venerdì 30 marzo 2012
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 28 marzo 2012
Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, capitoli III e IV, Rizzoli, Milano 2011, pp.33-56.
• I Wonder
• Il giovane ricco
Gloria
Prima di cominciare ad affrontare quello che ci siamo dati come tema di oggi vorrei dire una parolasul modo di fare la Scuola di comunità, perché il tentativo che stiamo facendo quest’anno è verificare se il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi due anni comincia ad affermarsi come metodo.
Se non è così, ritorniamo al punto di partenza e la Scuola di comunità non dà il contributo che, come gesto, deve dare (e lo si vede nella modalità con cui noi la facciamo). Questo evidentemente ha dei rischi: sarebbe più facile venire qui per ascoltare una lezione e andare via tutti, come qualcuno propone, ma questo non produrrebbe quello che cerchiamo di ottenere: che diventi familiare un certo modo di fare la Scuola di comunità. Ma siccome qualcuno ha qualche perplessità
voglio affrontarla. Una persona mi scrive: «Mi sembra che la forma assembleare, dentro una ricchezza di esemplificazioni e di testimonianze, non stia aiutando nel lavoro specifico sul contenuto del testo. In particolare, l’ultima volta dagli interventi mi è sembrato come se il testo, che tu definisci in questo capitolo decisivo, non sia stato oggetto di un lavoro di paragone. Ognuno dice
la sua pur significativa esperienza, ma senza nesso con il contenuto del testo; almeno, io non l’ho colto [ed è importante rendersene conto, perché altrimenti non impariamo]. In fin dei conti è una “scuola”, per cui il primo scopo è il paragone con un maestro e con il contenuto che lui esprime, innanzitutto con il desiderio di capire cosa dice. Io sento necessario, per me e per alcuni amici con cui sono, un momento in cui la Scuola di comunità sia “presentata” e approfondita nel suo
contenuto nella provocazione che rappresenta per la vita». Questa presentazione è già stata fatta il 25 gennaio... Adesso occorre rischiare, anche se i compiti a volte non li facciamo bene. A me non preoccupa questo, perché non veniamo qui per fare bella figura, ma per imparare; se a voi preoccupa, mi dispiace per voi, a me non preoccupa. A me preoccupa che noi impariamo, mi preoccupa innanzitutto per me stesso. Allora l’unica modalità è che ciascuno testimoni il proprio tentativo, perché è così che possiamo aiutarci a vedere se il tentativo che stiamo facendo è adeguato per imparare. Questo è il paragone che qui facciamo, come mi ha scritto un’altra persona dopo l’ultima Scuola di comunità: «Che scossa ieri sera accorgersi di quanto viviamo estraniati da noi stessi, al punto che non ci rendiamo conto che noi – io, non gli altri – viviamo le riduzioni del cristianesimo da cui don Gius ci mette in guardia. Ti confesso che senza di te non avrei capito questo mese di Scuola di comunità [il paragone c’è!], nonostante [questo è il punto] l’abbia letta
tutti i giorni, nonostante abbia partecipato a tutti i nostri incontri possibili. È sotto il tuo sguardo che ritrovo me stessa». È in questo che dobbiamo aiutarci. Mi è caduto tra le mani un testo che mi è stato utile per un paragone. È tratto da Qualcosa che viene prima, dove Giussani descrive ancora una volta che cosa è la Scuola di comunità. «Occorre che chi guida la “Scuola di comunità” comunichi una esperienza nella quale si rinnovi lo stupore iniziale e non invece svolga un ruolo o
un “compito”. Non può essere comunicazione di un’esperienza quella che parte da una coscienza di se stessi come ruolo, che muove da una visione di sé come padronanza e superiorità, con la pretesa di insegnare. Perché chi insegna è soltanto lo Spirito di Dio: è lo Spirito che dà il primo sussulto e che lo rinnova. [Perciò] chi, guidando la “Scuola di comunità”, comunica un’esperienza nella quale riaccade la sorpresa iniziale, svolge questa comunicazione dando ragione delle parole che vengono
usate». È questo che dobbiamo domandare allo Spirito: che ogni volta che andiamo a Scuola di comunità riaccada la sorpresa iniziale senza la quale non si capisce neanche se la “spieghiamo” (a
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causa della riduzione che facciamo della conoscenza come spiegazione e non come avvenimento).Capiamo le cose quando accadono. Perciò è fondamentale aiutarci in questo. Uno mi scrive dicendo (lo leggo perché mi sembra utile per il lavoro comune): «All’ultima Scuola di comunità hai detto che ti aveva colpito il paragrafo iniziale dell’Introduzione del testo. In particolare ti colpiva che don
Giussani dica che “non considerare il cristianesimo in modo comunque riduttivo dipende dalla comprensività e completezza con cui uno percepisce (…) il senso religioso”. Se noi riduciamo il senso religioso cioè la natura del nostro io inevitabilmente riduciamo il cristianesimo». Chi mi scrive dice di non capire il rapporto che c’è tra questo e quello che ha letto nel capitolo di oggi:
«“Un’indagine sul senso religioso non porta a capire se il cristianesimo ci trasmette una notizia vera o falsa. Ho già enunciato questa posizione nel primo volume di questo corso: il metodo è imposto dall’oggetto, non è fissato dal soggetto. Il senso religioso è un fenomeno della persona, perciò abbiamo chiarito come il metodo per affrontarlo (…) sia la riflessione su se stessi. Invece se Cristo
abbia detto o no di essere Dio, e che sia o non sia Dio, e che ci raggiunga ancor oggi, è un problema storico, perciò il metodo deve essere corrispondente, e corrispondente alla gravità del problema”. Io da tutto questo ho capito che se non spalanco il mio cuore, se quindi non faccio un’indagine su me stesso, non posso capire la portata del messaggio cristiano. Però, ciò che dice don Giussani nel
capitolo terzo al paragrafo quattro sembra il contrario, ovvero che bisogna semplicemente stare davanti al fatto storico di Cristo». Sono due cose che occorre capire. Don Giussani dice che il senso religioso è diverso dal cristianesimo, perché il cristianesimo è un fatto storico e quindi non è attraverso una indagine su di me che io capisco se è successo il cristianesimo. Ma, allo stesso tempo, Giussani dice che senza che io sia presente, senza che io sia spalancato totalmente a questo –
il che non vuol dire che io debba fare ulteriori indagini su me stesso, bensì che io abbia consapevolezza di me stesso e di tutto il dramma che sono –, non posso capire, non posso cogliere che il fatto cristiano è accaduto. Capite? I discepoli Lo avevano davanti – abbiamo detto la volta scorsa –, ma preferivano il successo missionario alla Sua persona. Perché? Perché Gesù non era davanti a loro? No, è che per cogliere la diversità che c’era in Gesù occorreva che stessero di fronte a Lui con tutta la consapevolezza di se stessi. Per questo se noi non capiamo queste due cose che
non si tratta di compiere un’indagine su me stesso, da un lato, ma che senza avere consapevolezza di me stesso io non posso cogliere il cristianesimo, dall’altro, perché questo è il nodo dell’impostazione di tutto il libro: una tenera e appassionata coscienza di me –, Cristo sarà per noi un puro nome. Allora la questione è che io sia con tutta la mia umanità spalancata davanti al reale
per poter intercettare con il mio umano se succede qualcosa per cui dico: «Ah! È quello che cercavo». È decisivo capirlo se vogliamo non confondere le due cose. Spero di essermi spiegato. Allora, la domanda che ci eravamo dati è verificare dove noi possiamo intercettare se è successo o non è successo il cristianesimo, perché questa è la questione; adesso non è più un problema di riflessione su di sé, ma è un problema storico: è successo il cristianesimo, o no? Siamo da soli con i nostri tentativi di vivere la vita oppure è successo qualcosa di diverso? In che cosa possiamo riconoscerlo? In che cosa possiamo rintracciare che è successo questo cambiamento di metodo? Adesso non ci interessano tanto le conseguenze, ma il fatto di intercettare che è successo.
Cercando di fare la Scuola di comunità con questa domanda in mente devo dire che per molte settimane il ribaltamento del metodo, il fatto successo nella mia vita, spesso lo andavo a cercare in episodi del passato più o meno recente. E poi è successa una cosa, in realtà molto semplice, che per me è preziosa, perché mi pare che mi consegni tutta l’attualità e tutta la vita che c’è dentro questo “ribaltamento delle frecce”. In un momento di vita tutto sommato sereno in cui, dopo grandi
cambiamenti di lavoro, di vita in generale, mi sembra di aver ritrovato un nuovo equilibrio, domenica trascorro una bellissima giornata primaverile: una biciclettata con la mia famiglia (una delle cose che mi piace di più), e verso sera il Battesimo del figlio di un’amica, con uno stato d’animo di gioia, ma anche – perdonate – un po’ formale. E lì, durante la Messa, incomincio a sentire leggere il vangelo della resurrezione di Lazzaro, e a rivivere tutto quell’appassionato sguardo di Gesù su Lazzaro, Maria, Marta; e poi, durante l’omelia, tu spieghi questo brano
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dicendo: «Il gesto che noi stiamo compiendo è ben più grande persino della resurrezione di Lazzaro, perché Lazzaro ha dovuto poi morire un’altra volta, invece con il Battesimo il bambino è posto in una vita eterna» (una madre sa bene che non potrebbe sopportare una prospettiva diversa da questa di fronte a un figlio). Insomma, una cerimonia in cui si leggevano cose sentite mille volte, eppure hanno provocato in me un turbamento profondissimo, perché è come se, sotto quello
sguardo, rivissuto attraverso le parole del Vangelo e della tua omelia, nonché la presenza di certi volti amici, io avessi riscoperto in realtà che non è del mio “equilibrio” di cui ho bisogno, ma proprio di quello sguardo che mi provoca una nostalgia dolorosissima che sconvolge, che fa perdere il sonno e anche la lucidità sulle cose che hai da fare, ma che ami, che non vorresti barattare con nient’altro al mondo perché capisci che sei fatto per questo. Io non so se è di questo
che parliamo, però a me sembra che nella mia vita il cambiamento di metodo sia questo fatto che riaccade, riaccade veramente, riaccade nelle situazioni in cui non te l’aspetti (non mi aspettavo che domenica finisse così).
Grazie. È di questo che parliamo, perché la prima cosa di cui parliamo non è altro che di una esperienza presente. Prima questione. Uno va in un certo luogo pensando di andare a una cosa formale e si trova davanti qualcosa che lo sconvolge. Semplice. In che cosa si vede? È dall’interno di una cosa così – o di quello che sentiremo adesso, spero, dagli altri – che occorre ripescare tutte le parole che si riferiscono al capovolgimento di metodo di cui parla la Scuola di comunità. Questo è
un’evidenza facile per un bambino, non occorre alcuna particolare intelligenza, perché uno arrivi lì e veda qualcosa che lo sconvolge. Facile! Perfino i bambini possono essere spostati. È così che noi dobbiamo cercare di rintracciare nel reale i fatti che documentano questo capovolgimento.
Mi chiama un amico che mi dice: «Ci sono due miei amici che vorrei farti incontrare insieme al loro papà perché l’azienda di quest’ultimo non va bene, vorrei che tu li aiutassi a trovare lavoro».
E allora mi incontro a un pranzo con i due figli, il papà e il mio amico. E i figli mi iniziano a raccontare la questione del papà, dell’azienda che non va più bene, che la devono chiudere, la vogliono chiudere, la stanno chiudendo. Intanto il papà rimane in silenzio. A un certo punto, il figlio dice: «In questa situazione abbiamo almeno messo al sicuro la casa del papà», e io dico: «Perfetto». A questo punto interviene il papà, un uomo di oltre sessant’anni, e con gli occhi rossi inizia a dire: «Ma come faccio a spedire la lettera ai fornitori?» (è la lettera con cui si propone un concordato, in cui vengono ripatteggiati i debiti). E poi aggiunge: «Io a questi fornitori regalavo il Volantone, li invitavo ai gesti del movimento… E poi con quello che Carrón ci sta dicendo attraverso la Scuola di comunità, con tutto il lavoro che stiamo facendo, è davvero giusto non vendere la casa per ripagare i debiti?». E io lì sono stato spostato, spostato! Sono stato messo di fronte a qual è il bisogno mio, a che cosa desidero, a che cosa c’è in ballo, tant’è che mi sono
rivolto subito verso i figli domandando: «Ma qual è il nostro bisogno? Che il papà non perda la casa o quello di un uomo che si mette davanti al reale?». Mi sono trovato libero, presente a me stesso. È un avvenimento che riprende me, che all’inizio ero d’accordo di non vendere la casa.
Di uno che dice, in questa situazione: «Ma è giusto non vendere la casa?», noi pensiamo che ci sia arrivato con uno sforzo del senso religioso, che sia matto, o che gli sia successo qualcosa di diverso?
Qualche sera fa ero a cena con un po’ di amici e, a un certo punto, interviene uno di questi figli di cui ha parlato l’intervento precedente e dice: «Mio papà è in difficoltà, allora abbiamo chiesto aiuto a degli amici. Ho fatto tutto il viaggio d’andata pensando a tutti i problemi di mio papà, a come aiutarlo, alla mia agitazione, eccetera. Sono arrivato lì, ho incontrato questi amici, queste
persone, e mai come in quel momento mi sono sentito voluto bene, mi sono sentito abbracciato, tant’è che il viaggio di ritorno l’ho fatto tutto in silenzio e l’unica cosa che dominava nella mia testa era: “Ma questo è stato l’abbraccio di Gesù alla mia vita”. Ecco, io non voglio altro, sono fatto per questo abbraccio». E mi diceva: «Ed era la prima volta in vita mia che dicevo: “Questo è l’abbraccio di Cristo”». Poi ha aggiunto: «Io faccio caritativa da anni, porto il pacco del Banco di
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Solidarietà in una famiglia. Dopo qualche giorno da questo fatto, come sempre, ho portato il pacco a quella famiglia, ma è stata tutta un’altra cosa. Perché mi sono scoperto libero di fronte a quelle persone: e mentre mi scoprivo addosso questa libertà mi sono anche reso conto che io avevo sempre portato il pacco, in fondo in fondo, con una pretesa, come se lo scopo fosse una mia soddisfazione personale. Invece dentro quella libertà io riprendevo coscienza del fatto che io desideravo solo quell’abbraccio, ero fatto per quell’abbraccio. Ma per fare questo, per acquisire questa coscienza di me, io ho dovuto riandare a quell’esperienza fatta alcuni giorni prima».
Un’esperienza presente: nell’incontro con qualcuno succede qualcosa di imprevedibile. E in che cosa posso riconoscere che è successo qualcosa di imprevedibile (cioè che non sia una mia creazione, ma un fatto di fronte alla cui evidenza mi devo arrendere)? Che mi sento libero nel fare anche la caritativa, nell’imparare la gratuità, senza la pretesa di un riscontro. Questo è impossibile
generarlo da noi stessi, non è il prolungamento di un mio tentativo. Il cristianesimo è qualcosa di totalmente diverso: entra qualcosa di nuovo, e basterebbe che noi guardassimo questo per vedere quante volte lo riduciamo al nostro tentativo, senza lasciarci semplicemente spostare da un fatto presente che ci rende liberi.
Qualche settimana fa ho scoperto di essere malato di cancro e mi sono detto: come Giovanni, Andrea e Simone sono stato scelto da Cristo, e in modo decisivo per la seconda volta. Guardando la mia vita, infatti, due sono stati i momenti decisivi per il mio destino, in cui Cristo, attraverso la malattia, venendomi incontro mi si è rivelato. La prima volta che Cristo mi ha chiamato è stato nell’incontro con il movimento in università. A quattordici anni mi ero ammalato di tumore, con
gravi conseguenze fisiche, tant’è che i pochi amici che avevo mi avevano abbandonato. In università sono arrivato accompagnato da un Dio che per me era qualcosa di astratto, ma con dentro un grande desiderio di felicità. Rivoltomi ai “banchetti”allestiti per le matricole, sono stato illuminato dai vostri sguardi che mi hanno accettato per quello che ero; nessuno mi aveva mai guardato in quel modo. Completamente abbagliato e sorpreso, ho cominciato a seguirvi e ho
iniziato il mio cammino nel movimento. La seconda volta, decisiva quanto la prima, è stato l’abbraccio di Cristo di questi giorni. Negli ultimi mesi la mia esistenza si era ridotta a una vita di appartamento sterile e a qualche Scuola di comunità cui partecipavo con poco interesse. Il mio cuore si era assopito, ma mi rendevo conto che aspirava ancora all’infinito e alla verità. E anche qui è intervenuto il Mistero, attraverso la malattia che mi ha risvegliato, facendomi riabbracciare
la presenza viva anche di volti che non sentivo né vedevo da qualche anno. Mi sono detto: Cristo si è commosso e si è mosso per me, mi è venuto incontro. Adesso con il cuore pieno di Cristo, che è qualcosa che mi sta accadendo ora, voglio vivere intensamente il reale: se ce l’ho fatta ad affrontare la malattia a quattordici anni con il sostegno di un Dio che per me era un ente astratto, figuriamoci adesso che posso affidarmi al Mistero rivelato attraverso dei volti!
Grazie!
Grazie a te.
Abbandonato dagli altri, uno sguardo imprevedibile entra nella sua vita attraverso qualcosa di presente. Attenzione, non diamo per scontato questo, perché non si riferisce a una citazione del Vangelo, ma a uno sguardo presente! E ciascuno deve rendersene conto, perché questo è quel che riapre la partita con il cristianesimo, malgrado tutto. Infatti, come posso dare ragione di questo sguardo duemila anni dopo? Perché che uno mi citi un passaggio del Vangelo è comprensibile, ma
che uno si ritrovi addosso lo sguardo di Cristo che lo investe e che lo cambia duemila anni dopo, questa è un’esperienza presente. Se noi non partiamo da qui, non possiamo veramente dire se Cristo è successo o non è successo come un fatto nella storia. Non si tratta di una riflessione sul cristianesimo: il problema del cristianesimo «non è un problema di pareri, di gusti, e (…) di analisi
dell’animo religioso, (…) è un problema storico». La questione è se nel presente accade o no, perché non è un evento soltanto all’inizio (e poi possiamo andare avanti come un meccanismo, con la forza dell’inerzia), altrimenti nessuno si potrebbe dare questo sguardo né potrebbe rigenerarlo. Per questo mi stupisce quando parliamo di questo sguardo senza tenere presente quello che dice don
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Giussani: «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura». Che noi ci troviamo adesso, duemila anni dopo, con uno sguardo che salva le dimensioni dell’umano, che cosa dice del divino presente? Se noi non cogliamo questo, allora non potremo fare la Scuola di comunità nel modo vero, perché si ridurrà soltanto a riflessioni sul testo, ma non faremo quello che ci propone don Giussani: fare la stessa esperienza degli apostoli. L’esito lo
vedremo alla fine: chi ha fatto commenti sul testo, da una parte, chi ha fatto un percorso dove ha rintracciato dei fatti nel presente (come è successo agli apostoli), dall’altra. L’esito della Scuola di comunità sarà tutto diverso. Con gli stessi ingredienti, come dico sempre, avremo cucinato minestre diverse. E questo si vede nella vita. Per questo focalizzare adesso, in questo momento, dov’è lo
spostamento di metodo è decisivo per cogliere quali sono i connotati che ci consentono di riconoscere quello che rende possibile un avvenimento come il cristianesimo nella storia. Non c’è un metodo per l’inizio del cristianesimo e un altro metodo per il suo sviluppo, ma è lo stesso!
Allora, sì, possiamo compiere in pace lo sviluppo: perché sarà il riaccadere dell’inizio. Ma noi siamo già troppo abituati a sentire parlare dello sguardo come qualcosa di scontato, come fosse qualcosa di ovvio; sentirsi guardati così non è ovvio, è tutto tranne che ovvio!
Per rispondere alla domanda vorrei citare due fatti che mi sono accaduti sul lavoro. Una collega con la quale lavoro ha deciso di chiedere il trasferimento in un altro settore. Quando le ho chiesto perché, mi ha risposto: «Non ti deve interessare. E quando mi incontrerai fuori di qui non salutarmi più e non chiedermi come sto». Il contraccolpo è stato grosso. Io credevo di essere capace nei rapporti a partire dal mio temperamento, e invece ho percepito tutta la mia incapacità e il rifiuto della mia persona. Potevo fare come i miei colleghi, che chiudono la questione, ma a me
questo non bastava. E ho iniziato a chiedermi veramente: ma io dove poggio la mia consistenza? Con questa domanda aperta è successo un altro fatto. Venerdì scorso ho partecipato a un seminario sulla semplificazione amministrativa tenuto da un magistrato. Man mano che lei parlava ero sempre più affascinata dalla sua ragionevolezza, parlava di bene della vita, di affidamento tra pubblica amministrazione e cittadino; inoltre ero affascinata dal modo di porsi rispetto ai
partecipanti. Stava accadendo in me la famosa vibrazione del cuore a cui tu tante volte ci hai richiamato. Così alla fine sono andata a ringraziarla, dicendole che la sua presenza tra i giudici mi confortava e che avevo notato un’apertura di cuore e di mente che era fonte di speranza per me e per i miei figli. È venuta giù dal palchetto dove parlava e mi ha detto: «Mi scusi, mi può ripetere queste parole?», e io ho ripetuto: «Apertura di mente e di cuore». E lei: «Nessuno mi ha detto una
cosa così, e io l’ho tanto desiderata... Mi scusi, ma io la devo abbracciare». Allora le ho chiesto: «Le posso fare una domanda? Ma lei è cristiana?».
«Sì». «Scusi, ma adesso la devo abbracciare io». C’era nella sala ormai svuotata una mia amica, e con il cuore che stava scoppiano inizio a chiamarla urlando perché volevo che venisse a vedere ciò che stava accadendo lì, in quell’incontro
fra me e il magistrato. Con quella domanda aperta ho riconosciuto i tratti fondamentali di Gesù.
Dopo questi fatti stasera sono venuta qui perché non mi bastava scriverti, volevo vederti perché sono commossa e grata per la tua paternità in questo momento così decisivo. L’esperienza della fede, ossia dell’abbraccio amoroso di Gesù, rinnova quella presa di coscienza tenera e appassionata di me stessa che mi fa accorgere del mio vero bisogno. E da quando è iniziato il lavoro della Scuola di comunità in collegamento non hai mai perso occasione per sfidarmi a verificare la convenienza umana della fede. Io ho deciso di accettare la tua sfida. Grazie.
Grazie. «Nessuno mi ha detto una cosa così». È quel che dicevano i discepoli, mai avevano visto una cosa simile. Ma la dice duemila anni dopo! Non dimenticatevi di questo.
Stavo chiacchierando con mia figlia perché c’è una cosa che mi preme tantissimo: di metterla in guardia dal fatto di andare dietro alla moda (per esempio i ragazzi sono presissimi da certi vestiti, e allora tutti dietro senza ragionare). Questa è una cosa che a me urge da morire, allora cercavo di sfidare lei che ha dodici anni dicendo: «Ma a te piace veramente quella roba oppure ti piace solo perché è di “quella” marca? Corrisponde a te o corrisponde a ciò che il mondo ti dice? Perché
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altrimenti arriverai a pensare come pensa il mondo». E lì è accaduta una cosa grandiosa – i ragazzi hanno un rapporto più limpido con la realtà e con il Mistero –, perché lei mi ha detto: «Ma tu non vuoi che ragioni come il mondo perché vuoi che ragioni come te?». È stata geniale.
Non ce la risparmiano!
Esatto. Ed è lì l’avvenimento: che lei ha un cuore irriducibile. Io le ho detto: «No, è aberrante per me che io ti proponga di pensarla come me invece che come il mondo». E lì mi sono accorta del capovolgimento, perché sono stata in silenzio; qualsiasi parola in più io le avessi detto sarebbe stato come invitarla a costruire quel ponte con cui ci illudiamo di giungere al Mistero. E mi sono
accorta del capovolgimento proprio perché per me non è stato l’invitarla a dove vado io, ma a metterci di fronte al gesto puro della libertà che accetta o rifiuta che la Presenza si riveli.
Grazie.
Una cosa che mi ha proprio sorpreso nell’ultimo periodo è che dentro l’esperienza c’è già tutto. Dire questa cosa mi commuove perché pensavo di saperla, l’ho sentita dire tante volte dal Gius, e nella mia esperienza io stessa l’ho detto tante volte. Ma è come se si fosse riaperto il percorso di conoscenza di questo.
Il che vuol dire che non c’era tutto nell’esperienza.
Non c’era. Un fatto mi ha aiutato a capire questa cosa che per me è sorprendente, perché si capisce che a un certo punto tu riparti, ricominci a vivere. Insegno religione alle elementari, adesso siamo in periodo di Pasqua e ho chiesto ai miei alunni di quinta: «A Pasqua cosa succede?». «Che Gesù risorge». «E cosa vuol dire?». Quest’anno la loro risposta mi ha disarmato, nel senso che mi hanno
guardato e mi hanno detto: «Vuol dire che c’è, ma non si vede». E ho pensato: caspita, ma come è possibile che invece io questa cosa la veda oggi, nel presente? Così mi sono messa dentro un lavoro insieme a loro, perché se io non avessi avuto quelle facce lì davanti a me, se non avessi sentito le tue parole, se non vedessi e non avessi visto tutto quello che ho visto in questi ultimi due anni, io non avrei potuto riprendere con loro questa cosa. Di cosa mi sono accorta? Che la mia
ragione era diventata fragile, attaccata alla forma, per cui io continuavo a ripetere: «Sì, Gesù è risorto». Perfetto, ma non aveva incidenza sul reale. Cosa mi sono ritrovata a dire oggi? Perché, quindi, vedo che quello che ci diciamo semplifica la mia vita, che la rende più lieta e più vera?
Perché possiedo la mia esperienza, la mia esperienza come cammino di conoscenza. Per cui i bambini alla fine parlavano dei tratti inconfondibili di Gesù, oggi, nel presente. Questa cosa mi ha fatto dire: se non ci fosse quello che c’è, se Lui non ci fosse, se non fosse presente ora, non si capirebbe quel che dice il Volantone. Nel 1988 mi aveva talmente colpito che l’avevo attaccato alla parete, ma mi ero come fermata alla frase: «Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso», non avevo continuato: «Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui». Oggi, se dovessi dire che cos’è , direi tutto ciò che da Lui viene la Sua presenza presente, questa storia che c’è ora. Vedo che questo cambia completamente tutto.
Grazie.
Una cosa breve, ma che mi capita mille volte in un giorno. Di fronte alla realtà parto sempre da un’analisi, l’analisi di chi mi sta davanti che magari mi parla di un problema oppure della situazione di un problema da risolvere nella realtà oppure, più spesso ancora, su di me da un’analisi per risolvere, per migliorare, per cambiare, per non ricadere. E giro sempre lì, a volte trovo la soluzione, come tutti. La cosa che mi colpisce è che basta una Scuola di comunità qui,
basta a volte anche riprendere il libro di Scuola di comunità, e improvvisamente tutta l’analisi è come se si sciogliesse. È macroscopico, per esempio, agli Esercizi della Fraternità: la risposta a tutti i problemi che io ho è molto più pertinente di tutta la mia analisi, anche se non si parla direttamente di quei problemi, e allora tutto si sblocca improvvisamente (cosa che io non riuscirei mai a raggiungere con tutte le mie analisi).
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Quando rileggeremo il testo con in mente quel che abbiamo ascoltato stasera saremo facilitati a riconoscere tutti i segni che don Giussani ci indica. Per aiutare faccio l’elenco, perché ciascuno possa fare il paragone. Primo tratto: non una riflessione come nel senso religioso, ma un’esperienza presente in cui uno si imbatte (abbiamo sentito stasera uno che si imbatte in un uomo che è disponibile a vendere la casa per ripagare i debiti, un altro si imbatte nel presente in uno sguardo diverso che attendeva da sempre, un altro ancora si imbatte in un gesto dove la vita viene recuperata). Secondo tratto: un’evidenza facile, perfino per i bambini. Terzo tratto (quello che diceva l’ultimo intervento): non l’esito di un’analisi, ma un riconoscimento, perché tutto il tentativo analitico non ci dà neanche un istante di quel riconoscimento. Quarto tratto: dunque è un amore, e
uno si lega, come i discepoli si incollavano a Lui. Quinto tratto: ne nasce un’obbedienza non in senso moralistico, bensì un’obbedienza libera per non perderLo (i discepoli, per il fatto che erano colpiti, non obbedivano come la massa ai loro capi, erano liberi); si vede che è successo qualcosa perché tu devi prendere posizione. Ma mi domando: quanti di noi, lavorando su queste pagine, sono
stati costretti a dover decidere davanti a qualcosa che era accaduto? Dice il testo: «Certi richiami (…) per la loro radicalità (…) non possono essere eliminati, censurati. [Tanto è vero che] l’uomo è costretto a dire sì, oppure no». Lo abbiamo sentito prima, nel canto sul giovane ricco: non occorre dire “sì”, può essere anche un “no”, ma una risposta sei costretto a darla. Devi, mentre tante volte
passiamo settimane senza decidere davanti a qualcosa. Perché dobbiamo? Perché siamo costretti? Perché – lo dice don Giussani in diversi modi – è una Presenza assolutamente irriducibile quella con cui ci scontriamo, non è fagocitabile, non la possiamo assimilare come se fosse cibo, no! Per questo tante volte sperimentiamo questa resistenza o un disagio davanti a questa Presenza, e ci
scandalizziamo di questo. Io invece mi esalto, perché dico: è il segno che stiamo davanti a qualcosa di irriducibile. Di quanto tempo abbiamo bisogno per arrenderci all’evidenza non è una questione fondamentale, il problema è che siamo davanti a qualcosa di irriducibile, perché questa è la nostra salvezza. Paradossalmente questa è la nostra salvezza, perché il giorno che lo potessimo far diventare nostro saremmo da soli con la nostra impotenza, da soli come cani con il nostro niente.
Che ci troviamo davanti a qualcosa di irriducibile – irriducibile come il Volantone di Pasqua – è la possibilità per noi. Perché qual è la questione? Che un fatto ha la sua inevitabilità, dice Giussani. Sembra niente, ma Gesù è diventato carne come un fatto irriducibile, come una presenza. Per questo non c’è volta che il don Gius non parli dell’Incarnazione, di Dio fatto uomo nato da una donna, qualcosa di irriducibile a un pensiero, a un gusto, a un’immagine, a un sentimento. Questa è la
nostra speranza, la nostra unica possibilità. E davanti a questo uno può resistere o può accettare; ma si rende conto che se la gioca tutta: senza riconoscere quello sguardo che mi rende me stesso, io dovrei rinunciare a essere me stesso, ne sarei impedito. Ma allora chiediamoci: quante volte ho sentito in questo mese l’urgenza, dentro di me, di decidere su tutto il mio essere umano, su tutta la
mia umanità, su tutta la possibilità del mio compimento? Per questo don Giussani ci dice che si può essere convinti di vivere da cristiani senza che il problema sia stato veramente risolto per la propria persona, perché lo possiamo rimandare, lo possiamo eludere in tanti modi, lo sappiamo benissimo, noi siamo maestri nell’arte di questo (abbiamo una grande capacità immaginativa), anche facendo cose pur giuste, opere o altro, ma eludendo la vera questione. Il Volantone di Pasqua – per questo
l’abbiamo scelto – è una sfida totale: è l’invito a stare davanti a qualcosa di irriducibile. Quello che celebriamo nella Pasqua è proprio questa irriducibilità: vediamo tutta la resistenza degli uomini e nostra che porta Cristo alla morte. Ma Lui rimane inesorabilmente, presente perché è irriducibile anche ai nostri tentativi, e questa è la nostra speranza. Per questo chiediamo di poter stare davanti a questa irriducibilità presente senza la quale non c’è speranza.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 23 maggio alle ore 21,30. Riprenderemo insieme la prima parte degli Esercizi della Fraternità.
Durante la Settimana Santa la Chiesa ci propone dei gesti proprio per mettere davanti ai nostri occhi quello che dicevamo adesso. La Scuola di comunità di quest’anno è un aiuto particolarmente a
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immedesimarci con più consapevolezza personale con quello che Gesù ha vissuto in questi giorni: tutta la nostra resistenza, tutto il nostro rifiuto, tutto il rifiuto del mondo. Ma neanche questo lo ha potuto far fuori, non siamo riusciti a farlo fuori perché è risorto e continua ad aprire la partita con ciascuno di noi attraverso la modalità con cui Lui ci raggiunge. È per questa gratitudine che noi
vogliamo celebrare con tutto noi stessi questa festa, per ringraziare Cristo della Sua fedeltà e per domandarGli di farla finita con la nostra testardaggine.
Il numero di aprile di Tracce avrà come Pagina Uno la sintesi dell’Assemblea responsabili che si è tenuta a Pacengo di Lazise all’inizio di questo mese. Vi invito a leggerla e riprenderla, perché è un giudizio sul momento storico che stiamo vivendo.
Il Libro del mese per aprile è: Attila. La tempesta dall’Oriente, di Louis De Wohl.
Di questo romanzo vi segnalo in particolare il dialogo dell’imperatore Valentiniano con papa Leone – nell’imminenza dell’arrivo di Attila a Roma –, che evidenzia la coscienza che il Papa aveva della natura e del compito della Chiesa, di questa presenza assolutamente irriducibile a nessun potere.
Vi ricordo che gli Esercizi della Fraternità inizieranno con la cena alle ore 19,00 per poter cominciare in salone alle ore 21,00.
Veni Sancte Spiritus
Buona Pasqua a tutti!
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