sabato 3 marzo 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 29/02/2012


Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, capitoli I e II, Rizzoli, Milano 2011, pp. 3-31.

• Non son sincera
• Romaria
Gloria

Colpisce che dalla prima riga dell’Introduzione don Giussani abbia una preoccupazione decisiva che noi – se vogliamo seguirlo e capirlo – non possiamo saltare. Per questo ritengo questo paragrafetto iniziale decisivo: non possiamo renderci conto pienamente di cosa voglia dire Gesù Cristo se ciascuno di noi non ha questa presa di coscienza tenera e appassionata di sé. Allora, in che
cosa ci ha aiutato questa insistenza di don Giussani nel lavoro che abbiamo fatto su questi due capitoli che pongono a tema quello che sono io?


Andando avanti nel tempo, mi invade un po’ la preoccupazione che io possa cambiare, che io possa diventare grande, e che il tempo che passa non mi faccia tornare indietro, cioè che sia utile alla mia vita. Insomma: un livello di performance sempre maggiore. E mi ha colpito – per me è stato un regalo, una grazia – quello che hai detto il 25 gennaio: «Ciascuno di noi è stato afferrato da Cristo. Quanto più uno è stato afferrato, tanto più è proteso nella corsa per afferrarLo ancora. [È
qui che mi colpisce:] Ciò che si persegue non è più in ultima istanza nemmeno il cambiamento, cioè una nostra misura del centuplo, ma la Sua presenza, il rapporto con Lui, come accade in ogni rapporto amoroso pienamente umano: niente soddisfa se non la presenza della persona amata.
Questo pone nel mondo una figura d’uomo irriducibile, che non si accontenta di alcun obiettivo “intermedio”». Mi ha regalato una pace di fondo, perché io sono quest’uomo, e desidero essere irriducibile e continuare a essere innamorato in questo modo, perché mi sembra che oggettivamente io non posso fare a meno di Gesù.

Tante volte dietro le parole che usiamo c’è già la questione di fondo: noi riduciamo, senza neanche renderci conto – come diceva lui all’inizio –, la natura del cristianesimo a un certo tipo di cambiamento, a una performance. Perché succede questo? Questa è la questione più decisiva che noi dobbiamo affrontare, perché tutti del cristianesimo sappiamo tante cose, ma la maggioranza delle volte in cui ne parliamo lo riduciamo; lo riduciamo a etica, a un’immagine di cambiamento, a
dottrina, a qualcosa di già saputo, lo riduciamo a una performance (dover essere secondo un certo modello), a un sentimento o a un successo nel senso di riuscita. Per questo mi colpisce che don Giussani dica subito dopo, nella Introduzione: «Non considerare il cristianesimo in modo comunque riduttivo [questa è la questione!] dipende dalla comprensività e completezza con cui uno percepisce
[…] il senso religioso». Se noi riduciamo il senso religioso, cioè la natura del nostro io,inevitabilmente riduciamo il cristianesimo. Faccio un esempio che abbiamo usato altre volte: è evidente che capitava lo stesso anche ai discepoli, anche loro desideravano un cambiamento, anche loro desideravano la riuscita, e quando l’hanno ottenuta erano tutti gasati e pensavano: «Vedi? Il cristianesimo è questo». Come Gesù corregge i discepoli? Da dove nasce lo spostamento? Nasce dallo sguardo che Gesù ha su di loro, lo sguardo che coglie, senza ridurlo, il loro senso religioso, il
dramma del loro io: «Guardate, amici, che se voi vi rallegrate di questo, questo non vi servirà per alzarvi domani mattina». Attenzione: non è che i discepoli non L’avessero davanti, non è un problema soltanto di averLo davanti, ce L’avevano davanti, carnalmente – e noi tante volte ci lamentiamo di non averLo! –, presente, ma questo non bastava per cogliere la diversità, per cogliere la vera natura di Lui. Tanto è vero che loro sono più contenti di quella riuscita che di averLo davanti, e Gesù deve spostarli, deve introdurli al loro mistero, deve renderli consapevoli, deve
introdurli a quella coscienza tenera e appassionata di loro stessi, senza la quale non potranno capire

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che la vera gioia, che la vera risposta è nel rapporto con Lui, nel loro essere stati scelti. Vedete quanto vale l’obiezione che spesso facciamo di non esser “fortunati” come i discepoli? Non è questa la questione, perché loro hanno tutto quello che noi ci lamentiamo di non avere, eppure non basta per cogliere automaticamente chi è Cristo, e perciò per trovare il fondamento alla vera gioia che è il rapporto con Lui. Mancava loro questa coscienza di sé, che Gesù coglie in loro, quello sguardo con cui Gesù li guarda. Attenzione: non è che Gesù “crea” quello che sono loro, no, Gesù semplicemente non accetta di ridurli a quello a cui loro si riducono da se stessi, cioè li guarda secondo la loro verità. Se questo non diventa esperienza in noi – dice Giussani –, inevitabilmente ridurremo il cristianesimo; possiamo parlare del cristianesimo come avvenimento, possiamo parlare di tutto usando tutte le sacrosante parole, ma appena apriamo bocca tutto è ridotto. Perché non basta dire le parole per cambiare la concezione di sé, occorre un’esperienza, uno sguardo su di sé che è decisivo. E per questo sono fondamentali questi primi due capitoli. Mi domando: chi di noi, nel lavoro fatto in queste settimane, ha letto qualcosa che lo ha spostato nel modo di concepire se stesso? Perché questa è la Scuola di comunità. Chi, di tutti quanti siamo qui, può raccontarci
qualcosa in cui ha visto, ha toccato con mano una percezione di sé diversa? Altrimenti ridurremo Cristo.


A proposito di spostamento io volevo raccontarti come un fatto successo fra ieri e oggi è la verificadi questo. Fin dal 25 gennaio, ma anche proprio lavorando su questi capitoli, continuava a lavorarmi dentro tantissimo quello che tu dicevi, cioè che la verifica del passaggio dal senso religioso alla fede è un io umano diverso che si pone nel reale. Una carissima amica mi aveva fatto notare tutta una serie di particolari di me, di come stavo lavorando e di come mi stavo approcciando alla realtà, che mi facevano perfettamente capire che io invece avevo un modo
assolutamente analitico di lavorare, esattamente come tutti, quindi con contributo al mondo pari a zero. E questa è la prima verifica. Succede un fatto. Faccio la cardiologa, ho iniziato da poco a lavorare e, vuoi l’inesperienza vuoi la paura di sbagliare vuoi tante cose, comincio la guardia, e ricevo una chiamata per una consulenza a una donna di cui peraltro mi aveva già parlato un mio collega. Secondo me non era una richiesta da fare, non c’era bisogno di chiamarmi; questa donna
era stata già valutata dal centro di riferimento il giorno prima, quindi cosa potevo aggiungere io? Già durante la chiamata non le ho mandate a dire alla collega che mi aveva coinvolto. E con questa posizione assolutamente ridotta e preconfezionata, come se la realtà fosse il luogo della paura, sono andata su. Faccio la mia consulenza, chiudo la cartella e me ne vado a casa. Ma a me non tornavano i conti, non mi tornavano proprio! Avevo un vuoto dentro, clamoroso. Tu continui a
dire: «La verifica è un io diverso»; io invece mi ritrovavo ad aver lavorato come tutti: ridotta io, ridotto tutto il mio desiderio di costruire sul lavoro, ridotto il rapporto con quella paziente (infatti l’ho anche guardata poco). Non mi tornavano i conti.
E perché non ti tornavano i conti? Perché non avevi fatto la performance?
No, clinicamente io non avevo dubbi, ma non era la verità di me che mi dicevi tu, non era la verità di quella realtà. E mi colpiva perché dentro quella realtà io mi stavo rendendo conto che invece io sono stata guardata diversamente, e quelle parole che continuavano a rimbombarmi nella testa mi ridicevano la strada. Per cui oggi prendo e ritorno in quel reparto, ritrovo la persona con cui ho
parlato al telefono e le dico: «Io innanzitutto mi voglio scusare per come mi sono approcciata ieri».E da lì è partita una discussione interessantissima, mi si è aperto un mondo, al punto che alla fine le ho detto: «Senta, io non sono tornata qui per un dubbio clinico, ma proprio per me, per questo dubbio di verità». Alla fine riprendo la cartella e vado a riparlarne con il consulente di quel reparto, che ci capisce più di me; ritirando fuori tutto il caso mi ha fatto anche notare dei particolari clinici che non avevo approfondito. Per cui ritorno per la terza volta in quel reparto – l’orgoglio è un mio tratto inconfondibile, non sarei mai tornata indietro per un’idea o per un pensiero –, ricerco quella collega e le dico: «Mi scusi, ieri l’ho quasi insultata e oggi sono qui…».
Alla fine mi ha detto: «Ma no, si impara, è dinamica la cosa. Grazie di esser tornata». E io ho pensato: con questo approccio diverso, che mi ha permesso di avere un visione completa sulla
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realtà, addirittura Cristo mi insegna a lavorare! Io con la mia analisi non ero riuscita a venirne fuori, era un rapporto ridottissimo che svuotava me. Oggi, quando sono tornata a casa, mi son detta: questa è un’altra vita, è un’altra possibilità. Io questa cosa l’ho verificata, non me la tolgo più.

Grazie. La vita può essere un’altra cosa!

Racconto quello che vedo che mi sposta realmente nella vita, ma poi vorrei porre una domanda. Ciò che realmente mi permette di stare di fronte a tutto me stesso, a tutta la domanda che sono, alla realtà, è un rapporto che abbraccia tutta la mia vita, un rapporto molto concreto con certe persone che mi mostrano che posso stare di fronte alle mie domande, posso non aver paura di quello che vivo. La domanda che mi rimane, e che ho visto anche molto emergere fra di noi, è come questo atteggiamento possa rimanere, perché anche quando io sono in rapporto con queste persone, poi, è
come se mi bloccassi, come se dicessi: bene, adesso sono a posto, ho trovato la risposta. Non capisco allora cosa vuol dire quando si continua a dire che la risposta aumenta la domanda. In che senso il rapporto con Cristo continua a spalancare la mia umanità, continua a far mantenere aperta la domanda? Perché mi succede questo: nelle cose “normali” è chiara come dinamica (l’esempio che fai sempre dell’innamoramento è chiarissimo perché di fronte alla persona amata io non spero che venga meno la domanda né che venga meno la risposta), ma di fronte alle domande ultime è come se mi concepissi sempre in maniera diversa.

Qual è la diversità?
Ti trovi ancora incastrato. Come è possibile? Io ho incontrato la risposta, come è possibile che invece ancora emerga questa esigenza? Io ho incontrato quello che risponde, quello che rende pieno il rapporto, come è possibile che invece mi trovi ancora così bisognoso? Quando mi succede che non soffoco? Quando sono di fronte a qualcuno che rispalanca tutto il mio io. Però poi è come se subito lo riducessi, pensando: bene, allora sono a posto.

E allora? Così come tu capisci che cosa succede nella dinamica dell’innamoramento, tu devi guardare che cosa succede quando riconosci Cristo presente, se questa stessa dinamica si riproduce lì. Altrimenti noi incominciamo a immaginare. La dinamica non è diversa, semplicemente è cento volte tanto, perché quanto più è eccezionale una presenza che ti trascina… Immagina davanti alla eccezionalità di Gesù come si scatenava la domanda: ma chi è costui? E questo nel tempo veniva meno oppure quanto più vedevano le cose che faceva tanto più lo stupore cresceva? Mi spiego? Ma questo possiamo comprenderlo non come spiegazione (che tu già sai, tra l’altro), ma soltanto come sorpresa davanti a quel che accade. Tu puoi capirlo non facendo girare la testa, ma guardando che cosa succede quando ti succede, e potrai trovare risposta. Perché vedrai che la dinamica, allora, non sarà diversa, come vediamo nei discepoli. Ma tu lo devi documentare nella tua esperienza stessa, nella carne della tua esperienza.

La cosa impressionante è che il fatto è accaduto ora, per quel che mi riguarda, perché mi ero fatta una scaletta e me l’hai ribaltata positivamente, nel senso che mi sono proprio ritrovata con quello che dicevi degli apostoli e del percorso che hanno fatto, che non è diverso dal nostro, perché il Padre eterno mi ha spostato due volte, per benino, rimettendomi davanti alla domanda che facevi tu: dov’è la vera soddisfazione? Un anno fa, più o meno, ho trovato un lavoro che mi corrispondeva tantissimo, soddisfaceva proprio quel pezzettino che secondo me mancava per la mia
riuscita, la famosa riuscita.

Questa è già la prima questione: noi scambiamo costantemente “corrispondenza” con “riuscita”, e questo dice già la riduzione che noi facciamo dell’io.

È vero, anche perché, in fondo, era come una domanda sulle mie capacità: ce la faccio, non ce la faccio. Allora: esperienza bellissima, devo dire straordinaria, non posso dire diversamente, facciamo anche un bellissimo evento, va benissimo; però, a un certo punto, nel massimo della soddisfazione c’è stata una frazione di secondo in cui ho detto: è tutto qui? E lì, nel massimo della soddisfazione – dovevo proprio attraversarla tutta – ho detto: eh, no, a me quello che interessa è il
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rapporto con Gesù. Mi veniva in mente la frase: «Sei Tu che mi manchi in tutto ciò che mi piace», perché, in fondo in fondo, io questa frase la capivo intellettualmente, ma non ero arrivata fino ad attraversarla tutta nell’esperienza. Questo fino a metà novembre. Primi di dicembre: rivoluzione copernicana, le risorse vengono improvvisamente a mancare, per fartela breve si stoppa tutta la faccenda – rimane il rapporto, il che è ancora più doloroso perché comunque si era creato, si è
creato, c’è ancora, un rapporto di grande amicizia – e di punto in bianco mi mandano a casa. E lì c’è stato il secondo spostamento, perché dentro una fatica economica pazzesca (devo dire che non c’è mai stata una fatica così) mi sono detta: è cambiata la forma, ma non è cambiata la domanda, Lui mi sta richiedendo dov’è la mia consistenza. Venerdì vado a rincontrare quella persona, non so se riprenderemo, ma quello che non mi porta più via nessuno è stata questa esperienza.

Ma tu da questo cosa hai imparato? Spiegami bene in che cosa tu hai percepito quello a cui noi cerchiamo di rispondere: che cosa è Cristo. Perché tante volte non soltanto sbagliamo a identificare due cose che sono diverse – riuscita e corrispondenza –, ma anche scambiando Cristo con qualsiasi immaginazione ci viene. E questo alla fine dove ci porta? Che noi di Cristo non abbiamo colto che cosa è.

Però davvero se manca quell’umano, quella percezione di sé così chiara, che poi è quello che vince…

È per questo che mi interessa; non mi interessa che noi non sbagliamo, perché se attraverso uno sbaglio tu hai imparato questo, è la cosa migliore che ti è capitata nella vita! Altrimenti noi perché dobbiamo seguire Cristo, qual è l’interesse che ha Cristo per noi, qual è la differenza tra Cristo e qualsiasi altra cosa?

Proprio per la verità di me, per la consistenza di me.


Esatto. Ma io posso capire la diversità di Cristo, perciò cogliere che cosa è Cristo, rendermi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo, dice Giussani, soltanto se non riduco l’io, se non riduco il mio io. Per questo guardate cosa dice appena dopo il brano che vi ho letto prima: «Se, perciò, il mio scopo è quello di situare l’emergenza del cristianesimo, è utile recuperare alcuni
aspetti decisivi del senso religioso». Non riprende, adesso, il senso religioso come un ornamento, ma proprio per lo scopo di capire che cos’è il cristianesimo, perché – dice – senza di questo noi non lo capiamo, noi lo riduciamo. Questo «coincide con la dimensione razionale, [con tutta l’esigenza della ragione] con la ragione nel suo aspetto ultimo e profondo, [coincide con quell’]impulso globale e totalizzante che è il senso religioso, [coincide] con l’urgenza di un raggiungimento totale e
di una esauriente completezza». Se noi non abbiamo la lealtà, questo sguardo pieno di tenerezza verso noi stessi, riduciamo il cristianesimo. Scusate, queste cose se le sta inventando Giussani oppure sta descrivendo che cosa è ciascuno di noi? Se questa è la descrizione della stoffa di cui siamo fatti, questo ciascuno deve cercare di sorprenderlo nelle viscere del proprio io, «nascosto […] dentro ogni dinamismo, dentro ogni movimento della vita umana, la quale risulta perciò progetto
sviluppato da quell’impeto globale [che chiamiamo] senso religioso». Guardate che tutto quello che sta dicendo don Giussani è così decisivo che il cristianesimo nel tempo moderno si è ridotto proprio perché la prima cosa che si è ridotta è stato l’io! Ecco perché Giussani qui sta dicendo una cosa decisiva per noi, perché senza questo inevitabilmente riduciamo il cristianesimo, anche se usiamo tutte le parole cristiane. Per questo vi prego di non saltare questi passaggi, di non voltare pagina e dire: «Io questo lo so già, del senso religioso mi sono occupato l’anno scorso»; non lo sappiamo, non lo sappiamo! Anzi, è la cosa che meno sappiamo, oso dire, perché lo si vede da come parliamo delle cose. Infatti, che cosa dovrebbe essere sempre più presente, consapevole, familiare? Il senso del mistero che siamo noi. Ma questo, lo vediamo tante volte, è l’ultimo pensiero che abbiamo, e per questo ci arrabbiamo con noi stessi, ci arrabbiamo con il reale, cerchiamo cose che, una volta
trovate, comunque non servono. Don Giussani dice: «Questa imperitura situazione di sproporzione e di inarrivabilità [il fatto che io non riesco ad arrivare] facilita l’insorgere nella coscienza dell’idea di mistero». Senza che questo cresca costantemente nella nostra autocoscienza di uomini, inevitabilmente noi ci rapportiamo all’avvenimento cristiano riduttivamente, e lo scambiamo con
qualsiasi altra cosa (come ai discepoli è capitato di scambiarlo con qualsiasi altra cosa). Perché?

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Perché in fondo noi non ci siamo resi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo. Ma questo non è un problema di performance, non è un problema legato all’essere più bravi o al fare meno sbagli; è il problema di percepire correttamente la realtà, di cogliere in un modo veramente e pienamente cosciente che cosa voglia dire Cristo. Se noi saltiamo questo pensando che è già chiaro, noi leggeremo il resto del libro e lo continueremo a ridurre con la conseguenza inevitabile che ci perdiamo il meglio. Perché lo garantisco: ci perdiamo il meglio! Soltanto quando prendiamo consapevolezza di noi stessi, allora ci rendiamo conto di che grazia rappresenta Gesù Cristo.

A pagina 11 della presentazione citi don Giussani: «Il cristianesimo avviene in comunione, ma si gioca tutto nella libertà della persona». Ti chiedo un approfondimento in termini di metodo proprio rispetto a questa cosa. In relazione alla compagnia, infatti, tu dici dopo: «Il nostro sostegno non può avere altra logica […] che quella della testimonianza. […] Alla pretesa cristiana posso
rispondere solo io davanti al Signore». Nel recente passato mi è stato dato di vivere alcune circostanze in determinati ambiti legati al movimento, che si sono rivelati essere una grande occasione di verifica della mia fede. In questi contesti sono stata costretta a paragonare l’esperienza in atto di rigenerazione, direi quasi rivoluzione, del mio io, anche grazie soprattutto al lavoro che ci stai facendo fare, con un certo tipo di atteggiamento che oserei definire di rinuncia al
proprio cuore e, quindi, di rinuncia a Cristo. Queste esperienze hanno acuito in me l’inquietudine, anzi, in un certo senso me l’hanno fatta riscoprire come una risorsa – io sono molto affezionata a san Paolo quando dice: «La realtà invece è Cristo, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, e morire è un guadagno»–, però ho sempre percepito la realtà come qualcosa fuori di me. Questa esperienza è come se mi avesse dato una grande occasione di scoprire come Cristo mi sorprende
attraverso la mia inquietudine e come la mia inquietudine è una risorsa, che è un po’ quello che dicevi prima tu, anche perché è stato uno strumento per non rimanere incastrata in certe dinamiche. Quindi queste esperienze hanno acuito in me l’inquietudine, costringendomi a una rinnovata mendicanza che mi fa riconoscere di più come compagni di cammino – questo è un passaggio – i pubblicani di evangelica memoria. Lo cito come atteggiamento, perché recentemente ho sentito a Messa questo passo del Vangelo, e mi sembrava proprio che mi corrispondesse. «Il pubblicano invece fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato a differenza dell’altro [che era il fariseo] perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Dentro questa dinamica che sto descrivendo mi ha colpito tantissimo – leggo un pezzettino – l’omelia del Santo Padre nella solennità dell’Epifania del Signore: «Il cuore inquieto […] è il cuore che, in fin dei conti, non si accontenta di niente che sia meno di Dio e,
proprio così, diventa un cuore che ama. Il nostro cuore è inquieto verso Dio e rimane tale, anche se oggi, con “narcotici” molto efficaci, si cerca di liberare l’uomo da questa inquietudine». Torno al discorso iniziale; ebbene, nell’esperienza a cui faccio riferimento ho visto come la compagnia a volte rischia, invece di essere un luogo di testimonianza viva, di ridursi a uno dei tanti “narcotici”
di cui parla il Papa. Si tratta di uno stravolgimento del metodo che invece di favorire una piena consapevolezza di sé e del proprio essere fatti per il Mistero, per l’infinito – «di che mancanza è questa mancanza?» –, tende piuttosto ad appiattire il desiderio e la domanda, e a favorire il famoso atteggiamento del tapis-roulant. Di contro, la fedeltà a quella che Newman chiama “coscienza” e
che don Giussani definisce “cuore”, meglio ancora, e Benedetto XVI “cuore inquieto”, viene interpretata come individualismo o autonomia o, peggio ancora, come mancanza di tensione all’obbedienza. Quindi è come se in certi contesti – questa è la percezione che ho avuto io – l’io non dovesse esistere più. Allora la domanda è: come se ne viene fuori? Anche perché a volte (non voglio fare di tutta l’erba un fascio) mi sembra quasi che una persona debba scegliere tra la compagnia e il proprio cuore.

Questa è un’alternativa che non si pone. Ma questo a cui tu ci richiami è fondamentale, perché ciascuno – altrimenti occorrerebbe cancellare il Vangelo! – è chiamato per nome: Giovanni, Maria,Zaccheo, Matteo... Ciascuno è chiamato per nome, ciascuno è chiamato a rispondere in prima
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persona, perciò non c’è, come dicevamo in un certo momento, niente di più personale che questa risposta. Può essere che a volte noi possiamo ridurre il nostro modo di stare insieme, ma questo non sarà mai la compagnia totale del movimento; possiamo ridurre alcune modalità di vivere la compagnia, ma non la compagnia di per sé, perché la compagnia, fin tanto che il Signore ci dà la grazia di viverla secondo il carisma che ci è stato dato, sarà sempre un aiuto per vivere la realtà. Poi,
in certi modi, possiamo usarla – per dirla con il Papa – come un “narcotico”. Mi spiego: per quello che ci è capitato, tendenzialmente facciamo un’esperienza del vivere migliore di quasi tutti gli uomini che conosciamo, ma questo può essere, come per i discepoli, qualcosa che, invece di creare una tensione sempre più intensa, ci fa accontentare sempre di più; invece di introdurre una tensione introduce una calma che appiattisce. Voglio essere chiaro: questo non sarà mai la compagnia
cristiana, bensì una deformazione sempre in agguato della compagnia cristiana. Per questo non possiamo soccombere a questa alternativa compagnia-io, perché il cammino lo facciamo insieme; anche soltanto leggendo don Giussani troviamo tutto quello di cui abbiamo bisogno per sentire questa tensione, un richiamo al vero dentro la nostra compagnia (anche se tutti noi fossimo ridotti).
Ma basta soltanto un istante, per come stiamo insieme o per quello che ci diciamo quando stiamo insieme, per rimettere in moto tutta la tensione nel nostro io. E quando qualcuno nei nostri ambienti vuole ridurre questa dinamica occorre sfidarlo, perché senza un luogo come la Chiesa, un luogo come il movimento dove costantemente siamo ridestati, noi soccomberemmo all’appiattimento totale. Per questo la compagnia è decisiva per l’io, ma la compagnia è fatta di “ii” vivi, e questo è quello a cui dobbiamo tendere e che dobbiamo domandare. Perché è così che diventiamo veramente
compagni: quando ci testimoniamo a vicenda che cosa è vivere. Tutto quanto abbiamo affrontato questa sera è fondamentale testimoniarcelo a vicenda nel modo con cui noi stiamo nel reale e viviamo nel reale. Per questo voglio rilanciare di nuovo questa sfida a ciascuno di noi. Questi capitoli sono decisivi perché senza averli presenti, noi, inevitabilmente, ridurremo Cristo, non potremo veramente renderci conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo. Uno mi scrive che questo può succedere soltanto con Cristo presente; e questo è vero, perché lo stiamo vivendo
già dall’interno della fede. Tuttavia dire “Cristo presente” non può essere un alibi, perché anche dall’interno della fede questo sguardo, questa coscienza attenta, tenera e appassionata di me stesso è qualcosa a cui devo educarmi costantemente. Infatti, quando l’anno scorso abbiamo ripetuto tante
volte che Cristo è venuto a educarci al senso religioso intendevamo proprio dire che è venuto a educarci a questa percezione dell’io. Per questo crescere nella percezione del Mistero è decisivo per poter cogliere chi è realmente Gesù Cristo.
Per la prossima volta leggeremo i capitoli terzo e quarto di All’origine della pretesa cristiana. Mi interessa sottolineare due cose per questo lavoro. Una è che in questo capitolo emerge la domanda di Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». È questa domanda che deve continuare a essere presente lavorando su questi capitoli: che cosa può rendere ragionevole rispondere a questa domanda. E di questo un passaggio decisivo è quello che leggeremo nel terzo capitolo sul capovolgimento di
metodo. Perciò vi lancio questa domanda: in che cosa sorprendo il capovolgimento di metodo nella mia vita? Se sono ancora sul senso religioso o sono già sulla fede, in che cosa lo sorprendo? Perché questo primo paragrafo così decisivo tutti lo possiamo ripetere, ma tante volte nella pratica della vita noi, pur usando le parole cristiane, stiamo ancora utilizzando il metodo del senso religioso. In che cosa scopro che è successo in me il capovolgimento di metodo nell’esperienza, in modo tale che questo non resti ridotto soltanto a una spiegazione intellettuale non sapendo di che cosa stiamo parlando nell’esperienza stessa? Perché se questo non si capisce, vuol dire che sarà difficile – meglio: impossibile – rendersi veramente conto di che cosa vuol dire Gesù Cristo, anche se pensiamo di saperlo perché usiamo certe parole cristiane. Per questo vi do questo suggerimento di metodo per aiutarci nel lavoro.
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La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 28 marzo alle ore 21,30.
Riprenderemo i capitoli terzo e quarto di All’origine della pretesa cristiana.
A proposito della Scuola di comunità, vi invito a leggere sul nuovo sito di CL (nella sezione appositamente dedicata alla Scuola di comunità) la sintesi di alcuni incontri di responsabili con don Giussani, in cui descrive che cosa è la Scuola di comunità e ne spiega il metodo; è un aiuto ad averlo più consapevolmente presente.
È in uscita il Volantone di Pasqua.
In un momento storico in cui il Papa ha indetto l’Anno della fede e in cui stiamo facendo la Scuola di comunità con a tema la fede in Cristo, come ci ha detto don Giussani, con gli occhi degli apostoli, per percorrere la strada che hanno fatto loro – dall’impatto con la sua umanità alla domanda sulla sua divinità –, riproporre il testo del Volantone permanente del movimento (uscito nel 1988),
accompagnato dall’immagine di Cristo del Masaccio – che esprime l’attrattiva, la potenza della Sua divinità ora –, ci sembra per noi e per tutti il giudizio più consono alla situazione attuale in cui stiamo vivendo.
Usiamolo perciò nei nostri ambienti. È un’occasione per dire a tutti questo giudizio sulla storia nostra e di tutti. Lo leggo per farlo presente a tutti: «L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: “Strani uomini… ditemi voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo
stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità». Mi sembra che, da quanto abbiamo visto questa sera, cominciamo a capire che non è ovvio che cosa abbiamo di più caro. Tante volte ci sorprendiamo a scoprire che quello che abbiamo di più caro non è proprio Cristo stesso, ma altre cose che sono conseguenze, non la Sua presenza, non la Sua persona. Il Volantone quindi, è un giudizio, un richiamo, per una memoria di che cosa è il cristianesimo. Avendolo davanti per tutto l’anno ci auguriamo, come avevamo detto alla presentazione della Scuola di comunità, che cresca
sempre di più il desiderio di Cristo, ma questo è legato a quello che dicevamo oggi: potremo non desiderare altro che questo, se capiamo di che cosa abbiamo bisogno; se invece il bisogno si riduce, potremo farne a meno e accontentarci di qualcosa di meno di Lui.
Il Libro del mese per marzo è Il Maestro e Margherita di Bulgakov.
Abbiamo proposto questo romanzo perché, in rapporto alla Scuola di comunità che stiamo facendo,può offrire una riflessione sull’importanza della storicità di Cristo che è riscontrabile attraverso i fatti e le loro conseguenze.
Sul numero di febbraio della rivista e sul sito di Tracce potete trovare una presentazione e un articolo che possono essere di aiuto alla lettura e al significato delle invenzioni fantastiche del romanzo stesso.
Veni Sancte Spiritus

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