo di questo rapporto del singolo con il Mistero e non ci introduce, se non tangenzialmente, all’ipotesi di risposta? Che senso ha questo metodo? Sembra che il vertice di tutto sia scoprire il rapporto con Uno senza volto che fa la realtà. Ma questo non basta a me, come non basta ai miei pazienti e agli amici che soffrono, saremmo solo disperati; se questo Dio senza volto che fa tutte le cose non fosse venuto in terra facendosi compagno e
trapassando il dolore, come quello della mia amica o come il mio, la realtà non avrebbe senso e non potrebbe in qualche modo essere positiva. So che sto esagerando e che il 26 gennaio non hai detto questo, ma sinceramente mi sembra che l’insistenza su questi aspetti abbia prestato il fianco a certe deviazioni irragionevoli come – si potrebbe dire così – se ci fosse una contrapposizione tra Cristo e la ragione. La realtà può essere molto bella, ma anche drammatica e dolorosa se non sono vinta dal
cinismo dilagante e riesco a conservare una posizione pura (cosa già di per sé assai difficile se si è da soli), al massimo arrivo a percepire l’esistenza di Qualcuno senza volto che fa questa realtà, ma poi cadrei mille volte non potendo sostenere questa vertigine, alla fine frustrata e disillusa come tutti. Allora continuare a creare questa contrapposizione tra la percezione del Mistero, l’inesorabile
positività del reale, e il bisogno innegabile della Rivelazione è assurdo. Eppure su questa dicotomia inutile la nostra comunità si sta spaccando. Mi sembra che ci sia proposto come modello un rapporto protestante con un Dio senza volto che alla fine prende i contorni di ciò che mi fa più comodo o, peggio, di una proiezione malata del mio pensiero».

Ciascuno può giudicare se questa è stata la proposta il 26 gennaio... Perché il 26 gennaio, se da qualcosa sono partito, è stato proprio dal contrario: dall’incontro cristiano, dal fatto di Cristo come esperienza reale. Giussani ha sempre detto che il nostro punto di partenza non è il naturale senso religioso, bensì l’annuncio cristiano; e l’annuncio cristiano si vede che è penetrato in un uomo dal fatto che ridesta le sue esigenze originali. Il punto di partenza è stato questo, e tutta l’evoluzione della lezione è stata questa. Nel quarto punto, che è quello che mi interessa adesso per collegarlo al capitolo di oggi, dicevamo: «Solo un cristianesimo che conserva la sua natura originale, i suoi tratti inconfondibili di presenza
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storica contemporanea – la contemporaneità di Cristo –, può essere all’altezza del reale bisogno dell’uomo, ed è perciò in grado di salvare il senso religioso», cioè la possibilità di entrare in ogni circostanza pur vertiginosa che sia. E avevamo aggiunto: «“Cristo me trae tutto, tanto è bello!” [...].
È questa bellezza, come splendore del vero, l’unica cosa in grado di ridestare il desiderio dell’uomo e di muovere così potentemente l’affezione da rendere possibile in continuazione l’apertura della sua ragione alla realtà che ha davanti [...]. La contemporaneità di Cristo consente così alla ragione tutta la sua apertura, permettendole di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta:
ogni cosa, ogni circostanza, anche la più banale, è esaltata, diventa segno, “parla”, è interessante da vivere. L’uomo così ridestato e sostenuto dalla presenza di Cristo può vivere finalmente da uomo religioso [tanto è vero che avevamo intitolato questo ultimo passaggio: «Cristo salva il senso religioso»: perciò continuare a contrapporre le due cose è contro quello che ho detto!], sostenere la
vertigine della vita, circostanza dopo circostanza [qualsiasi circostanza]». E più avanti dicevo: «La contemporaneità di Cristo si rivela così indispensabile per vivere appieno il senso religioso, cioè per avere l’atteggiamento giusto davanti al reale», per vivere questa vertigine che nemmeno dopo l’Incarnazione ci viene risparmiata, come descrive la lettera che vi ho appena letto. Senza il
riconoscimento della contemporaneità di Cristo quel che viene meno è questo slancio del senso religioso. Perché don Giussani insiste sull’uso della ragione? Perché il Papa insiste sull’uso della ragione? Anche loro sono protestanti? Mi sembra troppo! In realtà, qui ritorna quel che ci ha detto con sincerità l’amica del primo intervento di stasera: uno può stare davanti al reale dopo Cristo senza che si ridesti la drammaticità davanti al reale. Don Giussani lo spiegava così in una
conferenza del 1985: «Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più come dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé».
Quando dice questo, don Giussani sta parlando di qualcosa che tutti possiamo riconoscere nella nostra vita, o no?
Dopo Cristo noi possiamo essere piatti, ché possiamo sapere le formule cristiane e non avere il senso del Mistero. È evidente che, senza che si ridesti in noi costantemente questo fondamento umano, la realtà non ci parla. Se siamo facilitati da un testimone, allora la realtà comincia a parlarci, come dice questa lettera:


«Al termine dell’ultima Scuola di comunità, nel tornare a casa e salutando
mia moglie le ho detto che dopo quello che avevo sentito da te e provato come contraccolpo dentro,nessuna circostanza poteva più abbattermi. La chiarezza era totale. Ero convintissimo che non poteva esserci circostanza dove uno non poteva riconoscere la presenza di Uno che non mi lascerà mai. Dopo appena cinque giorni al lavoro si è aperta una vertenza sindacale che non si sa a quanti licenziamenti porterà. Io, pur essendo da anni rappresentante sindacale, e avendo già vissuto
purtroppo queste vicende, in questa occasione mi sono completamente paralizzato. Lo stesso periodo natalizio l’ho vissuto con un vuoto indescrivibile. Mia moglie giustamente, proprio alla vigilia di Capodanno, mi inchioda e dice: “Ma che ti sta succedendo? Tu non eri quello che fino a pochi giorni addietro dicevi che non c’era circostanza che ti poteva mai più abbattere?”. Non sono riuscito a replicare. A partire dalla vicenda del lavoro, sentivo un vuoto dentro che non riuscivo a
colmare con i discorsi, con la forza di volontà o pensando alla mia famiglia, neppure a mio nipote o anche alla responsabilità che ho all’interno del movimento. Per la prima volta penso di non aver fatto il passo indietro archiviando il tutto; sono andato avanti fino in fondo partendo proprio da quel vuoto immenso, da quella mancanza; non dovevo spostarmi. Ed è lì, dalla mancanza che nessuno poteva colmare, che ho ricominciato ad avvertire il Suo abbraccio, fino ad affrontare anche la
vertenza sindacale con insperata letizia. Non so se mi sbaglio, in questo cerco una tua correzione, ma senza il percorso sulla ragione che da tempo ci stai facendo fare, alla fine senza troppo clamore avrei accantonato tutta la vicenda senza colpo ferire. Invece, proprio approfondendo senza censurare nulla quel solco che poco a poco stava diventando un abisso e che mi faceva stare molto male, sono ritornato a respirare, risentendo su di me la tenerezza di Dio: non si scandalizza della
mia debolezza, va oltre, e meno male».


Se noi, davanti alle circostanze che non ci vengono
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risparmiate dopo l’incontro fatto, non possiamo affrontare la realtà così, pian piano Cristo non si dimostra così vincitore da generare una creatura nuova, cioè un soggetto diverso che ci consenta di entrare nel reale. E alla fine vivere il contenuto di questo capitolo XIV è assolutamente impossibile.
Ma non lo possiamo vivere da soli, abbiamo bisogno costantemente di essere generati, occorre costantemente la contemporaneità di Cristo per poter entrare in qualsiasi circostanza con una tranquillità profonda e una capacità di letizia, che è quello che ci ha testimoniato Cristo stesso, ché Cristo non si è ritirato dal reale, ma è entrato nel reale non come dice questo altro amico (leggo e poi rispondo):

«Da diverse settimane vivo con una fatica grande. Sto per perdere il lavoro, non so
ancora se è questione di settimane o pochi mesi, ma è certo. Questo fatto inaspettato e ingiusto mi ha gettato nello sconforto e nel panico. In queste circostanze sono affondato. In questi mesi ho pregato, ho domandato, ho seguito. In questo istante, mentre decido di scriverti, sto domandando di riconoscerLo. In molti istanti della giornata mi sembra che Lui non risponda, non tanto perché il mio problema resta irrisolto, ma perché non riesco a stare dentro la circostanza sostenuto dalla Sua
presenza. È come se restasse una premessa [e una premessa non è in grado di sostenere: se il cristianesimo è premessa, se il cristianesimo è soltanto una dottrina, se il cristianesimo è soltanto un insieme di regole che già sappiamo, non basta per entrare nel reale] e non una presenza dentro la mia repulsione rispetto alla circostanza del lavoro. Ma senza di Lui io non sto in piedi, neanche
quando sono in compagnia degli amici o tra le braccia di mia moglie; niente basta davvero. Non so perché Lui permette tutto questo: restare senza lavoro, lo sconforto... Non ho risposte, per me è misterioso, ma vorrei poter dire in modo sincero che è per un mio bene [questo è il desiderio, ciò che uno desidera per sé], poterlo dire, poter aderire a questa circostanza, a questa modalità assolutamente banale attraverso la quale il Mistero mi sta convocando. Lo dico, ma in fondo spesso
non lo credo. Non riesco a ripetere le parole di padre Kolbe: “Non vi chiedo istruzioni per l’uso, vi chiedo di sostenere il mio cammino”. Stamani, dopo aver detto male le Lodi e fatto male la Scuola di comunità, ho detto: Signore, insegnami a pregare, perché “chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo”. Cristo c’è, ma la fatica è riconoscerLo e attaccarmi a Lui. È incredibile, ma senza che Lui sia la cosa più desiderata per me, resto fluttuante».


Questo è il nostro dramma, il dramma di ciascuno di noi. Ma che cosa ci ha testimoniato Cristo? Che cosa ha fatto davanti a noi l’uomo Cristo? È entrato nella circostanza senza ritirarsi, non fluttuante. Come? Da solo? No: per il legame assoluto e indistruttibile con il Padre, a cui Lui vuole introdurre anche noi! Gesù non si ferma all’apparenza, non litiga nell’orto degli Ulivi o con Pilato, o Erode, o il sinedrio: il Suo dialogo è con il Padre. Cristo è entrato nella storia, e da quel momento noi non siamo mai da soli.
Senza questa coscienza noi ci illuderemo di poter vivere da uomini religiosi, magari di essere anche insieme; ma la vera questione è questo dialogo a cui Cristo ci ha introdotto per essere figli nel Figlio, per attaccarci così potentemente a Lui da poter vivere qualsiasi circostanza come figli, senza introdurre un sospetto, un dubbio, sul nostro rapporto con il Padre. Allora, questo ci dice il percorso
che ci resta da fare affinché questa certezza nel rapporto con Cristo non faccia venir meno la ragione o l’affezione o la libertà, ma la renda veramente possibile. Questo è impossibile senza Cristo, ma Cristo non è riducibile al nostro dire: «Cristo», perché poi, davanti al reale, vediamo costantemente che non basta. Dunque, o Cristo – come ci siamo detti in tutti questi mesi – è qualcosa che sta accadendo ora nella comunità cristiana, e allora possiamo entrare in qualsiasi
circostanza, oppure è impossibile affrontare la realtà in maniera compiutamente umana. Cristo rende possibile vivere la vita con tutta la mia ragione, con tutto il mio umano; Egli è l’unico che è in grado di salvare il senso religioso, altrimenti basta che qualsiasi cosa ci scombini per andare in tilt.
E questa è la verifica che dobbiamo fare: Cristo è in grado di generare un soggetto così?
L’esperienza cristiana nella storia è in grado di generare un soggetto così, una creatura nuova?
Questa è la questione. È il lavoro che ci aspetta.

La prossima volta – che sarà mercoledì 25 gennaio alle ore 21.30 – faremo la presentazione del testo della nuova Scuola di comunità, che è il secondo volume del PerCorso, All’origine della pretesa cristiana, di don Giussani.6
La presentazione – occasione di un incontro pubblico di CL a cui potete invitare tutti – sarà, come l’anno scorso, in diretta video da Milano.
Fino a questo momento abbiamo fatto il nostro collegamento ogni 15 giorni, come testimonianza di un metodo nel fare la Scuola di comunità. Dopo la presentazione del 25 gennaio faremo un incontro di ripresa ogni mese circa per una verifica del lavoro fatto, in modo tale che ciascuno possa fare il paragone tra il proprio lavoro (con i gruppi con cui vi trovate di solito) e quello che accadrà alla fine di ogni mese, durante il collegamento. Questo intende favorire, come avevo detto fin dall’inizio, un lavoro di personalizzazione.
Al numero di Tracce di gennaio è allegato il libretto con il testo degli Esercizi del Clu.
Abbiamo voluto renderlo disponibile per tutti, come aiuto per una maggior consapevolezza di che cosa voglia dire che la realtà è positiva, perché questo tema ha suscitato parecchio dibattito. È un tentativo sintetico di rispondere a questa questione: come la realtà è positiva e come Cristo salva la ragione, la ridesta, ed è in grado di generare un soggetto capace di usare la ragione in modo diverso
davanti al reale.

Il Banco Farmaceutico organizza, Sabato 11 Febbraio 2012, la XI Giornata nazionale di raccolta del farmaco in circa 3.000 farmacie. Invitiamo tutti a far conoscere l’iniziativa e a partecipare a questo gesto semplice di carità, come volontari nelle farmacie. I farmaci raccolti permetteranno di aiutare 1.200 associazioni italiane che danno assistenza a 400.000 persone indigenti. Per informazioni e chiarimenti consultare il sito www.bancofarmaceutico.org

Veni Sancte Spiritus

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