domenica 30 novembre 2008

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 30.11.2008

Cari fratelli e sorelle!

Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino. Sull’esempio di quanto amava fare Gesù, desidererei tuttavia partire da una constatazione molto concreta: tutti diciamo che "ci manca il tempo", perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una "buona notizia" da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.Tre poi sono i grandi "cardini" del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la "parusia", la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.

Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: "Vegliate!" (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche "a tutti", perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù. InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene

I bambini soldato entrano in classe

domenica 30 novembre 2008

I bambini soldato sono entrati prepotentemente nelle scuole di Abbiategrasso; lo hanno fatto grazie alla mostra di AVSI esposta in questi giorni nei locali dell'Annunciata. Ben 58 classi hanno visitato la mostra che è imperniata sui disegni dei bambini soldato dell'Uganda e dai quali traspare sia la drammaticità del male di cui questi bambini sono stati vittime sia la forza del bene, capace di ricostruire il loro "io" così profondamente lacerato e di rilanciarlo in modo positivo all'attacco della vita.

Aver lasciato entrare dentro la quotidianità della scuola lo sguardo di questi bambini soldato è stata una significativa opportunità educativa, come ho potuto io stesso riscontrare dalla commozione degli studenti di una classe con cui sono andato a visitarla. Io conoscevo la drammatica vicenda degli ex-bambini soldato, sapevo di questo dramma, lo avevo seguito passo dopo passo; ma quanto mi hanno insegnato i "miei" studenti è stato molto di più di quanto in questi anni avevo appreso. Loro, guardando la mostra, mi hanno portato a scoprire la positività che si impone nello sguardo e nei disegni degli ex-bambini soldato, più forte della bruttura e della violenza di cui sono state vittime.

Quanto è stato bello guardando quella mostra essere stato provocato ad andare a cercare l'origine della positività che proprio perché esplode nei bambini soldato, i quali avrebbero tutte le ragioni per essere scettici e disperati, ci appartiene in quanto essere umani ed arriva fino a noi, dentro le nostre famiglie, dentro le nostre scuole, dentro le nostre amicizie.

Per questo sono grato che i bambini soldato siano entrati dentro la scuola, perché l'hanno aperta alle dimensioni del reale, e in questo ancor di più ad alcune studentesse e studenti che, impegnandosi a fare da guida, hanno accompagnato le classi a guardare la mostra. Questi giovani mi hanno commosso per la modalità con cui hanno fatto da guida: mentre parlavano dei bambini soldato, mentre spiegavano il loro dramma, mentre sottolineavano quel disegno o quell'altro, era evidente che si erano immedesimati con la loro umanità nell'esperienza dei bambini soldato e comunicavano la speranza che traspariva dai loro occhi. Così queste ragazze e queste ragazze mi hanno insegnato come si comunica un'esperienza, mettendoci dentro tutto il proprio cuore.

(Gianni Mereghetti)

sabato 29 novembre 2008

COLLETTA/ Un pensionato dona tre carrelli di cibo per un valore di 650 euro

sabato 29 novembre 2008


Procede positivamente la XII edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus. «Nonostante la crisi economica in cui versa il nostro paese gli Italiani stanno rispondendo positivamente, donando una parte della loro spesa in favore dei più poveri - ha spiegato Maro Lucchini, direttore della Fondazione Banco Alimentare Onlus – il primo bilancio è quindi positivo, viste anche le condizioni meteorogiche che non invogliano certo la gente ad uscire di casa». Proprio chi nella crisi dovrebbe essere in maggiore difficoltà dimostra, in occasioni come quella della Colletta, la generosità del popolo italiano. In un supermerctao di Bresso, tra gli sguardi commossi dei volontari e dei clienti, un anziano pensionato ha donato tre carrelli della spesa pieni di alimenti, per un valore di 650 euro.

giovedì 27 novembre 2008

Tutto cominciò con un digestivo




Il direttore Lucchini: «Dovevamo aiutare la gente senza cibo, e la prima donazione che ricevemmo fu una partita di Fernet»
DI GIORGIO PAOLUCCI
« La realtà a volte ti pren­de in contropiede, ma non puoi evitare di far­ci i conti. Sa qual è stata la prima ’ eccedenza alimentare’ che ci è stata donata quando abbiamo co­minciato il Banco, nel 1989? Una partita di Fernet Branca. La situa­zione era paradossale: non aveva­mo ancora dato da mangiare a un povero e ci trovavamo a distribui­re un digestivo... Ci siamo detti: va bene lo stesso, tutto può diventa­re utile per costruire un’opera co­me il Banco, partiamo da quel che abbiamo tra le mani » . Marco Luc­chini dirige da vent’anni la Fon­dazione Banco Alimentare ed è a­bituato a fare i conti con la Provvi­denza che veste i panni dell’im­prevedibile: «Partiamo ogni volta dalla realtà che ci rivela sempre qualcosa che non sappiamo e che nemmeno lontanamente immagi- niamo. In questo senso, la realtà è qualcosa di altamente educativo. Facendo questo lavoro diventa e­vidente che i primi poveri siamo noi e che la forza dell’uomo sta nella capacità di domandare » . Per questo, parafrasando un celebre spot pubblicitario, lui si definisce « l’uomo che chiede sempre » anzi­ché l’uomo che non deve chiede­re mai. La storia del Banco è fatta di gen­te che chiede, riceve e diventa a sua volta capace di donare. Come è accaduto a Enza, una donna na­poletanza trapiantata a Milano da sedici anni con la famiglia. Poco dopo l’arrivo nella metropoli lom­barda, una catena di eventi nega­tivi si abbatte in successione sulla sua vita: sia lei sia il marito perdo­no il lavoro, muore il terzo figlio di 15 mesi, arriva lo sfratto dal pa­drone di casa. Tirano avanti solo grazie all’aiuto della sorella, poi l’incontro con i volontari del Ban­co che li aiutano donando prodot­ti alimentari a lunga scadenza. È la rete di salvataggio con cui rie­scono a resistere nel periodo più buio, poi entrambi trovano un’oc­cupazione e l’esistenza riparte. U­na vita costellata di sacrifici e ri­nunce, nella quale Enza ha trova­to spazio anche per fare volonta­riato insieme a coloro che l’aveva­no aiutata. E sabato ci sarà anche lei, tra le migliaia di persone che raccoglieranno viveri all’uscita dai supermercati in occasione della Colletta.
« Qui ho trovato un’amicizia fra le persone che non immaginavo, un legame che non si ferma al tempo in cui si fa volontariato ma che ti resta dentro, ti lascia il segno, ti cambia la vita » . Delfio si racconta mentre sposta i carrelli carichi di scatoloni da sistemare nel magaz­zino del Banco di solidarietà di Co­mo, dove per tutto l’anno vengo­no accumulati e poi smaltiti i pro­dotti raccolti dalle aziende ali­mentari della zona e dalle famiglie che offrono una parte della loro spesa. Ogni mercoledì Delfio, che ha lasciato alle spalle una storiac­cia di tossicodipendenza, entra in quel magazzino: è una tappa del suo programma terapeutico giun­to ormai alla fase conclusiva. La sua storia, come quella di molti al­tri volontari, viene raccontata da Laura D’Incalci in un libro appena pubblicato da Itaca Edizioni: « L’o­lio nel vetro scuro » . « Per me che cercavo emozioni nei locali not­turni, in un mondo artificiale, è im­portante potermi misurare con la vita normale fatta di problemi quotidiani e scoprire come af­frontarli – dice – . Venire qui è una piccola- grande scuola: ho impa­rato che per condividere davvero i bisogni, si deve condividere il sen­so della vita » .

SOCIETÀ E ISTITUZIONI La Colletta alimentare: nella crisi, ma non da soli



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Avvenire 27/11/2008
DA ROMA ANGELO PICARIELLO
Una giornata per «favorire lo sforzo co­mune di istituzioni e società civile per vincere insieme la grande battaglia contro la povertà». La crisi bussa anche alle porte del Palazzo e Gianfranco Fini, per la Colletta alimentare in programma sabato, auspica «tanti accendini a squarciare il buio della miseria». Promuove la sussidiarietà, «che valorizza le grandi riserve morali pre­senti nel Paese, perché le istituzioni devono essere attente a ciò che si muove fuori di es­se. È bello e impressionante – dice il presi­dente della Camera – sapere che nel 2007 ol­tre 5 milioni di italiani hanno donato più di 8.900 tonnellate di cibo per un valore di cir­ca 26 milioni e 300mila euro».
La sala Aldo Moro è gremita anche di depu­tati, di ogni segno politico. Poca ritualità e commozione palpabile, se ne fa interprete il presidente della commissione Attività pro­duttive Andrea Gibelli, della Lega. «Oggi per noi è un giorno davvero speciale», dice. Fini cita l’ultimo rapporto Eurispes: «Di fronte a 2 milioni e mezzo di famiglie povere, una parte consistente della nostra società è di­sposta a non lasciare nella disperazione chi si trova in difficoltà. Perché la povertà senza speranza, che non può essere vinta, è quel- la che viene vissuta in solitudine». Cresce la povertà, ma per fortuna anche la solidarietà, di anno in anno. Una leggera con­trazione delle tonnellate raccolte dal Banco alimentare nel 2007, rispetto al 2006, è do­vuta alla temporanea difficoltà del Progetto Gea per le eccedenze alimentari della Ue, che quest’anno dovrebbero però raddop­piare.
Le donazioni spontanee, invece, con­tinuano ad aumentare, di anno in anno, in­sieme ai poveri assistiti, divenuti un milione e 435mila, cifra ormai prossima al milione e 537mila poveri, in Italia, censiti dall’Istat. Crescono quindi le tonnellate di cibo rac­colto con la Colletta, aumentate di quasi sei volte in 10 anni. Con oltre 7.500 punti ven­dita e quasi 9mila enti (associazioni, gruppi e parrocchie) che sono il terminale della fi­liera, a contatto con chi ha bisogno. «Ma al di là delle statistiche – dice monsignor Mau­ro Inzoli, presidente del Banco Alimentare, che ieri ha presentato l’iniziativa alla Came­ra C’èogni anno la Colletta è un avvenimento imprevisto». Come imprevista è questa cri­si, causa di nuove povertà per problemi fi­nanziari, posti di lavoro persi , ridotto pote­re d’acquisto. «E aggiungerei le famiglie spac­cate: due case, avvocati, sono causa cre­scente di tragedie, anche finanziarie – con­tinua monsignor Inzoli –. Ma non è solo un fatto quantitativo, i nuovi poveri sono anche più difficili da individuare, perché non rie­scono ad ammettere questa nuova condi­zione, e vanno guardati con occhi pieni di carità e discrezione». Un salto di qualità, dun­que, è richiesto anche a chi opera in prima persona, sulla scia di quest’intuizione ope­rativa della carità scaturita dall’incontro, vent’anni fa, fra il fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani e il patron della Star Danilo Fossati. «La cosa bella è che, ormai, la gente sa chi siamo. un feno­meno di fidelizzazione di chi dona, e altri si aggiungono, di anno in anno. Tutti possono dare qualcosa, ed è impressionante vedere i poveri più poveri che, sapendo che cos’è la povertà, non rinunciano a offrire il loro con­tributo ». Perciò, mentre negli anni scorsi l’in­vito, nello slogan, era a «fare la spesa anche per gli altri», donando l’eccedenza, que­st’anno – sarà anche la crisi – l’invito è a «con­dividere la spesa». Può darsi anche che non avanzi niente, insomma, ma la solidarietà non taglia fuori nessuno.

mercoledì 26 novembre 2008

Giornata nazionale della colletta alimentare "29novembre 2008


Comunicato stampa
12a GIORNATA NAZIONALE DELLA
COLLETTA ALIMENTARE

Sabato 29 novembre 2008
“Un semplice gesto di carità: condividere la propria spesa”
Milano, 30 ottobre 2008
Sabato 29 novembre si svolgerà in tutta Italia la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare
organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus e dalla Compagnia delle Opere Impresa Sociale. Sarà
possibile in quell’occasione aiutare concretamente i poveri del nostro Paese che, secondo le ultime rilevazioni
Istat (ottobre 2007), sono il 12,9% della popolazione italiana. In oltre 7600 supermercati più di 100.000
volontari, inviteranno le persone a donare alimenti non deperibili – preferibilmente olio, omogeneizzati ed
alimenti per l’infanzia, tonno e carne in scatola, pelati e legumi in scatola - che saranno distribuiti a oltre
1.480.000 indigenti attraverso i più di 8,500 enti convenzionati con la rete Banco Alimentare (mense per i
poveri, comunità per minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza, ecc.).
In occasione della “Colletta Alimentare” del 2007 oltre 5 milioni di italiani hanno donato più di 8900
tonnellate di cibo per un valore economico pari a 26.299.000 euro. L'obiettivo di questa edizione della
Colletta è quello di sensibilizzare ancora di più le persone a questo gesto di carità e alla condivisione dei
bisogni di chi è in difficoltà.
Per introdurre al significato della Colletta Alimentare, viene proposta una frase che sottolinea il valore
educativo dell’iniziativa:
La durezza del tempo presente colpisce ormai tutto il nostro popolo. La solitudine e la fragilità dei legami familiari e
sociali rendono le persone ancora più povere, in uno scenario economico già allarmante. In questa situazione, il semplice
gesto di carità cristiana, che è il condividere la propria spesa con il più povero, è come “accendere un accendino nel
buio”. L’estraneità e la paura sono sconfitte, può nascere un’amicizia che rilancia nella realtà col gusto di essere
nuovamente protagonisti, sostenendosi nella quotidiana fatica del vivere.
La Giornata Nazionale della Colletta Alimentare è resa possibile grazie alla collaborazione con l’Associazione
Nazionale Alpini e la Società San Vincenzo De Paoli, e gode dell’Alto Patronato della Presidenza della
Repubblica, del patrocinio del Segretariato Sociale della Rai e della Giornata Mondiale dell'Alimentazione.
Per informazioni su quali punti vendita aderiscono all’iniziativa oppure su come dare la propria disponibilità
per fare il volontario è possibile chiamare lo 02.896.584.50 oppure visitate il sito www.bancoalimentare.it.
Si ringraziano: Intesa Sanpaolo-Banca Prossima, Fastweb, Aurora, Comieco, FNM
Per ulteriori informazioni: Francesco Lovati cell. 334.64.08.185 ufficiostampa@bancoalimentare.it

La fede non è un pensiero, un'opinione, un'idea. E' comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, conformità con Lui

mercoledì 26 novembre 2008
CATECHESI DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio.
Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi "giusto" con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire "giusto" davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua "giustizia" unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede.

In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende "giusti". Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.

Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della "giustificazione" mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità.
In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: "In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le "opere della carne" che sono "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria..." (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l'amore,per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé.

Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio.

Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore.
E’ il cosiddetto inno alla carità: "Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse..." (1 Cor 13,1.4-5).

L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per "Colui che è morto e risorto per noi" (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.

Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito.

Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: "Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta" (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4).

Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata "con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore.

Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita", dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16).

Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, "tutto fosse loro lecito".

E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli.

Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19) .

Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto "ragionevole" e insieme "spirituale", per cui siamo esortati da Paolo a "offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti "dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male" (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.

Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito.

Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo.

Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore "folle" di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore

Benedetto XVI /Rinnovato dialogo tra estetica ed etica,tra bellezza,verità e bonta

Il Papa: necessario rinnovare il dialogo tra bellezza e verità
DA ROMA
SALVATORE MAZZA
U na ricerca della bellezza «che fosse estranea o avul­sa dall’umana ricerca della verità e della bontà», rischia conti­nuamente di trasformarsi, «come purtroppo succede, in mero este­tismo ». Questo, «soprattutto per i più giovani», si traduce spesso «in un itinerario che sfocia nell’effi­mero, nell’apparire banale e su­perficiale o addirittura in una fuga verso paradisi artificiali, che ma­scherano e na­scondono il vuoto e l’inconsistenza interiore». Ciò a cui dunque il «di­battito culturale ed artistico» e la «realtà quotidiana» ci richiamano, è «la necessità e l’urgen­za di un rinnovato dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza, verità e bontà». Lo ha scritto Benedetto XVI nel messag­gio inviato a monsignor Gianfran­co Ravasi, presidente del Pontifi­cio Consiglio della cultura, letto dal cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone ieri mat­tina, nel corso della tredicesima seduta pubblica delle Pontificie Accademie dedicata al tema «Uni­versalità della bellezza: estetica ed etica a confronto». Secondo il Pa­pa, «a diversi livelli, infatti, emerge drammaticamente la scissione, e talvolta il contrasto tra le due di­mensioni, quella della ricerca del­la bellezza, compresa però ridutti­vamente come forma esteriore, come apparenza da perseguire a tutti i costi, e quella della verità e bontà delle azioni che si compio­no per realizzare una certa fina­lità ». Nel messaggio, così, il Ponte- fice torna a sottolineare «la neces­sità e l’impegno di un allargamen­to degli orizzonti della ragione». E, sottolinea, «in questa prospettiva bisogna tornare a comprendere anche l’intima connessione che lega la ricerca della bellezza con la ricerca della verità e della bontà», in quanto «una ragione che voles­se spogliarsi della bellezza risulte­rebbe dimezzata, come anche una bellezza priva di ragione si ridur­rebbe ad una maschera vuota ed illusoria». Richiamando quindi quanto da egli stesso affermato lo scorso 6 agosto, in occasione dell’in­contro con il clero della diocesi di Bressanone duran­te il suo soggiorno nella cittadina al­toatesina, il Papa osserva come sia necessario «mirare a una ragione mol­to ampliata, nella quale cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. Se questo impe­gno è valido per tutti, lo è ancor di più per il credente, per il discepolo di Cristo, chia­mato dal Signore a 'ren­dere ragione' a tutti della bellezza e della verità del­la propria fede». A questo riguardo Benedetto XVI ha ricordato la Lettera a­gli artisti di Giovanni Paolo II, «che invitava a riflettere sull’intimo e fe­condo dialogo tra la Sacra Scrittura e le diverse for­me artistiche, da cui sono scaturiti innumerevoli capolavori». A dieci anni dalla pubblicazione di quel testo, Papa Ratzinger invita oggi a rimeditarla e a farne oggetto di u­na rinnovata riflessione. «Mi rivol­go particolarmente a voi, cari ac­cademici e artisti – scrive il Ponte­fice – perché è proprio questo il vostro compito, la vostra missio­ne: suscitare meraviglia e deside­rio del bello, formare la sensibilità degli animi e alimentare la passio­ne per tutto ciò che è autentica e­spressione del genio umano e ri­flesso della bellezza divina». Ad a­prire la seduta, conclusasi con la consegna a Daniele Piccini del premio delle Pontificie Accademie da parte del cardinale Bertone, era stato monsignor Ravasi, per il quale «in un mondo sfregiato dalla bruttura e dalla bruttezza», occor­re «ritrovare la bellezza anche nel fare il bene». «La bellezza, per la Bibbia, è anche – ha osservato Ra­vasi – una teofania, un’epifania di Dio», per questo si può dire che nelle Sacre Scritture, in altre paro­le, «non c’è estetismo fine a se stesso», in quanto «la vera estetica non può mai prescindere dalla ri­cerca del suo fondamento». E dunque «vivere nella Bibbia – ha concluso – è un modo per fare teologia, per entrare nello splen­dore di Dio».
Nel messaggio alle Pontificie Accademie l’invito ad allargare gli orizzonti della ragione

SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA

Editoriale Avvenire 26/11/08
di MARINA CORRADI
Di fronte all’ansia, che trapela o­gni tanto in questo o quel Paese d’Europa, di eliminare il crocifisso dai luoghi pubblici – idea subito accolta da qualche intellettuale italiano con compiacimento, quasi fosse urgente liberare aule e ospedali da quelle mu­te effigi di un Uomo straziato – ci vie­ne da fare una domanda, da avanza­re un dubbio, diciamo, un po’ in­quieto. Forse anche perché da giorni tv e stampa non parlano che di quel­la ragazza in stato vegetativo, e del fatto che si vuole staccare la sonda che la nutre e disseta.
Come una battaglia oscuramente simmetrica: il crocifisso è l’emblema della sofferenza del Dio fattosi uomo; il volto di Eluana Englaro, invisibile ma incombente nel dialogo di questi giorni, è un’icona della sofferenza de­gli uomini. Il crocifisso, e la donna immobile e inerme: come casual­mente si combatte in due Paesi di for­te tradizione cattolica perché l’uno, e l’altra, spariscano.
Ma dicevamo di un dubbio. Sappia­mo bene che le civiltà antiche, non solo primitive ma anche progredite, eliminavano i figli imperfetti, e la­sciavano moribondi e appestati al lo­ro destino. Era questa, la norma fra gli uomini: vive il sano, il più forte, vi­ve chi si può difendere. L’evento sto­rico che capovolge lo sguardo sui sof­ferenti è il cristianesimo. È il Me­dioevo cristiano che inaugura in Oc­cidente gli ospedali, e per primi quel­li per i diseredati, per gli ' incurabili', nome che ancora adesso portano nel­le nostre città alcuni istituti.
La domanda allora è: procedendo nella espulsione ideale di Cristo dal­la nostra forma mentale, espulsione di cui la lotta al crocifisso è un sim­bolo, è prevedibile, oppure no, che anche lo sguardo verso i malati subi­sca una lenta ma inesorabile trasfor­mazione? Madre Teresa a chi le chie­deva perché si portava a casa i mori­bondi di Calcutta rispondeva che e­ra semplicemente perché in ognuno di loro riconosceva il volto di Cristo. L’origine della carità cristiana è que­sta: non buonismo, non un alato al­truismo, ma il riconoscere, nella fac­cia dell’altro sofferente, Cristo. Ma, se questo nesso si affievolisce nella me­moria, se addirittura quel silenzioso simbolo sui muri suscita insofferen­za e ribellione, viene da chiedersi se la buona volontà, i ' valori', la uma­na solidarietà davvero basterebbero per continuare a praticare la carità ' inventata' dai cristiani. Se baste­rebbero, queste pur buone intenzio­ni, staccate dalla loro storica radice, a continuare a trattare come uomini anche i più vecchi, i dementi, i disa­bili storpiati da malattie inguaribili.
O forse invece il naturale istinto u­mano davanti alla sofferenza senza rimedio è quello del rifiuto, del non volere vedere, dell’eliminare ' per pietà'? Le civiltà antiche lasciavano indietro inguaribili e deformi, come zavorra che un’umanità efficiente non poteva portare con sé. Il cristia­nesimo ha introdotto un altro sguar­do. È realistico pensare che il porta­to del cristianesimo possa sopravvi­vere ' senza' Cristo? Sappiamo che schiere di laici ottimisti diranno che certamente, che diamine, che i con­divisi ' valori' di quel Dio ucciso non hanno alcun bisogno.
Quanto a noi, ricordiamo inquieti un verso di Eliot dei Cori da la Rocca: « A­vete bisogno che vi si dica che persi­no modeste cognizioni / che vi per­mettono d’essere orgogliosi di una società educata / difficilmente so­pravvivranno alla Fede cui devono il loro significato? » . Quel dubbio, già negli anni Trenta, come la percezio­ne di una possibile alienata deriva. La profezia di un grande poeta av­vertiva che tutto ciò che ci sembra ac­quisito, se perde la radice, può co­minciare a tremare.

lunedì 24 novembre 2008

Cristo alla prova dei fatti- Intervista ad Antonio Socci



IL 26 NOVEMBRE ARRIVA IN LIBRERIA “INDAGINE SU GESU’ ”. Vi confesso che…
Cari amici,
molti di voi mi hanno scritto per saperne di più del mio libro “Indagine su Gesù” che la Rizzoli manderà in libreria dal 26 novembre. E’ un’impresa a cui lavoravo da anni così ho colto l’occasione anche per rispondere a tante corbellerie che in questi tempi sono state date alle stampe sull’argomento.

Ma soprattutto, devo confessarvi, questo lavoro mi ha appassionato, entusiasmato, commosso perché mi ha fatto fissare lo sguardo sul più appassionante degli argomenti e dei volti: Gesù. E’ impossibile posare gli occhi e il pensiero su di lui senza restarne affascinati. Per chiunque. Del resto in uno dei primi capitoli del libro sono proprio andato alla ricerca dell’impatto che Gesù ebbe su personaggi a lui lontanissimi e nemici (da Marx e Nietzsche, per capirci) ed è stato sorprendente per me scoprire come tutti...


Intervista DI ANDREA GALLI

L o «strano cristiano» Antonio Socci – giornalista, saggista, apologeta – dopo una serie di indagini su alcuni grandi misteri della Chiesa del ’900, torna indietro di 2000 anni, con Indagine su Gesù
(Rizzoli, pp. 346, euro 18.50), che esce domani in libreria.
Socci: dopo Medjugorie, i martiri del XX secolo, Padre Pio, come mai proprio ora un ritorno al «fondamento»?
«Negli anni ’80 mi occupai molto dei frammenti 7Q5 e 7Q4 di Qumran sulla scia degli studi di padre José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede. Iniziai così una serie di inchieste sulle scoperte relative al Nuovo Testamento, che confluì nel volume Vangeli e storicità
(Rizzoli). Studio da venti anni l’epoca e la vita di Gesù. È la passione della mia vita».
Cosa pensi di questo piccolo boom di libri demitizzanti sulla figura di Cristo?
«Perlopiù sono vecchie tesi razionaliste già confutate.
Anche dalle scoperte archeologiche. Mi sconcerta di questa pubblicistica anzitutto la sommarietà delle analisi e poi il preconcetto ideologico.
Nella Storia della ricerca della Vita di Gesù, Albert Schweitzer riconosce apertamente che all’origine delle più famose vite di Gesù laico-illuministe c’è l’odio. Dice espressamente così. L’odio contro 'il nembo soprannaturale' che avvolgeva la persona di Gesù. Essi pregiudizialmente vogliono 'strappargli' la divinità e gettargli sulle spalle 'i suoi stracci' per farlo diventare un uomo qualunque. È un’ammissione importante, visto che il lavoro di Schweitzer si muoveva proprio in quel senso».
Per quanto riguarda la sommarietà, vedo che in una nota di poche righe del tuo libro elenchi una decina di svarioni di «Inchiesta sul cristianesimo» di Augias e Cacitti, ma presentati dagli autori come «incontestabili verità».
«È un elenco parziale. Ma come si può prendere sul serio un libro dove si accostano ripetutamente i martiri cristiani e i terroristi di Al Qaeda, o dove si afferma che Gesù 'non ha mai detto di voler fondare una Chiesa'?».
Eppure libri anche più che approssimativi su Gesù hanno successo. Perché, secondo te?
«Perché il fascino di Gesù è sempre irresistibile.
Fortissimo il desiderio di confrontarsi con lui. Ho dedicato a questo fenomeno il secondo capitolo del mio libro, scoprendo una serie sorprendente di personalità che hanno avvertito questa attrazione (anche nemici come Marx, Nietzsche o Renan)».
Rispolveri pure le poco note «Conversazioni religiose» di Napoleone a Sant’Elena...
«Sì, un documento impressionante, soprattutto se pensiamo a cosa è stato Napoleone per la Chiesa: un persecutore. A Sant’Elena, dimenticato in fretta dai suoi, l’ex condottiero riflette con grande lucidità sulla straordinaria figura di Gesù e sulla misteriosa conquista cristiana del mondo, sulle inermi truppe di Cristo, sulla forza sconosciuta che permette alla Chiesa di resistere nel tempo, mentre tutto passa e i troni crollano. Napoleone conclude affermando che questo si spiega solo se Gesù è vivo e presente, perché è Dio ed è risorto davvero».
Cosa ti ha colpito di più nella ricerca del «volto» di Gesù di Nazaret?
«Ho seguito tre grandi autori, Romano Guardini, Karl Adam e Luigi Giussani, che hanno penetrato con impareggiabile profondità la vita e la personalità umana di Gesù. Alla fine, ciò che colpisce, oggi come colpiva duemila anni fa, in sintesi, è la bellezza della sua umanità. Ciò che faceva dire a A. J. Mohler: 'Io penso che non potrei più vivere se non lo sentissi più parlare'.
Una bellezza i cui barlumi è possibile sempre ritrovare nelle personalità dei santi».
Come mai la scelta di concentrarti tanto, invece, sulla questione delle profezie ebraiche riguardo al Messia? È il capitolo più lungo del libro.
«Perché è un fatto straordinario che viene inspiegabilmente eluso o trattato con superficialità, anche in ambito cristiano.
Abbiamo testi antichissimi, che già il popolo ebraico riteneva ispirati direttamente da Dio, la Sacra Scrittura, in cui sono presenti circa 300 profezie messianiche. Tutte, nessuna esclusa, trovano una perfetta corrispondenza nella vicenda di Gesù di Nazaret. È un caso unico, un mistero storico prima che teologico, che dovrebbe interpellare chiunque. Jean Guitton diceva che 'nessuna mente scientifica, a maggior ragione filosofica, dovrebbe considerarsi tranquilla finché la questione non sia stata risolta'. L’enigma arriva fino ad alcuni testi messianici ritrovati a Qumran, dove, in base alle profezie di Daniele, si attendeva la venuta del Messia tra il 10 a.C. e il 2 d.C. Non è stupefacente?».
Profezie e anche miracoli: nel capitolo sulla Risurrezione ti soffermi lungamente sulla «prova» della Sindone. Non temi di essere considerato un po’ troppo «grossier» per certi palati teologici?
«Sulla Sindone ci sono novità scientifiche davvero sorprendenti che esigono una nuova riflessione. Infine l’importanza e il significato dei miracoli e delle profezie sono affermati chiaramente nella costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I, la Dei Filius, che li definisce 'segni certissimi della divina Rivelazione e adatti all’intelligenza di tutti'. Oltre ai Vangeli, la 'prova' della Risurrezione di Gesù sta nei fatti».

IL 26 NOVEMBRE ARRIVA IN LIBRERIA “INDAGINE SU GESU’ ”. Vi confesso che… 22.11.2008
Cari amici,
molti voi mi hanno scritto per saperne di più del mio libro “Indagine su Gesù” che la Rizzoli manderà in libreria dal 26 novembre. E’ un’impresa a cui lavoravo da anni così ho colto l’occasione anche per rispondere a tante corbellerie che in questi tempi sono state date alle stampe sull’argomento.

Ma soprattutto, devo confessarvi, questo lavoro mi ha appassionato, entusiasmato, commosso perché mi ha fatto fissare lo sguardo sul più appassionante degli argomenti e dei volti: Gesù. E’ impossibile posare gli occhi e il pensiero su di lui senza restarne affascinati. Per chiunque. Del resto in uno dei primi capitoli del libro sono proprio andato alla ricerca dell’impatto che Gesù ebbe su personaggi a lui lontanissimi e nemici (da Marx e Nietzsche, per capirci) ed è stato sorprendente per me scoprire come tutti...

domenica 23 novembre 2008

C'è un mistero in ogni vita di don Julian Carron


Avvenire 23/11/2008
DA LECCO

L asciarsi provocare dalla realtà, metten­dosi di fronte ' a ciò che capita nella vita'. Con questo atteggiamento, i lecchesi hanno incontra­to l’altra sera il presidente della Fraternità di Comu­nione e Liberazione, Ju­lian Carron, invitato in città per parlare a una scuola di comunità sul ca­so di Eluana Englaro. L’in­contro è partito proprio da un volantino di giudizio sulla vicenda, intitolato «Caso Eluana. Carità o vio­lenza? », scritto a partire da una riflessione di don Giussani sulla « fatica del vivere » .
« La riflessione principale che siamo chiamati a compiere – ha sottolinea­to Carron – riguarda la pri­ma evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. Per que­sto siamo chiamati a rico­noscere il Mistero che sta dentro ciascuna vita, che non può essere ridotta ai fattori antecedenti » .
Detto diversamente, la vi­ta non può essere « misu­rata » secondo parametri esclusivamente biologici, sociologici o psicologici, perché è voluta, appunto, da un Mistero più grande. È questa la ' sfida' che at­tende gli uomini, cristiani e non, secondo Carron che, durante il proprio in­tervento, non ha mai fat­to cenno alle polemiche di queste settimane sulla le­gittimità o meno di stac­care il sondino nasoga­strico che, da sedici anni, alimenta e idrata la giova­ne donna lecchese. Il sa­cerdote ha anche più vol­te parlato della situazione « dell’amico Gianni » , un uomo, nelle condizioni di Eluana, ricoverato proprio nella stanza accanto a quella della donna nella casa di cura Beato Luigi Talamoni di Lecco. Anche per lui e per i suoi familia­ri è quotidiana la ' fatica' di riconoscere il significa­to di una vita trascorsa nel letto di una clinica, ma u­gualmente voluta e amata dal Mistero. Un’evidenza che dà valore alla vita, a ciascuna vita, qualunque sia la sua condizione. « Nessuna vita – ha ricor­dato don Carron – ha un valore minore perché de­bole o fragile, perché cia­scuna vita è in rapporto col Mistero » .
Il presidente della Fraternità di Cl a Lecco: l’esistenza non si può misurare con parametri esclusivamente biologici


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Don Julian Carron

Se ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina- Angelus 23novembre 2008

SOLENNITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
RE DELL'UNIVERSO

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 23 novembre 2008



Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi, ultima domenica dell’anno liturgico, la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo. Sappiamo dai Vangeli che Gesù rifiutò il titolo di re quando esso era inteso in senso politico, alla stregua dei "capi delle nazioni" (cfr Mt 20,24). Invece, durante la sua passione, egli rivendicò una singolare regalità davanti a Pilato, il quale lo interrogò esplicitamente: "Tu sei re?", e Gesù rispose: "Tu lo dici, io sono re" (Gv 18,37); poco prima però aveva dichiarato: "il mio regno non è di questo mondo" (Gv 18,36). La regalità di Cristo, infatti, è rivelazione e attuazione di quella di Dio Padre, il quale governa tutte le cose con amore e con giustizia. Il Padre ha affidato al Figlio la missione di dare agli uomini la vita eterna amandoli fino al supremo sacrificio, e nello stesso tempo gli ha conferito il potere di giudicarli, dal momento che si è fatto Figlio dell’uomo, in tutto simile a noi (cfr Gv 5,21-22.26-27).

Il Vangelo odierno insiste proprio sulla regalità universale di Cristo giudice, con la stupenda parabola del giudizio finale, che san Matteo ha collocato immediatamente prima del racconto della Passione (25,31-46). Le immagini sono semplici, il linguaggio è popolare, ma il messaggio è estremamente importante: è la verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati. "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35) e così via. Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali. In effetti, il regno di Cristo non è di questo mondo, ma porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia. Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.
Cari amici, il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive san Paolo, è "giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita, e che specialmente i suoi figli più "piccoli" possano accedere al banchetto che lui ha preparato per tutti. Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice "Signore, Signore" e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola. Per questo la Vergine Maria, la più umile di tutte le creature, è la più grande ai suoi occhi e siede Regina alla destra di Cristo Re. Alla sua celeste intercessione vogliamo affidarci ancora una volta con fiducia filiale, per poter realizzare la nostra missione cristiana nel mondo.


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Praticare iniquità o giustizia. Benedetto XVI ai partecipanti al pellegrinaggio dell'arcidiocesi di Amalfi-Cava de' Tirreni


Cristo si identifica con i suoi "fratelli più piccoli", e il giudizio finale sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena.
Cari fratelli e sorelle, è questo ciò che interessa a Dio. A Lui non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo: Egli è re dell'universo intero, ma il punto critico, la zona dove il suo regno è a rischio, è il nostro cuore, perché lì Dio si incontra con la nostra libertà. Noi, e solo noi, possiamo impedirgli di regnare su noi stessi, e quindi possiamo porre ostacolo alla sua regalità sul mondo: sulla famiglia, sulla società, sulla storia. Noi uomini e donne abbiamo la facoltà di scegliere con chi vogliamo allearci: se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti, per usare lo stesso linguaggio del Vangelo. Sta a noi decidere se praticare la giustizia o l'iniquità, se abbracciare l'amore e il perdono o la vendetta e l'odio omicida. Da questo dipende la nostra salvezza personale, ma anche la salvezza del mondo. Ecco perché Gesù vuole associarci alla sua regalità; ecco perché ci invita a collaborare all'avvento del suo Regno di amore, di giustizia e di pace. Sta a noi rispondergli, non con le parole, ma con i fatti: scegliendo la via dell'amore fattivo e generoso verso il prossimo, noi permettiamo a Lui di estendere la sua signoria nel tempo e nello spazio. Vi aiuti sant'Andrea a rinnovare con coraggio la vostra decisione di appartenere a Cristo e di porvi al servizio del suo Regno di giustizia, di pace e di amore, e la Vergine Maria, Madre di Gesù nostro Re, protegga sempre le vostre comunità. Da parte mia, vi assicuro il ricordo nella preghiera mentre, ringraziandovi ancora per la vostra visita, di cuore tutti vi benedico.
(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)

AI TG PIACCIONO PIU' GLI ORSI DEI CRISTIANI

Scritto da: Riccardo Cascio
Il Timone
A quanti, seguendo i TG serali, si sono preoccupati nei giorni scorsi per la sorte di nove orsi polari farà sicuramente bene sapere che si trattava della ormai solita bufala ecologista. L’ha smascherata il sito SVIPOP con una ricostruzione puntuale dei fatti: si è partiti da un casuale – e unico - avvistamento a metà agosto da parte di un aereo governativo americano che era in zona per tutt’altro, per costruirci poi un romanzo che è andato arricchendosi via via di dettagli e ipotesi fantasiose senza alcun riscontro reale. Per quanto ne sappiamo, dunque, quegli orsi probabilmente stavano tranquillamente nuotando per fatti loro come è normale che facciano.

La cosa che però qui ci interessa maggiormente è il fatto che le redazioni RAI e Mediaset avevano tutta la possibilità di verificare la fondatezza o meno della notizia, ma hanno preferito spararla così, evidentemente hanno ritenuto che queste notizie aumentano gli ascolti. Senonché proprio negli stessi giorni – come abbiamo ricordato in una precedente notizia – nello stato indiano dell’Orissa si è registrata un’ondata di violenze contro i cristiani che ha provocato dai 50 ai 100 morti (a seconda delle fonti) e decine di migliaia di sfollati. E di questo TG1 e TG5 hanno preferito non dare conto. Peraltro la situazione nell’Orissa e in altri stati indiani è da anni critica per i cristiani, non si tratta perciò di un episodio isolato, e meriterebbe perciò qualche approfondimento.

Dunque di fronte a due notizie – una drammaticamente vera, che coinvolge decine di migliaia di esseri umani, e una già “fortemente sospetta” e poi rivelatasi clamorosamente falsa, con nove orsi protagonisti – i due più importanti TG della sera hanno scelto di dare ampio risalto soltanto alla seconda (il fenomeno è vero anche per i maggiori quotidiani, ma la tv ha chiaramente un impatto ben diverso). La cosa dimostra che nelle notizie c’è una vera e propria gerarchia, condivisa sia dalle direzioni dei principali TG sia dal pubblico che li segue: la sorte degli animali è più importante della sorte degli esseri umani (anche la notizia degli orsi fosse stata vera, nove plantigradi contano più di decine di migliaia di uomini indiani); tra gli esseri umani poi, i cristiani sono in fondo alla graduatoria: pochi giorni prima la denuncia delle violenze sulla popolazione tibetana ha avuto ben altro risalto, mentre dei cristiani cinesi che soffrono uguale persecuzione nessuno ne parla e a loro nessuno dedica medaglie olimpiche.

Ma soprattutto dobbiamo notare che ormai anche nei TG dilaga la fiction, che ha preso il posto della realtà. Così una mega-bufala come quella degli orsi toglie lo spazio ad eventi reali come la persecuzione in India, non ultimo perché fa più spettacolo. Dobbiamo perciò abituarci a guardare ai canali informativi principali come a un’ulteriore forma di spettacolo, che non solo non ci informa veramente ma ci “distrae” dalla realtà.
Anche questo è un effetto della secolarizzazione, della perdita dell’identità cattolica. Il cristianesimo è l’unica religione che guarda alla realtà in modo positivo, perché la realtà è segno di Cristo. La realtà va dunque affrontata e vissuta per quello che è. Ma quando si perde questo significato la realtà diventa inconoscibile, fa paura. Allora ci si crea una realtà a propria immagine o ad uso e consumo del potere dominante. E’ bene prenderne chiaramente coscienza per non lasciarci ridurre in schiavitù, e tornare protagonisti nel mondo.

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI

di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"

Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.
«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .
Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .
Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo» .
Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”). E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.
Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .
È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.
L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .
Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».
«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.

Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani.

sabato 22 novembre 2008

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA AL COLLÈGE DES BERNARDINS

Parigi, venerdì 12 settembre 2008

LE ORIGINI DELLA TEOLOGIA OCCIDENTALE E LE RADICI DELLA CULTURA EUROPEA

Signor Cardinale,
Signora Ministro della Cultura,
Signor Sindaco,
Signor Cancelliere dell’Institut de France,
cari amici!

Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come i Signori Giscard d’Estaing e Chirac.

Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan in corso.
Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.

Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea.

Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale.

Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura.

Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato.

La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile.

Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.

Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.
La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola.
Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37).
Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).

E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. >
Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).

In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1).
Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.

I monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.

Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci.

La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi.Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento.
Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.

Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108).

Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo.

La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale.

Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra.

Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.

Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito.

Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo.

Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente del lavoro (cfr cap.48).
Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare.

I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17).

Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo.Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione. Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio.

Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare.
Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio.

Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno.

L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Logos, la Ragione della Speranza deve diventare apo-logia, la Parola deve diventare risposta).

Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.

Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile.

Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve eserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio. La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto.

Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.