venerdì 17 dicembre 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 15 dicembre 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 394-415.
• La Traccia
• Give Me Jesus
Continuiamo il nostro lavoro sul testo: perché il sacrificio diventa interessante?
Mio figlio, che frequenta il liceo classico, in questo mese è stato coinvolto nelle elezioni studentesche, e già mi aveva sorpreso all’inizio la sua decisione impetuosa di presentarsi alle elezioni perché come temperamento è uno che tendenzialmente non si mette in prima linea. Quindi questo è un sacrificio che gli era chiesto. La mattina in cui presenta la lista decidono con tutta la comunità di fare un gesto bello, di preparare una colazione per tutta la scuola, ma nel bel
mezzo della festa viene srotolato dietro ai ragazzi uno striscione preparato da quelli del collettivo in cui si legge: «Il popolo ha fame, Cl risponde: tenetevi
voi le vostre brioches». Subito inizia un clima di lamentela, di attacco, dicendo che loro erano dei corruttori, che con le brioches… Mio figlio torna a casa, mi racconta questo fatto e sostanzialmente lo vedo sereno, e io mi incuriosisco
perché sarebbe un insuccesso. Secondo giorno: devono affrontare le assemblee con tutto il liceo, due assemblee di quattro ore ciascuna, e anche lì mi stupisce che nell’affrontare tutta la scolaresca erano stati sostenuti dalla frase che avevano letto alla mattina alle Lodi: «Pensate attentamente a Colui che ha sopportato una così grande ostilità dei peccatori perché non vi stanchiate perdendovi d’animo». Ecco, quando lui mi ha citato questa frase e che non si è perso d’animo (perché non è che l’assemblea sia andata bene, tutti gli andavano contro), mi sono accorta che il sacrificio l’ho sempre interpretato come lo scotto che devo pagare per poi ottenere qualcosa. Invece mi sembrava che nell’esperienza mio figlio non attendesse che qualcosa dovesse accadere, ma che lui era già pieno lì, nell’affrontare questa avventura. Tant’è vero che non è stato eletto, e la mattina seguente alla sconfitta va a scuola e i suoi compagni lo sfidano di nuovo dicendo: «Ma adesso che cosa ti rimane di tutto il tuo da fare?». «Innanzitutto è stato eletto un mio compagno, quindi aiuterò lui; e poi farò quello che c’è da fare». E anche qui con sorpresa mi son detta: sembrerebbe una sconfitta, ma lui è contento.
L’ultima cosa che racconto è questa. Da quindici giorni alla sera vedo che legge il libro Comunione e Liberazione le origini (1954-1968). Allora gli dico: «Ma perché stai leggendo questo libro?», e lui mi risponde: «Perché, mamma, io ne sto sentendo tante di obiezioni, ho bisogno di capire la storia in cui sono». Questo fatto mi ha messo allo scoperto, perché io faccio esattamente il contrario: fino adesso mi è andata bene, ho fatto i sacrifici e mi sono quasi illusa che i risultati ottenuti dipendano da Gesù che riconosce che ho fatto tanti sacrifici e che sono brava. E quando capitano degli insuccessi? Tante volte io sto un po’ con l’amaro in bocca oppure mi arrabbio con chi non mi riconosce. Questo fatto di mio figlio, che anche nell’insuccesso vuole scoprire l’origine della sua storia, è il contrario di quel che succede a me, che quando sono messa in discussione, metto in discussione l’esperienza in cui sono, come dire: «Ma sarà vero?».


Questo è un esempio di come il lottare contro la menzogna, il non rimanere alla superficie delle cose, fa diventare interessante quello che si fa. Fino a coinvolgersi nel reale in una modalità che stupisce perfino la propria mamma e i propri amici. Tuo figlio vede, può toccare con mano fino a che punto il vivere la realtà senza soccombere alla menzogna fa diventare la realtà diversa,
interessante per la propria crescita; tanto è vero che da questa esperienza viene fuori più se stesso e può riprendere la vita con un plus di umanità, di esperienza umana e perciò di consapevolezza, tanto è vero che vuole capire di più le origini della storia.

Ho visto Manuela Camagni fare sacrificio durante tutta la sua vita. Quando
sono tornato a Cesena dopo l’università a Bologna, Manuela seguiva un gruppo un
po’ scalcagnato – diciamo – di
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giovani lavoratori, gente che aveva fatto la terza media, un po’ contadini, un gruppo molto strano e, con passione, in qualche modo ci ha tirato su. In questo gruppo io ho trovato anche moglie, e Manuela è stata la mia testimone di nozze. Ed è stata testimone per me di tante altre cose. Lei lavorava in una scuola statale e ha lasciato un posto fisso per fare la segretaria della scuola gestita da amici del movimento. Poi lei aveva dato la disponibilità ad andare in missione perché nel suo
cuore amava il Brasile, però è stata mandata a Tunisi e con grande passione, proprio con letizia, ha imparato il francese ed è andata a fare la segretaria di una clinica, proprio una cosa completamente diversa. Poi sappiamo tutti a cosa è stata chiamata dal Papa. Volevo leggere una lettera che Manuela ha mandato a noi del Banco di Solidarietà di Cesena: «Cari amici, mi dispiace tanto di non poter essere con voi nell’occasione dell’inaugurazione del Banco di Solidarietà intitolato alla Flora [sua sorella]. Così ho pensato di partecipare con queste poche righe e,
soprattutto, con la preghiera per ciascuno di voi. Questo commovente evento mi ha fatto venire in mente una frase di Santa Teresina di Gesù Bambino che dice: “Quando sono caritatevole è Gesù che agisce in me”. Pensando alla Flora e alla sua disponibilità all’opera del Banco di tutti questi anni riscontravo verissimo questo pensiero di Santa Teresina, perché se tutto dipendesse solo da noi prima o poi ci stancheremmo, mentre lei non si è mai stancata, neanche nei momenti più
difficili o più dolorosi della sua vita. Il Banco era sempre presente nel suo cuore e nella sua mente, anche quando concretamente non poteva fare più niente [ha avuto una grave malattia per anni].
Nel tempo ho visto incrementarsi nella Flora un’apertura e una disponibilità che non era dovuta solo al fatto di preparare un pacco per una persona bisognosa, ma era tendenzialmente il desiderio di condividerne la vita e quindi un rapporto di amicizia, un legame che andava oltre il pacco di viveri e che metteva in campo tante sue personali risorse. Da dove veniva questo se non dall’apertura a Gesù che agiva in lei? Questa apertura all’agire di Gesù, misteriosa ma reale, l’ho vista anche nel modo con cui ha affrontato la sofferenza, prima per la sua malattia, in seguito per
la morte di Sergio [suo marito] e alla fine per la sua stessa morte. E penso che l’esperienza del Banco non sia stata estranea a questa sua posizione umana. Così auguro a ciascuno di voi, particolarmente a chi vive direttamente l’esperienza del Banco di Solidarietà, di poter agire con la coscienza di Santa Teresina cioè di riconoscere nel nostro operare Gesù che agisce in noi e anche con la testimonianza che la Flora, discretamente ma concretamente, ci ha consegnato». La mia
prima reazione a questo è un ringraziare perché c’è un movimento e perché, per grazia, io ci sono.
Prima della domanda che ti volevo fare voglio citare anche quest’altra sua brevissima lettera:«Tutto ciò che accade è davvero la realtà del Mistero che si affaccia e ci persuade sempre più a stare nella Sua compagnia attraverso la quale possiamo comprendere il grande disegno del nostro destino e del destino del mondo. Non ci sono al mondo ragioni più adeguate per vivere, e questo apre una nuova prospettiva a ciò che già sto vivendo, approfondendo tutto, anzi, sprofondando ancor più l’umano dentro il divino. Perché è questo il destino nostro: sprofondare la nostra umanità in questa divinità. E capisco che questo sprofondare è appartenere, consegnarmi al nostro carisma attraverso la nostra vocazione; in questo modo la mia umanità è portata dentro l’umanità di Cristo stesso». Chi c’era al funerale ha percepito una grande unità della Chiesa quando un suo figlio obbediente si sacrifica fino alla fine. Eravamo tutti molto tristi, grati però di questa persona che il Signore ci ha donato, non eravamo disperati. E allora ecco la mia domanda: alla fine della cerimonia ti siamo venuti a salutare, e io volevo capire perché tu avevi un sorriso così radioso.


Per la stessa ragione per cui il giorno prima di morire, come ho detto nell’omelia, lei era radiosa. E chi la faceva radiosa? Sarebbe inspiegabile quella sua radiosità, se non per quello che hai detto adesso. Quel fiorire della persona fino alla radiosità, questo è così evidente, così palese che non è a
portata di mano dell’uomo, noi abbiamo toccato con mano la Sua vittoria vedendola in lei. Io che avevo visto questa radiosità in lei quando andavo a trovarla, ero assolutamente certo che Colui che l’aveva fatta radiosa era Colui che vinceva anche nella morte.
Per questo è stato facile fare l’omelia perché se viviamo – dice San Paolo –
viviamo per il Signore e se moriamo moriamo per il Signore; nella vita e nella
morte siamo del Signore. Per noi queste possono essere parole, possono
essere frasi; ma quando tu hai visto vincere Cristo in una persona, nel suo
fiorire, tu hai visto all’opera una
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Presenza così potente da essere impossibile all’uomo, e questo ti fa guardare la morte con questa Presenza negli occhi. E non te lo puoi togliere da dosso neanche guardando la bara. Per questo potevo guardare la bara anche io radioso, perché Lui vinceva nella vita e nella morte.


Da quando la Scuola di comunità richiama al valore del sacrificio, mi alzo tutte le mattine dicendomi perché vale la pena e facendo memoria di Cristo. Questo, paradossalemente, mi sono accorta che mi fa fare più fatica che non alzarmi e fare tutto senza pensare; mi costringe, mi fa sentire il mio bisogno in maniera prepotente, un bisogno che spesso non vorrei sentire perché è scomodo per me e per chi mi sta vicino. Dopo un po’ di tempo ho capito finalmente il perché ci è
più facile stringere moralisticamente i denti. Fare sacrifici senza pensarci è paradossalmente meno pesante che accettare di fare la fatica per Cristo, perché accettare di farlo per Cristo significa abbandonarmi a Lui. È qui il punto: la paura di abbandonarsi al disegno di un Altro, perché accettare che la vita è Sua significa smascherare l’illusione di avere le redini in mano. Capisco quindi che la mia resistenza al sacrificio è una debolezza di fede, come se non credessi che
abbandonandomi e lasciando che la vita sia condotta da Lui sia meglio di quando decido da me e delle mie immagini (che poi sono quelle stereotipate dettate dal mondo). L’ho capito di più leggendo questo pezzo del Gius: «La libertà si trova proprio nel gioco della fatica e della mortificazione. Abbiamo paura della fatica. Tutto il mondo è così, quanto più noi abbiamo paura di questa fatica, di questa mortificazione, tanto più siamo perentori e doveristici nel chiedere agli altri
di osservare le nostre parole. L’alternativa a questo impeto della libertà o fatica della mortificazione è l’imposizione doveristica a noi stessi e agli altri, uno sforzo artificioso per superare la paura». Ti chiedo una mano per capire come superare questa paura e resistenza, che non sia in uno sforzo artificioso e moralista, ma in un abbandono.


Tu dici alla fine che desideri superare questa paura e resistenza non con lo sforzo artificioso e moralistico. Che cosa vuol dire questo? Che noi prima riduciamo quello che siamo, e allora l’unica cosa che ci resta è lo sforzo doveristico. Ma è evidente che uno resiste, che ha paura di questo! La questione è che tu e io siamo molto di più di quello a cui noi ci riduciamo; e se uno capisce che il problema non è quello a cui noi ci riduciamo, ma questo desiderio sconfinato che ci troviamo
addosso, questa sproporzione, la questione diventa come sia possibile vivere
senza il riconoscimento della presenza di Cristo. Se uno capisce che senza di
Lui tutto diventa veramente pesante, allora incomincia a intravedere che la vera soluzione a questa nostra tentazione di autonomia è l’abbandonarsi, che l’abbandonarci è quello che più ci conviene: non occorre uno sforzo moralistico,
ma lasciarci abbracciare da un Altro. E questo non è un problema di sforzo, ma
di libertà, perché per lasciarci abbracciare non abbiamo bisogno di un’energia particolare (che invece servirebbe per non so che razza di sforzo): occorre semplicemente cedere. La questione vera è capire che questo ci conviene,
che questo non soltanto non è un sacrificio, che questo è la verità di me
più di quello che io riesco a fare.


Ho un figlio nato da una relazione extraconiugale passata. L’amore che mi ha dimostrato mia moglie per tutto il tempo in cui sono stato fuori di casa mi ha fatto tornare da lei, colpito dalla fede incondizionata verso Gesù che l’ha sostenuta. Nonostante questo non vorrei separarmi da mio figlio; di fronte alla richiesta di un sacrificio, non ce la faccio neanche con l’aiuto degli amici.
E perché no? Che cosa ti fa scoprire questo?
Che non ce la faccio.
Neanche insieme agli amici. Perché qui arriviamo al punto vero della compagnia.
Come se io mi rendessi conto che mi è chiesto un martirio.

Il problema non è che ti si chieda il martirio, il problema è essere capaci di fare un sacrificio. E allora da dove viene l’energia per farlo? È qui, amici, dove tocchiamo con mano la nostra incapacità, quello che dice la Scuola di comunità quando parla di tristezza e di domanda, ché neanche tu sei in grado di fare quello che vorresti fare. E questo introduce il grido.
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Leggiamo insieme pagina 414: «Dopo pochi mesi di vita di GS, è venuto da me quel padre che aveva la figlia al Virgilio, un signore distintissimo, e sulla porta ha cominciato a singhiozzare dicendo: “Padre, mi aiuti, mi salvi lei mia figlia, perché non ne posso più; quando mia figlia mi stringe la mano – sua figlia aveva diciassette anni e stava morendo di cancro – e mi dice: ‘Papà, perché non mi guarisci?’, a me scoppia il cuore, perché non solo non so rispondere, ma non vorrei
più esistere”. E io gli devo rispondere: “Il Signore sa perché succede questo, ed è per un bene suo e di sua figlia, perché questo corrisponde al disegno di Dio”. Così gli impongo di accettare, affermare la presenza di un Altro più importante, più decisivo che l’amore a sua figlia, che il desiderio di salvarla, che la sua vita stessa». Se tu dici di voler bene a tuo figlio, qual è il problema? Se voler
bene non è soltanto un sentimentalismo, ma è affermare l’altro per sempre, tu questo non lo puoi fare con le tue forze. E per questo l’unica possibilità che hai è affermare il disegno di un Altro che te lo renderà per sempre tuo. Ti sembrano parole adesso – lo capisco benissimo –, ma non perché siano astratte, bensì perché è astratto il nostro pensiero sulla realtà: tu riduci il tuo amore al figlio
soltanto a un sentimento, e il sentimento non riesce a tenere in vita tuo figlio per sempre. Perciò se lo vuoi amare, se dici di amarlo, devi accettare, riconoscere un Altro, perché tu non puoi mantenere un istante la vita del figlio, figurati per sempre... E questo introduce un fattore nella vita senza il quale non regge niente, rispetto a te, a tua moglie, e a tutto quello a cui vuoi bene. Allora che cosa è
astratto rispetto alla concretezza del vivere? Siamo noi astratti, ché viviamo nella menzogna! Ecco, il sacrificio è lottare contro questa menzogna. Essere amici vuol dire condurci alla soglia dell’eterno per uscire dalla menzogna. Voler bene a un altro è percorrere questa strada. Senza di questo tu non ce la fai, è una bugia che tu vuoi bene perché voler bene a un altro non è, come tante volte pensiamo, il tornaconto immediato di questo voler bene, perché questo è soltanto un
tentativo di possesso. Per questo il sacrificio è il punto di confluenza di tante cose. Rileggiamolo a pagina 393, perché ci introduce veramente al nocciolo della vicenda: «Il sacrificio non è sospendere la volontà di qualche cosa, ma arrestare la volontà che non è secondo la natura della cosa. Per questo tutti i rapporti prematrimoniali sono sbagliati, tutti; e impongono strade storte che non si raddrizzano mai più; e affermano un egoismo come ultimo criterio – “quel che pare e piace” come ultimo criterio del rapporto – che non si redime mai più». Non mi interessa adesso lo specifico dei rapporti prematrimoniali, mi interessano i rapporti veri. La questione è se voler bene a un altro ha la densità del voler bene a un altro, volerlo per sempre, volere la felicità dell’altro. E questo dimmi tu se lo puoi fare da te. Tu devi aprirti a un Altro che adesso può chiederti un sacrificio. L’esempio che mi sembra più sconvolgente, più sintetico di questo, è quando avete nelle vostre mani un neonato; se tu potessi vedere tuo figlio,
questo dramma si moltiplicherebbe all’infinito perché quando tu sei davanti a
questo bambino – e tanto gli vuoi bene quanto sei consapevole che non sei in
grado di portare la pienezza di quello che tu intuisci sarà il desiderio di felicità – o tu ti apri a un Altro o tu a quel bambino, anche se lo accarezzi
in tutti i modi, non vuoi bene!

È questo su cui io non riesco a starci. È come se mi si togliesse la possibilità di questo abbraccio…

Tu puoi farlo. Il problema non è tanto che lo puoi abbracciare, il problema è che la ferita di quello che stiamo dicendo, non soltanto non si guarisce abbracciando, ma così rimane molto più moltiplicata. La questione è se tu, io e chiunque, quando diciamo di voler bene a un altro, siamo disponibili a questo o no. Questa è la questione. Tutto il resto sono distrazioni dalla sfida vera. Poi,
in questo caso particolare, tu ti puoi fermare su questo e usarlo per non fare l’altro passo. Sono tutte distrazioni; la vera questione è se tu vuoi bene a quel bambino, anche se è arrivato al mondo in questa situazione; dimmi: che cosa è vivere questo rapporto nella menzogna e che cosa è viverlo nella verità? Per viverlo nella verità tu devi affermare un Altro. Senza questo, del tuo voler bene al
bambino io non so che farmene, perché non è vero.


Parlando della Scuola di comunità sul sacrificio con un po’ di ragazzi e un po’ di adulti, mi ha colpito una cosa: che mai si parla di quelle pagine in cui don Giussani dice che uno può offrire il proprio sacrificio che può essere utile a una donna in Giappone eccetera. Quando io provocavo la questione, se erano adulti di una certa età, archiviavano il problema con tranquillità: «Sappiamo il
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catechismo, c’è la comunione dei santi». Invece i giovani si ribellavano, mi dicevano magari: «Questa cosa qui non si capisce, per carità, sarà pure così, se don Giussani dice che è così, è così».
Ora, in questi mesi son capitati il funerale di Manuela e altri funerali a cui ho partecipato, e mi ha colpito moltissimo una cosa: il dolore che vien fuori quando muore qualcuno di caro svela che l’idea che abbiamo di noi come degli esseri indipendenti che hanno un rapporto estrinseco non è vera! In realtà siamo uno dentro all’altro, cioè le persone a cui voglio bene, a cui sono legato per la storia nella mia vita, sono dentro di me, e la morte vuol dire strappare qualcosa di me, tanto che
io non posso nemmeno dire io senza quei rapporti lì. Dicevo questo per dire che astrattamente le cose non si capiscono; questo capitolo sul sacrificio astrattamente non si capisce, o rimane catechismo oppure non si capisce e si accetta a occhi chiusi. Ma se uno guarda all’esperienza…
Noi nel movimento possiamo fare l’esperienza di cosa voglia dire essere una cosa sola; invece se rimaniamo sull’astratto, non si capisce nulla.

Grazie.

Il don Gius qua dice: «Il sacrificio è andare contro la menzogna. Andare contro la menzogna, fare la cosa in modo vero, leale, sincero, giusto: questo è il sacrificio». Io mi sono accorta che la menzogna vive innanzitutto in me. Qualche giorno fa è successo questo fatto. C’era un nostro paziente cinese che non
parlava italiano, non una parola di italiano, e la nostra interfaccia con lui,
sia nostra che dei medici, era la figlia che parlava italiano. Un giorno lei lo viene a trovare in ospedale e sta male, sviene, crisi convulsiva in stanza
eccetera; io e il mio collega assistiamo questa ragazza e la portiamo subito
in Pronto Soccorso. Il padre assiste alla scena terrorizzato, si spaventa e
tutti noi cerchiamo di spiegargli ma a gesti, quindi con risultato zero.
Allora a me viene in mente che era qua in Italia un’amica che sa il cinese,
la chiamo e le dico: «Senti, guarda questa situazione», passo il telefono a
questo signore e loro due si parlano per un po’. Dopodiché lui torna nella sua stanza, prima di andare via vado lì e lo saluto. Il giorno dopo, il mio
caposala viene da me, serissimo, e mi dice: «Ti devo parlare, ti devo
chiedere una cosa. Tu mi devi spiegare che cosa te ne frega di un cinese».
A me questa domanda ha fatto girare il sangue nelle vene, primo perché non
sapevo rispondere, secondo perché gli ho detto: «Guarda, per me l’episodio di
ieri si era già concluso con ieri, io sono tornata a casa tranquilla, niente
di che, la tua domanda mi lascia spiazzata e soprattutto al momento non ti so rispondere, però capisco che la tua domanda è per me l’unica possibilità di non perdere quello che ho vissuto ieri».
Il sacrificio mio in quel fatto è stato rispondere a quella domanda fino ad
andare al fondo della mossa mia nei confronti di quest’uomo, perché io mi rendo conto che al 99,9% io mi muovo per una naturalezza, per un’istintività, e
quando invece mi trovo di fronte a qualcosa che entra nella mia vita fino a
togliere tutta la scorza,tutta la buccia, fino ad arrivare al significato,
capisco che questo è un sacrificio perché mi porta completamente fuori di me,
però facendomi scoprire chi sono io, tanto che in questi giorni questa domanda
è il motore del mio andare al lavoro, perché a me interessa rispondere a questa
domanda che è tutta aperta perché mi rendo conto che la risposta non è conclusa
per sempre, ma che il tenere aperta questa domanda è l’unica possibilità per me
di far entrare nella mia vita qualcosa che non sono io e che mi fa essere me
stessa (cioè che mi fa scoprire qualcosa in più di me). Io ho bisogno di andare
al fondo delle cose, di dire la verità delle cose, tanto che quell’episodio è
diventato parte di me
.

Questo mi sembra importante coglierlo, perché uno che ti fa una domanda così a bruciapelo fa venir fuori tutta la – come dicevi tu – naturalezza, e smaschera la menzogna con cui viviamo, ci fa capire che senza questo sacrificio noi rimaniamo sempre alla superficie delle cose, cioè nella menzogna.
Per questo se non capiamo che senza il sacrificio perdiamo il meglio, chi ce lo fa fare? Perché dire che rimaniamo nella naturalezza, cioè alla superficie, cioè nella menzogna, vuol dire che non arriviamo fino al vero, fino a ciò in cui noi possiamo trovare vera corrispondenza. E per questo io mi domando: ma quante persone nei rapporti che avete o che vediamo in giro vivono veramente secondo la verità del rapporto? E quando dico “verità” non voglio dire altro che tutta l’intensità,
tutta la capacità di pienezza, tutta la possibilità di riempire l’io che altrimenti non ci sogniamo. La
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maggioranza delle volte noi viviamo il reale alla superficie. E per questo non
ci stupiamo, le cose non ci parlano, le situazioni non sono interessanti, la maggioranza delle cose sono senza interesse – non so quale altra parola usare –, senza attrattiva. Perché? Perché non ce l’hanno o perché noi rimaniamo sempre
alla superficie per paura del sacrificio? Senza capire il nesso del sacrificio
con la pienezza (e perciò con la possibilità sempre in agguato di rimanere nell’apparenza e nella menzogna, per il peccato originale e per l’incapacità
che abbiamo di vivere secondo la verità) ci perdiamo il meglio; e quando per
grazia siamo riscattati da questo e portati a entrare nell’intimità delle cose
o dei rapporti, vediamo che c’era molto di più di quello che soltanto intuivamo. Senza questo noi veniamo fuori dalla Scuola di comunità senza cambiare una
virgola di quello che pensiamo del sacrificio; andiamo a casa pensando che in
fondo è una fregatura, lo scotto da pagare, non la possibilità di incominciare veramente ad amare, cioè ad affermare l’altro per quello che è, ad affermare la verità di quello che c’è. Perché è questo che incrementa la vita e i rapporti e
li porta a una intensità che la maggioranza degli umani non sa neanche che
esiste. Senza questo incremento la vita perde sempre più di interesse, perché
quanto meno entriamo in merito alle cose tanto meno vediamo la vittoria di
Cristo che porta questa intensità stupefacente. Questo non diventa nostro –
come dicevano gli ultimi due interventi – facendo una spiegazione; quel che
dico è il tentativo di dare uno spunto per incoraggiarci a fare esperienza,
perché soltanto quando facciamo esperienza possiamo veramente convincerci che
ci conviene. Se aver letto questo capitolo non è stata l’occasione di
un’esperienza di questo, da questo capitolo veniamo fuori come prima. Io mi
domando: alla fine del percorso che abbiamo fatto in questo mese che cosa è cambiato, che cosa abbiamo guadagnato come esperienza di novità rispetto al sacrificio? Perché se non cambia niente, se non andiamo via con un incremento dell’esperienza, perciò del vivere, noi voltiamo la pagina e ritorniamo come
al solito. Così non vale la pena fare la Scuola di comunità e il sacrificio,
perché semplicemente leggiamo e facciamo commenti sopra. E questo, dal punto di vista del metodo, è fondamentale capirlo, perché queste questioni, come ci
dice sempre don Giussani, si capisconosoltanto nell’esperienza, e siccome sono
cose che istintivamente non capiamo – perché sono ripugnanti, non è che una
cosa ripugnante all’improvviso appare attraente –, soltanto se uno, non
fermandosi, ha potuto godere della verità, allora diventa libero. Questa è la possibilità che c’è per ciascuno di noi. Per esemplificare cosa vuol dire
questo abbandono, vi leggo una mail che mi è arrivata da una universitaria
appena tornata dagli Esercizi del Clu: «L’unica cosa che mi viene da dirti è: “Ma chi sei Tu, o Cristo, che quando accadi come il fatto più desiderabile
desti tutto il subbuglio nel cuore di ridesiderarTi con più ardore, con più
forza e con più potenza?” [quando diciamo Gesù non stiamo parlando di una
regola o di una istruzione per l’uso, stiamo parlando di questo].
Sono venuta agli Esercizi perché volevo conoscerLo di più, Lui che mi sta
investendo come un’onda e si sta facendo conoscere sempre di più da me. Sono tornata, sono più irrequieta di prima; Lui non basta mai perché quando accade ridesta davvero con potenza imparagonabile ancora di più il desiderio della Sua presenza. Non mi è mai successo con niente; ripeto, niente mai nella mia vita
è riuscito ad abbracciarmi e allo stesso tempo a farmi desiderare di più com’è
Cristo, come dicevi tu: Zaccheo, la Samaritana, la peccatrice, Giovanni e
Andrea erano lì, ciascuno con il proprio bisogno, quando si sono lasciati abbracciare da Cristo la vita ha iniziato a ribollire. In questi giorni agli Esercizi mi hanno davvero travolto i Suoi tratti, e io alla sera andavo a
dormire piena della Sua bellezza e splendore, come Giovanni e Andrea, il cuore ardeva e arde alla Sua presenza. Lo attendo dal primo secondo in cui apro gli
occhi, ho bisogno della Sua tenerezza, del Suo preferirmi e delle Sue meraviglie.
E ancora più impressionante è che davvero in tutto questo movimento del cuore
sono lieta. “Ecco, ti ho disegnato sul palmo delle Mie mani”: non è un’attesa disperata e una irrequietudine fine a se stessa, ma è la sete di Cristo
perché Lui è il fatto più corrispondente che ha incontrato il mio cuore ora,
adesso, in questo istante che ti scrivo. Non è normale una corrispondenza così; neanche il più bell’uomo mi ha mai destato così prepotentemente il desiderio.
Ciò che mi ha colpito degli Esercizi è quando tu hai detto: “Voleva riempirci
la vita con un dono, per questo ci ha fatto con questa sproporzione strutturale
che Lui voleva riempire con qualcosa di infinito come un regalo. Per questo ci
ha dato questa apertura, perché noi potessimo facilmente
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accoglierLo”. Non ho mai voluto bene al mio cuore come in questi giorni, in
questi mesi, perché se prima sentendo il cuore che urlava così di Lui mi
sembrava una cosa ripugnante, da cancellare perché non mi faceva mai stare tranquilla, ora mi accorgo che guardo con tenerezza a questo mio grido perché
un rapporto con Lui presente è il fatto più corrispondente che ho mai
incontrato, e mi impressiona accorgermi che la Sua forza sta cambiando il
mio cuore. Per questo faccio ciò che devo, amo la realtà che ho, lo studio,
i miei amici, la mia famiglia, la mia vita intera perché è la possibilità per
me di accorgermi di come Lui mi preferisce, perché la Sua presenza mi riempie
di silenzio».

Questa è l’intensità di cui può godere una persona di ventidue anni soltanto
per aver fatto il sacrificio più grande: riconoscere una Presenza.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 12 gennaio alle ore 21,30. Continuiamo il lavoro fino all’ultimo capitolo sulla Verginità, cioè fino alla
fine del libro.Come avete visto, abbiamo pubblicato un Volantino come aiuto a
non rimanere nella superficie, nella menzogna; per aiutarci ad andare al fondo
della confusione in cui ci troviamo. Tutti vediamo la situazione di confusione
in cui viviamo, in cui vive il nostro Paese adesso, e davanti a questa
confusione ciascuno di noi che è qua, e che mi state ascoltando, ha un’idea
di come uscirne. Il movimento sfida ciascuna di queste interpretazioni, dicendo l’origine di questa confusione è l’appiattimento del desiderio che, dice don Giussani, è l’origine dello smarrimento dei giovani e del cinismo degli adulti.
Per questo la questione è come si ridesta il desiderio. Che cosa fa ridestare
la vita? Ciascuno può vedere nei tentativi che fa che cosa riesce a ridestare
e come solo il sacrificio più grande, che è accettare un Altro, può essere
veramente un contributo per noi e per gli altri.
Questo vale prima di tutto per noi, come abbiamo visto, perché è soltanto se
noi vediamo la pertinenza del giudizio che viene proposto, possiamo usarlo e diffonderlo. Vedremo che cosa significa per noi nel modo in cui lo usiamo: se
serve per l’esperienza che ciascuno fa, potrà essere così deciso da offrirlo
agli altri come un aiuto a vivere la situazione di confusione che riguarda tutti.
Il 26 gennaio 2011, cominceremo Il senso religioso di don Giussani, con una mia presentazione del libro, come introduzione al lavoro che faremo l’anno prossimo.
Come già ho avuto modo di accennare alla Giornata d’Inizio Anno, faremo una rilettura de Il senso religioso dall’interno della fede, cioè come verifica della fede. Tante volte abbiamo letto il percorso che ci preparava a riconoscere Cristo. Rileggerlo all’interno della fede vuol dire che come noi viviamo il senso
religioso sarà il test del percorso che abbiamo fatto su Si può vivere così?,
sulla fede. Perché, come ci ha detto sempre don Giussani, e come noi abbiamo
vissuto per esperienza, l’incontro ha la capacità di ridestare l’io, cioè di ridestare tutto l’umano, tutto il senso religioso, perciò di ridestare il
desiderio, la ragione, la libertà, tutta la capacità dell’umano. Allora noi
potremo verificare in che modo la fede per noi è qualcosa di reale, la presenza
di Cristo è qualcosa di contemporaneo, nel modo con cui viviamo, come usiamo la ragione, la libertà, l’affezione, tutto, il rapporto con il reale, la realtà
come segno, tutto. Per questo abbiamo scelto di utilizzare una serata già
prevista nel calendario dei collegamenti per la Scuola di comunità, ma con
questa modalità di presentazione fatta da me. Può essere anche un’occasione per
un gesto pubblico a cui poter invitare tutti. Lo dico in anticipo perché, pur
avendo già gli spazi dei collegamenti attuali, abbiate localmente la possibilità
e il tempo di verificare se è opportuno trovare, per questa occasione, un luogo
più adeguato (ovviamente, solo se ce ne fosse bisogno). Le persone che
desiderassero partecipare ai prossimi Esercizi della Fraternità e non fossero
ancora iscritti alla Fraternità, devono farlo entro il prossimo 20 gennaio 2011.
A questi esercizi partecipano infatti solo gli iscritti alla Fraternità.Come ho avuto occasione di ricordare agli Esercizi lo scorso anno: la Fraternità è una!
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È un’amicizia grande che sente come suo compito quello di richiamare all’altro la Presenza di Cristo, la memoria di Cristo presente. Come abbiamo visto, quando la vita urge se non siamo insieme per questo, non basta. Quindi l’iscrizione alla Fraternità è l’adesione a questa amicizia che ha come scopo vivere la memoria di Cristo.
Non è anzitutto un problema del gruppetto. Partecipare a questo gesto è un modo decisivo di partecipare alla Fraternità.
Siccome negli ultimi tempi ho sentito parlare di tante iniziative per
raccogliere soldi per questo o per quest’altro, ci tengo a richiamare al
Fondo Comune della Fraternità, che è l’origine educativa di tutto.
Perché diamo questo avviso adesso? Mi viene da fare il paragone con quello
che avevamo detto sul Papa: andiamo a Roma perché abbiamo bisogno noi del
Papa; lo stesso vale per il fondo comune: abbiamo bisogno noi del Fondo
Comune per essere educati alla carità. Così come l’idea di andare dal Papa è
rimasta come una icona per la storia, vorrei che capissimo tutti che noi
abbiamo bisogno del fondo comune come gesto di carità.
Questo non è in contrapposizione con il sostengo che, poi, diamo a persone
che conosciamo. Ma (e sottolineo questo) se nel dare non siamo noi educati
al fondo comune, se il fare un gesto di carità non è per una responsabilità
più grande con il fondo comune - che è il gesto che ci educa a questo -,
prima o poi la radice della nostra carità si seccherà perché le manca
l’origine da cui sorge tutto, che non è altro che il carisma. Per questo
anche chi raccoglie soldi per persone e opere dovrebbe avere questa
preoccupazione, che sia per un’educazione al fondo comune.
Perché tanti di voi siete così generosi? Per questa educazione
al fondo comune. Perché sono nati tantissimi gesti di carità?
Per la caritativa. Per questa educazione. Se si dimentica l’origine, faremo
la fine di tutti.
Senza questo tutto finisce.
Agli ultimi Esercizi della Fraternità avevo fatto un approfondimento sul
fondo comune. Che novità ha introdotto, che domande ci ha aperto, che
iniziale cambiamento o ripensamento ha operato in noi? Per chi non
l’avesse in mente, vi invito a rileggerlo sul libretto (alle pagine 64 e 65).
Preghiamo.
Veni Sancte Spiritus
Buon Natale a tutti!

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