martedì 7 dicembre 2010

NON NEGHIAMO ALLA RAGIONE LA CATEGORIA DELLA POSSIBILITA`

Se non esiste il riferimento ultimo, il nesso con qualcosa di più grande, niente ha più veramente significato e la realtà stessa può essere stravolta e mistificata - “Ma se Dio non esiste, sono ancora capitano io?” (F. Dostoevskij, I Demoni) - persino la vita, propria e altrui, può essere rinnegata. Eppure, in ogni uomo, credente e non credente, c’è un’inestinguibile aspirazione verso l’infinito, a volte come un nostalgico presentimento: «Come vedo bene, adesso, quello che avrei voluto! Veri inizi, che sorgessero d’improvviso come uno squillo di tromba, come le prime note di un’aria di jazz, che troncassero la noia, che consolidassero la durata; avrei voluto di quelle sere, tra le altre, di cui in seguito si dice: “Era una sera di maggio, passeggiavo”. Uno passeggia, la luna s’è appena levata, si è oziosi, sfaccendati, un po’ vuoti. E poi, d’un tratto, si pensa: “È capitato qualcosa”. Una cosa qualsiasi: un leggero scricchiolio nell’ombra, una sagoma leggera che traversa la strada. Ma questo tenue avvenimento non è come gli altri: si vede subito che precede una grande forma il cui profilo si perde nella nebbia, e allora ci diciamo: “Sta per cominciare qualcosa”» (J. P. Sartre, La nausea). Dalla noia esistenziale alla fatica del vivere, dalla malattia col suo carico di dolore fisico e morale alla morte, c’è qualcuno che può dire di essere totalmente e definitivamente scevro da sofferenze? La sofferenza è un’inevitabile condizione della vita, che sembra contrastare col desiderio di felicità di cui l’uomo è fatto. Invece tantissime persone testimoniano tra mille difficoltà, in condizioni di grande sacrificio, che un nuovo inizio, un vero inizio come l’incipit di un nuovo brano, è sempre possibile per tutti e in qualsiasi circostanza. Per queste persone la “grande forma”, che dà significato all’esistenza, non si è persa nella nebbia ma assume connotati precisi, in modo imprevisto: un bambino nato duemila anni fa, morto e poi risorto per non lasciarci più. E l’imprevedibilità è, appunto, la caratteristica dell’avvenimento: nei modi e in tempi non programmati si realizza ciò che fino a qualche istante prima sarebbe stato impensabile. Ritenere che la felicità si compia solo in particolari condizioni, mutate le quali non vale più la pena vivere, deciderlo oggi per domani o per un’altra persona; negare che l’avvenimento che dà senso alla vita possa accadere, anche attraversando il misterioso silenzio di uno stato vegetativo secondo imperscrutabili forme; negare alla ragione la categoria della possibilità; tutto questo sì sarebbe voltare le spalle alla ragione stessa.
Gabriele Villani, 7 dicembre 2010
http://www.piuvoce.net/newsite/lettera_art.php?id=761

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