domenica 16 novembre 2008

Intervento di Giancarlo Cesana durante l'incontro "Eluana Englaro"


Ampi stralci dell’ intervento di Giancarlo Cesana, professore di Igiene generale e applicata all’Università degli Studi di Milano, durante l’incontro “Eluana Englaro: il mistero della vita e il miracolo dell’accoglienza”, tenutosi al Teatro sociale di Lecco il 15 luglio 2008.


Giancarlo Cesana
Per quanto riguarda sia lo stato vegetativo persistente, sia la procedura legale, sia la vita – il senso della vita – possiamo dire di essere empiricamente incerti, cioè di essere in dubbio. Come quando si va a caccia e si vede muovere qualcosa dentro un cespuglio e non si sa se è un coniglio, o un bambino; cosa si fa in questo caso? Si spara? Evidentemente no. Don Luigi Giussani insegnava che la categoria più importante della ragione è la categoria della possibilità: la ragione cioè non deve ostacolare ciò che è possibile. Se è impossibile a me, ma è possibile ad altri, la ragione non deve ostacolare la possibilità altrui. Per Eluana Englaro c’è qualcuno (le suore Misericordine, ndr) che ha detto di essere disposto a prendersi cura di lei. Se la ragione nega la categoria della possibilità, la ragione diventa una misura inevitabilmente violenta sull’altro.
C’è una seconda questione: qual è il senso della malattia? Di fronte a un caso come questo, domandarsi il senso non vuol dire cercare di spiegare tutto, ma significa domandarsi che cosa c’entra con me; che cosa c’entro io con Eluana. (…)
Già Shakespeare diceva: «La vita è una lunga agonia». L’uomo è mortale e, alla fine, tutti moriamo. La medicina non è nata per curare, ma per assistere. La medicina occidentale, come la conosciamo da Ippocrate in poi, era un’arte incapace di curare la gente, tant’è vero che, nell’epoca classica, prima del cristianesimo, gli ammalati venivano allontanati dal popolo perché, tra l’altro, se infettivi, erano pericolosi. Col cristianesimo, sono nati gli ospedali e gli ammalati hanno cominciato ad essere assistiti. Questo perché si sapeva curarli? No! A Napoli, per esempio, c’è l’ospedale degli incurabili, dove erano ospitate persone, appunto, incurabili: erano incurabili nei primi secoli dopo Cristo, esattamente come erano incurabili prima. Si è cominciato a curarli perché la malattia non è più stata vista come un ostacolo insormontabile alla vita; perché l’ultima parola sulla vita non era più la morte; perché il Cristo era risorto.
Questa esperienza ha fatto nascere gli ospedali e la medicina occidentale; ha spinto gli infermieri a curare la gente che era pericolosa. Si è cominciato così a intendere la malattia non come qualcosa che nega, ma come qualcosa che, imprevedibilmente, afferma. La pietà, infatti, da dove viene? Aver pietà di uno che è fragile, che cosa significa? Significa riconoscere, dentro la fragilità, un positivo. Il cinismo che troviamo nei giornali a riguardo della vita e del trattamento degli ammalati, viene dal fatto che se la vita comincia a declinare, non ha più un senso, non c’entra più niente con me. E quindi, non solo la si lascia andare, ma si può pensare attivamente anche di eliminarla. La ragione, quando non accetta la categoria della possibilità, diventa violenta. La morte fa veramente paura e questa paura va allontanata dagli occhi.
Il problema che Solleva Eluana Englaro è proprio questo.
Ed è un problema che si pone non solo ai medici. La nostra ragione si spaventa davanti alla malattia e alla morte perché non comprende più – allontanandosi da una cultura positiva della vita – che il mistero non è un’astrazione, non è un fantasma: è concretamente presente. La mia vita è un mistero perché non me la sono data io. Ultimamente, non so di cosa sia fatta. (…)
Le suore che assistono Eluana Englaro dimostrano una speranza contro ogni speranza perché di fronte alla disperazione con cui si può guardare questa donna, loro, invece, continuano a sperare. Le vogliono bene. Affermano che lei, per loro, vale: questa è la presenza positiva! Vale con i nostri figli, con i poveri, con gli ammalati; vale per tutto. Questo è il cristianesimo, senza del quale non c’è più comprensione di niente.
Quando Gesù incontra il cieco nato, la gente gli chiede chi – lui, o i suoi genitori – abbia peccato, perché nell’antichità la malattia era considerata una maledizione. Gesù gli risponde che la sua malattia non deriva da un fatto di colpevolezza, ma che lui è cieco nato «perché si dimostrasse la gloria di Dio e si vedesse che Io sono capace di guarirlo». Il senso della malattia è quindi la vittoria sulla morte. La malattia ci fa vedere che siamo fragili, che siamo destinati alla morte, che dobbiamo passare attraverso la morte. Ma la morte non è tutto: questo è il senso della malattia e, senza Cristo, non è possibile affermare questo senso.
Per amare la vita, anche nel momento di maggiore fragilità, quando tutto sembra sia finito, bisogna avere quella «Spe contra spem», quella speranza contro ogni speranza di cui parlava san Paolo. Se non si fosse fatto così, il progresso della medicina non ci sarebbe stato; se non ci si fosse messi a curare gli ammalati a rischio della vita, con la speranza che si potesse vincere – con un senso di vittoria ultimo sulle cose, un senso positivo della storia e del mondo –; se non si fosse fatto così, la medicina non ci sarebbe. Da questo punto di vista, quando si dice che gli ammalati partecipano alla sofferenza di Cristo si dice proprio che, con la loro condizione, ci richiamano a cercare di capire cosa siamo al mondo a fare. Che Eluana Englaro sia viva, nelle sue condizioni, dopo sedici anni, significa che sono sedici anni che ci sta richiamando a questo. E non c’è solo lei, ce ne sono molti altri. Perché far finire questo richiamo?
(appunti non rivisti dall'autore)

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