mercoledì 26 novembre 2008

SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA

Editoriale Avvenire 26/11/08
di MARINA CORRADI
Di fronte all’ansia, che trapela o­gni tanto in questo o quel Paese d’Europa, di eliminare il crocifisso dai luoghi pubblici – idea subito accolta da qualche intellettuale italiano con compiacimento, quasi fosse urgente liberare aule e ospedali da quelle mu­te effigi di un Uomo straziato – ci vie­ne da fare una domanda, da avanza­re un dubbio, diciamo, un po’ in­quieto. Forse anche perché da giorni tv e stampa non parlano che di quel­la ragazza in stato vegetativo, e del fatto che si vuole staccare la sonda che la nutre e disseta.
Come una battaglia oscuramente simmetrica: il crocifisso è l’emblema della sofferenza del Dio fattosi uomo; il volto di Eluana Englaro, invisibile ma incombente nel dialogo di questi giorni, è un’icona della sofferenza de­gli uomini. Il crocifisso, e la donna immobile e inerme: come casual­mente si combatte in due Paesi di for­te tradizione cattolica perché l’uno, e l’altra, spariscano.
Ma dicevamo di un dubbio. Sappia­mo bene che le civiltà antiche, non solo primitive ma anche progredite, eliminavano i figli imperfetti, e la­sciavano moribondi e appestati al lo­ro destino. Era questa, la norma fra gli uomini: vive il sano, il più forte, vi­ve chi si può difendere. L’evento sto­rico che capovolge lo sguardo sui sof­ferenti è il cristianesimo. È il Me­dioevo cristiano che inaugura in Oc­cidente gli ospedali, e per primi quel­li per i diseredati, per gli ' incurabili', nome che ancora adesso portano nel­le nostre città alcuni istituti.
La domanda allora è: procedendo nella espulsione ideale di Cristo dal­la nostra forma mentale, espulsione di cui la lotta al crocifisso è un sim­bolo, è prevedibile, oppure no, che anche lo sguardo verso i malati subi­sca una lenta ma inesorabile trasfor­mazione? Madre Teresa a chi le chie­deva perché si portava a casa i mori­bondi di Calcutta rispondeva che e­ra semplicemente perché in ognuno di loro riconosceva il volto di Cristo. L’origine della carità cristiana è que­sta: non buonismo, non un alato al­truismo, ma il riconoscere, nella fac­cia dell’altro sofferente, Cristo. Ma, se questo nesso si affievolisce nella me­moria, se addirittura quel silenzioso simbolo sui muri suscita insofferen­za e ribellione, viene da chiedersi se la buona volontà, i ' valori', la uma­na solidarietà davvero basterebbero per continuare a praticare la carità ' inventata' dai cristiani. Se baste­rebbero, queste pur buone intenzio­ni, staccate dalla loro storica radice, a continuare a trattare come uomini anche i più vecchi, i dementi, i disa­bili storpiati da malattie inguaribili.
O forse invece il naturale istinto u­mano davanti alla sofferenza senza rimedio è quello del rifiuto, del non volere vedere, dell’eliminare ' per pietà'? Le civiltà antiche lasciavano indietro inguaribili e deformi, come zavorra che un’umanità efficiente non poteva portare con sé. Il cristia­nesimo ha introdotto un altro sguar­do. È realistico pensare che il porta­to del cristianesimo possa sopravvi­vere ' senza' Cristo? Sappiamo che schiere di laici ottimisti diranno che certamente, che diamine, che i con­divisi ' valori' di quel Dio ucciso non hanno alcun bisogno.
Quanto a noi, ricordiamo inquieti un verso di Eliot dei Cori da la Rocca: « A­vete bisogno che vi si dica che persi­no modeste cognizioni / che vi per­mettono d’essere orgogliosi di una società educata / difficilmente so­pravvivranno alla Fede cui devono il loro significato? » . Quel dubbio, già negli anni Trenta, come la percezio­ne di una possibile alienata deriva. La profezia di un grande poeta av­vertiva che tutto ciò che ci sembra ac­quisito, se perde la radice, può co­minciare a tremare.

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