martedì 27 aprile 2010

Cl: l’uomo vecchio rinasce nell’incontro con Gesù




Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio? Lo chiese Nicodemo a Ge­sù in uno dei dialoghi più affasci­nanti dei Vangeli. Duemila anni dopo, la domanda è risuonata con lo stesso sapore di provoca­zione nei saloni della Fiera di Ri­mini: è il titolo scelto dalla Fra­ternità di Comunione e libera­zione per gli annuali esercizi spi­rituali, ai quali hanno partecipa­to da venerdì a domenica 26mila persone e altre migliaia in colle­gamento da 74 Paesi. Per 'nasce­re di nuovo' occorre anzitutto la­sciarsi provocare dalla realtà, ha ricordato don Julián Carrón, pre­sidente della Fraternità. E allora si scopre che è piena di segni che ri- mandano all’esistenza di qualco­sa di più grande della pura razio­nalità, qualcosa che l’uomo non è capace di costruire da sé. L’uo­mo quando è leale con se stesso si scopre desideroso di cose gran­di e insieme incapace di conse­guirle. Così come in questo pe­riodo, di fronte alla vicenda della pedofilia, ci si sente sgomenti per l’incapacità di rispondere all’esi­genza di giustizia che viene dal profondo del cuore, un’esigenza infinita che nulla sembra in gra­do di soddisfare. Anni fa don Giussani ricordava che «senza la prospettiva di un ’oltre’, di una ri­sposta che sta al di là delle mo­dalità esistenziali sperimentabi­li, la giustizia è impossibile. Se ve­nisse eliminata l’ipotesi di un ’ol­tre’, quell’esigenza sarebbe inna­turalmente soffocata». Nella let­tera ai cattolici irlandesi il Papa indica la via di uscita da questo buco nero: guardare a Cristo, l’u­nico che può salvare questa u­manissima esigenza di giustizia. Lui che è stato vittima di ingiu­stizia e di peccato è capace di ab­bracciare le vittime e di offrire mi­sericordia a loro e ai carnefici. Per questo, chiosa Carrón, «fare ap­pello a Cristo non è cercare un sotterfugio per scappare davanti all’esigenza di giustizia, ma è l’u­nico modo per realizzarla. Solo il divino può salvare l’umano, solo da Colui che ne è il senso ultimo possono essere salvare e valoriz­zate tutte le esigenze».
La rinascita dell’io, la rigenera­zione che salva, è resa possibile dall’alto, cioè dall’Altro: incon­trando la novità di vita portata nella storia dall’avvenimento del­l’incarnazione di Dio che ci ren­de creature nuove. La novità co­mincia con il Battesimo – come ha ricordato il cardinale Scola ce­lebrando la messa sabato matti­na – che inaugura una nuova pa­rentela, più forte di quella della carne e del sangue, rendendoci figli di Dio. E continua nella sto­ria attraverso la Chiesa, attraver­so i testimoni che seguono Gesù, diventato il centro affettivo della loro esistenza. Testimoni come Giussani, il cui carisma a cinque anni dalla morte continua a por­tare frutto e a generare persone e opere che documentano la 'con­venienza umana' del cristianesi­mo. L’unità col Papa e la missio­ne a tutto campo, ha ricordato il patriarca di Venezia, sono i due poli su cui continua a crescere l’e­sperienza di Cl, fatta di persone che non si piccano di essere im­peccabili ma che amano la vita nuova, quella che anche Nicode­mo cercava, perché riconoscono anzitutto di essere amati da Dio. Seguendo il percorso tracciato dalla vita e dagli scritti di Giussa­ni, Carrón ha esaltato il ruolo del­la ragione e della libertà come e­lementi che permettono di sana­re la frattura tra il sapere e il cre­dere che caratterizza l’uomo mo­derno. E ha esortato a lanciarsi in mare aperto per conoscere e far conoscere a tutti la novità del cri­stianesimo, a superare come i compagni di Ulisse le Colonne d’Ercole nella certezza che «è il rapporto con l’aldilà che rende possibile l’avventura dell’aldi­qua ». In un affettuoso telegramma in­viato al Papa – «testimone affa­scinante dell’uomo nuovo che nasce dallo Spirito, che con la pa­rola e i gesti ci mostra la perti­nenza della fede alle esigenze del­la vita» – Cl sottolinea l’impor­tanza dell’incontro convocato dalla Consulta delle aggregazioni laicali in piazza San Pietro per il 16 maggio, in vista del quale il movimento si sta mobilitando con inviti diffusi a tutto campo, dalle parrocchie ai luoghi di la­voro e di studio.
In 26mila a Rimini per gli esercizi spirituali, migliaia in collegamento da 74 Paesi Il presidente della Fraternità ricorda il carisma fecondo di Giussani. Mobilitazione per l’incontro dei movimenti con il Papa il 16 maggio
DI GIORGIO PAOLUCCI - Avvenire 27/04/2010

Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore - domenica 22 agosto 2010 - sabato 28 agosto 2010





“Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore” è il titolo della XXXI edizione del Meeting. Parole che riecheggiano quelle che Albert Camus fa pronunciare all’imperatore Caligola nel suo celebre dramma: “ho provato semplicemente una improvvisa sete di impossibile… ho bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità”. In ogni uomo, di qualsiasi razza, cultura, religione, tradizione alberga questo desiderio di cose grandi, di qualcosa di infinito. Un’aspirazione che l’uomo in tante occasioni tende a trascurare e a dimenticare, complice innanzitutto una certa mentalità che lo considera solo come il risultato di una casualità chimico-biologica o al limite di un processo evolutivo.

Si respira una cultura che tende a cancellare “l’umanità dell’uomo”, il “mancamento e voto” espresso da Leopardi nello Zibaldone. Il rischio è quello che si affermi una concezione puramente materialistica della vita. La provocazione contenuta nel titolo afferma invece il contrario. La natura dell’uomo è innanzitutto il suo cuore che si esprime come desiderio di cose grandi. Il motore di ogni azione umana è questa aspirazione a qualcosa di grande, l’esigenza di qualcosa di infinito. L’uomo è rapporto con l’infinito. E’ questa tensione il tratto inconfondibile dell’umano, la scintilla di ogni azione, dal lavoro alla famiglia, dalla ricerca scientifica alla politica, dall’arte all’affronto dei bisogni quotidiani.

Il Meeting cercherà di documentare come nella realtà di oggi sia innanzitutto necessario partire dall’umanità di ogni persona, facendo dei bisogni e dei desideri degli uomini l’anima delle scelte grandi e di quelle quotidiane. Anche perché solo questo è il punto che accomuna tutti gli uomini ed è pertanto l’inizio anche di un reale dialogo tra i popoli.

L’uomo che considera seriamente la sua umanità è colui che non è mai domo e soddisfatto e che affronta la vita con l’attesa di qualcosa di grande. Scrive Cesare Pavese: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. L’attesa è la struttura stessa della natura umana, l’essenza dell’anima. I grandi desideri e le grandi aspirazioni non sono un ostacolo o qualcosa che complica l’esistenza, ma sono ciò che rende l’uomo irriducibile proprio perché essi sono il segno del suo rapporto con l’infinito.

sabato 24 aprile 2010

“Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”.L’omelia del Patriarca S.Em Rev.ma cardinale Angelo Scola in occasione degli esercizi spirituali



RIMINI – Sabato 24 aprile 2010 il Patriarca S.Em Rev.ma cardinale Angelo Scola ha presieduto la Santa Messa a Rimini in occasione degli esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione.

1. «Dio, nell’acqua del Battesimo hai rigenerato coloro che credono in te». Così ci ha fatto pregare l’Orazione di Colletta. All’interno di questi Esercizi Spirituali cui prendono parte, in vari modi, membri della Fraternità di Comunione e Liberazione di numerosi Paesi del mondo, l’azione eucaristica che stiamo celebrando rende presente l’unico ed irripetibile evento salvifico di Gesù Cristo. Siccome la rigenerazione che salva può avvenire solo nel presente, allora l’amata persona di Cristo, presente qui ed ora, sta rigenerando, sta salvando proprio me, proprio te qui ed ora. Sono io, sei tu il rigenerato, «l’uomo nuovo di cui Cristo parlava a Nicodemo, l’uomo che nasce dall’alto: dall’alto, cioè dall’Altro!» dice Don Giussani. E continua: «Si tratta realmente di una “concezione” di sé, di una concezione generata dal riconoscimento e dall’accettazione dell’Altro come l’attrattiva che mi costituisce» (cfr Certi di alcune grandi cose, 218).
Don Giussani fa leva sul doppio significato della parola concezione: nel Battesimo ogni uomo è concepito di nuovo come figlio nel Figlio e da qui ha origine per lui una nuova concezione di sé. E Benedetto XVI così la descrive, in modo lapidario: «“Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della novità cristiana chiamata a trasformare il mondo» (Omelia al Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006).

Anche dopo tanti anni di cammino cristiano è impossibile non percepire l’urto, starei per dire lo sconquasso che queste affermazioni di radice paolina provocano in noi, se non altro per l’oceano di distrazione in cui normalmente siamo immersi, forse anche qui, in questo momento.

L’uomo è concepito come cristiano nel Battesimo. Ma, soprattutto se l’ha ricevuto da bambino, il Battesimo fiorisce in una nuova concezione di vita quando avviene il suo incontro personale con Cristo nella Chiesa.

Questo incontro è dovuto alla grazia del carisma che rende persuasiva la grazia del Battesimo e dell’istituzione ecclesiale. Lo ha precisato il Venerabile Giovanni Paolo II: la grazia sacramentale (istituzione) «trova la sua forma espressiva, la sua modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi carismi che caratterizzano un temperamento ed una storia personale» (Discorso ai sacerdoti partecipanti a un corso di Esercizi spirituali promosso da Comunione e Liberazione, 12 settembre 1985).

Ogni cristiano dovrebbe compiere l’esercizio di rinvenire con precisione nella propria vita il quando ed il come di questo incontro personale e riandarvi continuamente per restarvi fedele.

Tutti noi sappiamo che ogni grazia – ciò vale per il sacramento e vale per il carisma – non può essere posseduta come si possiede un oggetto. Perciò ognuno di noi, se appena è autentico, può riconoscersi in Nicodemo, combattuto tra lealtà e scetticismo. Pensiamo a quando si riaffaccia maligna la nostra misura nell’uso della ragione – «Come può nascere un uomo quando è vecchio?» (Gv 3,4); o quando la libertà si impunta – ottusa, o addirittura capricciosa – «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Vangelo, Gv 6,60) -. Allora la realtà ci sfugge come la luce se volessimo trattenerla nelle nostre mani impotenti.

2. Chi ci libererà da questa ultima tristezza di vita? Solo il “testimone fedele” (Ap 3, 14). Così l’Apocalisse definisce Gesù. Lui e quanti Lo seguono, come si segue una presenza che diventa il centro affettivo di tutta l’esistenza. Il carisma vive nell’incontro storico con il testimone in cui splende la novità del Risorto. È data così all’uomo la possibilità di ri-nascere come avvenne fisicamente, in forza del testimone Pietro, per Tabità (Gazzella) risuscitata (Prima Lettura).

La testimonianza è il metodo di conoscenza più adeguato della verità perché è il modo con cui essa si comunica. E una verità è veramente conosciuta solo quando è comunicata.

La ri-nascita battesimale consente l’incontro di tutto l’io con tutta la realtà perché apre ed accompagna la libertà a quella relazione buona per eccellenza che è la comunione con Cristo e, in Lui, con i fratelli. Il cristianesimo è realmente la nuova parentela, più forte di quella della carne e del sangue.

Ma la comunione è a tal punto “dall’alto” che in mille modi noi le opponiamo resistenza. Pertanto la provocatoria domanda di Gesù nel Vangelo di oggi: «Volete andarvene anche voi?» poco o tanto è rivolta a tutti noi qui riuniti. La vitalità del carisma, a cinque anni dalla morte di Don Giussani, domanda testimoni tesi ad una umanità riuscita. Il carisma incalza la libertà di ciascuno dei membri di Comunione e Liberazione perché giunga, come quella di Simon Pietro, fino alla verifica della convenienza della sequela: «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,69).

3. Come può credere e riconoscere Cristo come il Salvatore, cioè rinascere dall’alto, dall’Altro, l’uomo di oggi, l’uomo post-moderno, tentato di cercare la salvezza nelle strabilianti scoperte delle tecnoscienze in campo evolutivo, biologico, neuroscientifico, considerando, non di rado, la fede religiosa al massimo come una soggettiva opportunità consolatoria?

L’unica condizione, anche nell’attuale frangente storico resta l’incontro con testimoni di una umanità redenta, perciò piena e conveniente, quindi ben radicata nella post-modernità.

Vivere da uomini redenti non significa essere impeccabili, ma “amare la vita nuova” perché siamo amati da Colui che ci ama per primo. «Deus prior dilexit nos». Afferma Agostino: «Non amiamo se prima non siamo amati… Cerca per l’uomo il motivo per cui ama Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato» (Disc. 34, 1-3; 5-6).

Un simile, credibile testimone si riconosce dall’unità della sua persona. L’unità è il valore su cui si fonda l’esperienza elementare dell’io. Ma l’unità dell’io si sostanzia di relazioni buone. A partire da quelle primarie col papà e con la mamma, fino ad includere tutte le relazioni in cui l’uomo ri-nasce scoprendo ogni volta, anche dopo la caduta o i naufragi, che il disegno buono del Dio fedele non cessa di rispondere alla promessa di compimento destata dall’incontro con Cristo. È il fenomeno dell’autorevolezza, dell’affiorare della santità, che non può stare e non sta mai senza l’autorità costituita. L’autorità costituita è la figura umana attraverso la quale si segue «il disegno dello Spirito di Dio nella storia e nella nostra vita» (Don Giussani, Da quale vita nasce Comunione e Liberazione).

Unità dell’io, unità della Chiesa guidata dal Successore di Pietro e dai successori degli Apostoli. E unità con chi nella compagnia vocazionale, nata dal carisma a cui si partecipa, ha ricevuto la responsabilità oggettiva di guida. L’unità vissuta come abito permanente e virtuoso dice più di tutto il resto la novità dell’uomo redento ed assicura il permanere della Chiesa e di ogni carisma nella Chiesa. È per questo che l’unità non teme mai la correzione, comunque nasca, perché nulla può intaccare il fatto che l’unità, in quanto donata dall’alto, sempre ci precede mobilitandoci.

4. «Che cosa renderò al Signore per tutti i suoi benefici?» abbiamo ripetuto col Salmo responsoriale. La preferenza, dimostrata dal Signore con il dono della fede e con la partecipazione al carisma di Don Giussani, rende più acuta la consapevolezza e struggente la passione che, come ci documenta il Libro degli Atti, condusse i primi sulle strade del mondo. A questo proposito è utile che non ci lasciamo sfuggire quello che solo apparentemente è un dettaglio della Prima Lettura. Descrivendo la vita e la missione di Pietro, dice infatti il Libro degli Atti: «E avvenne che Pietro, mentre andava a far visita a tutti…».

In questo «far visita a tutti» sono espressi l’orizzonte e la natura propria della missione della Chiesa e di ciascuno di noi. Non c’è circostanza né situazione dell’umana esistenza estranea al dono del Risorto. Per questo la missione chiede un’apertura alla realtà a tutto campo e assegna a ciascuno di noi una ben precisa responsabilità. Ci è chiesto di assumere, come uomini nuovamente concepiti nello Spirito, le circostanze vocazionali personali e comunitarie, sempre concrete e storicamente situate, fatte di tempo e spazio, di stato di vita, di affetti, lavoro e riposo, di gioie e dolori, di speranza e di problemi… documentando la convenienza suprema dello spendere la propria esistenza “in Cristo”. La missione si gioca in ogni luogo e in ogni momento e non potrà mai essere immaginata come la riproposizione meccanica di formule o iniziative. La vita ti è data per essere donata. Se non la doni il tempo te la ruba.

Unità e missione sono l’espressione della gratitudine al Signore e a coloro che ci hanno preceduto e accompagnato nella Sua sequela. Anzitutto al carissimo Don Giussani .

5. Affidiamo alla Vergine Maria, Mater Ecclesiae, il nostro cammino. Ella è la madre dei redenti. Il Suo “sì” è sorgente del mondo trasfigurato, ambiente di vita degli uomini liberi, liberi perché sempre e di nuovo liberati dall’alto. Amen

martedì 20 aprile 2010

Dolore e speranza come di «naufragio»


Uno degli otto che a Malta hanno incon­trato Benedetto XVI e faccia a faccia gli hanno raccontato la loro storia di bambini violati ha detto che il Papa ha pianto, nell’a­scoltare. Segreto e riservatissimo l’incontro, nessuna telecamera si è allungata a cogliere l’istante in cui la compassione, il cum - pa­tere, soffrire insieme, traboccava sul viso di Benedetto XVI. Lo ha testimoniato solo, me­ravigliato, un visitatore: «ll Papa ha pianto con me». Piangere, e soprattutto davanti ad altri uo­mini, non è abitudine dei grandi della Terra. Se mai succede, lo fanno da soli, perché nes­suno veda ciò che comunemente è inteso co­me stigma di confusione e debolezza. «Ver­gogna », e senso di «tradimento» sono le e­spressioni che lo stesso Benedetto ha usato nella Lettera ai cattolici d’Irlanda.

Però non c’è, in quella sofferenza trapelata a Malta, so­lo il dolore del male, né solo senso di sconfitta. In volo verso l’isola dove Pao­lo fece naufragio, il Papa ha detto ai giornalisti: «Pen­so che il motivo del naufragio parli per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede. Così anche noi possiamo pen­sare che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio e possono essere utili per nuovi inizi nella nostra vita». Singolare, straordinaria cristiana lettura di ciò che, normalmente, gli uomini chia­mano semplicemente disgrazia, o colpa, ma in ogni caso identificano in un pu­ro male, come il rivoltarsi di un avverso de­stino. I marinai della nave di Paolo, in balia del Mediterraneo, alla deriva in un orizzonte sen­za approdi, maledivano probabilmente il giorno in cui erano partiti – il giorno in cui un Caso maligno li aveva arruolati in quella im­presa. Paolo invece, lo ha ricordato il Papa, e­ra certo: «Ci dovremo imbattere in un’isola». Spezzata la rotta per Roma, pure non dubi­tava che anche quel naufragio fosse disegno di Dio.

Il fondo della sventura, la nave sfa­sciata dalle onda e l’equipaggio miserabil­mente approdato sugli scogli: eppure Paolo era convinto che non fosse la fine, ma un al­tro inizio. (Non è quasi mai così, fra gli uomi­ni. Di fronte a una dura sconfitta molti si i­steriliscono nella rabbia. I più si rassegnano, amari. Qualcuno si ribella fino a voler mori­re. Non è cosa del mondo, questo modo di guardare a un naufragio: come al germoglia­re di un seme selvatico, non seminato, e che tuttavia spunta in un giardino). Già almeno una volta Benedetto XVI ha usa­to questa espressione, naufragio. «Senza un morire – ha scritto nel 'Gesù di Nazaret' – senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione». Dicendoci che il nostro progetto, anche il mi­gliore, non è necessariamente quello di Dio, che strappò le vele alla nave di Paolo, a Mal­ta. Dicendo che il fallimento accettato nella conversione può essere fertile di vita nuova. Che non ci salviamo da noi, ma veniamo sal­vati da Cristo. Che sguardo 'altro', e che altra prospettiva, mentre ancora i titoli dei giornali stanano e inseguono accaniti vicende di preti colpevo­li – quasi soddisfatti che anche gli uomini di Dio siano a volte miserabili come gli altri. «Il Papa ha pianto», ha detto un ex bambino vio­lato a Malta. Lo ha detto meravigliato e com­mosso; perché ha visto in faccia al Papa vero dolore. Eppure, insieme, una assoluta, ferrea certezza di un bene, tuttavia, perfino di quel male più grande.


Marina Corradi
Da Avvenire

domenica 18 aprile 2010

CINQUE ANNI CON BENEDETTO XVI - LA GRATITUDINE DI UN POPOLO CHE NESSUNO SAPRÀ MISURARE



Chi sono gli italiani che si riuniranno do­mani? Chi sono questi che si radune­ranno senza bandiere, senza invadere piaz­ze, niente comizi, senza battaglia di cifre con la questura ? Cosa è questo radunarsi in tan­ti luoghi? Gente che non si mobilita contro qualcuno. Nemmeno si tratta di gente che presume di fare il raduno dei migliori. Dei puri. Hanno una sola cosa da chiedere. Una cosa importante, per la quale non basta ri­vogersi – con tutto il rispetto – al Presidente. Né basta un Primo Ministro. Sono gli italiani che si troveranno a pregare per il Papa nel quinto anniversario della sua elezione. Pre­gheranno perché Dio che lo ha scelto conti­nui a sostenerlo. Accadrà qualcosa del gene­re in tutto il mondo. Un ritrovo di ringrazia­mento. Per quella elezione di un uomo cer­to e umile alla più alta responsabilità del mondo. Il Papa è il capo che ha meno pote­re, ma ha la più alta e vasta responsabilità. La più profonda e radicale responsabilità. Ri­cordare a tutti, con la sua presenza e testi­monianza, la più importante cosa della sto­ria. La più impressionante: l’uomo ha meri­tato che Dio si incarnasse. Ricordare che il mistero della vita, la gran misericordia del­­l’Essere si è fatta vicina a ciascuno. A noi men­tre amiamo, mentre siamo storditi di dolore, mentre si fatica o mentre si gode. Mentre ca­diamo e mentre desideriamo riscattarci dal peccato, mentre ne soffriamo.
Questa gente che domani si raduna e farà – vedrete – meno notizia di tanti altri raduni infinitamente meno numerosi, si troverà ad alzare una preghiera lieta e forte. Per ringra­ziare Dio e per chiedere di sostenere chi ci ri­corda che Lui è vicino al desiderio di ciascu­no d’esser raccolto in una vera giustizia. In un giusto abbraccio, cioè con la misura giusta della nostra natura, stupenda e fragile, come hanno sempre riconosciuto tutti i poeti e gli artisti.
Alta responsabilità del Papa, immenso servi­zio, nessun potere. Nemmeno d’esser ripa­rato dalla ferita del male, e dall’ingiuria. Dal­lo sputo. Sarà un ritrovo di gente normale. Il che non significa, come intendono di solito i pubblicitari o i politici, gente con i gusti e le idee che questa società mette in testa a tutti, omologandoli. Gente normale nel senso che sa d’aver aspirazioni e difetti, d’esser abitata dall’ideale e anche peccatrice. Ma gente che ha qualcosa per cui ringraziare. Questo ope­raio della vigna. L’operaio Joseph. Il mite e certo, il serio e lieto amante di Cristo.
Domani sarà un ritrovarsi di gente che in mezzo alla tante penombre del vivere ha un punto, un fuoco di gioia dura. Che ha un fa­ro da guardare tra le onde della vita, mare al­tissimo che conosce ogni tipo di tempesta e di pericolo di abissi. Chi sono dunque, que­sti italiani che domani si stringono intorno al loro Papa, nel giorno anniversario della sua elezione? I vip delle pagine culturali odierne, gli illuminati dai fari delle tv e dei media più in voga, vorrebbero farci credere che si trat­ta di gente strana. Un popolo di illusi o poco intelligenti, che si lascia manipolare da un gruppo di tizi poco raccomandabili. Ma que­sta gente che domani porterà il proprio cuo­re ferito e allegro, il proprio volto segnato e certo nelle Chiese del nostro Paese ha impa­rato a non dar troppo peso alle chiacchiere dei farisei, sempre uguali da duemila anni. Non ha tempo per cose noiose. La vità è un’avventura di ben altro spessore. È gente che ha qualcosa per cui ringraziare. L’ope­raio Joseph. Il mite e lieto compagno di cam­mino, più avanti di tutti. Il più esposto per tutti, in quella posizione senza riparo per cui mentre i suoi nemici lo colpiscono, i suoi fi­gli lo guardano, con gli occhi più commossi e grati. E questa gratitudine commossa è la difesa più forte.
D.Rondoni - avvenire -

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 14 aprile 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 346-351.
• Canto “Quando uno ha il cuore buono”
• Canto “Give Me Jesus”
Incomincio leggendo una delle domande che avete mandato. «Nel capitolo “Perfetti come il padre vostro” e “La morale è imitare Dio nella carità” la mia reazione immediata è stata quella di provare su di me una sorta di impotenza e di stratosferica sproporzione fra me e quello che invece Giussani descrive come esperienza che nasce dal dono commosso di sé e offerta della propria vita. In
particolare, mi ha colpito la descrizione degli atteggiamenti nuovi del cambiamento di mentalità che nascono da questa diversità di vita dell’ultimo capitolo sulla carità. Mi sembra umanamente impossibile vivere in questo modo, eppure sono certo che per meno di questo la vita alla lunga diventa insostenibile; che cosa dà la forza per giocarsi e rilanciarsi nella realtà come descrive Giussani?». La forza per giocarsi la descrive lui stesso, perché anche lui parte – come abbiamo detto
la volta scorsa – da questa impressione di sproporzione totale; dice infatti a pagina 338: «È curioso il vangelo quando dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”. Perfetto come il Padre nostro: ma chi è capace? Come raccomandazione è sconsiderata, come raccomandazione produce l’inverso: la paura. Invece c’è il passo parallelo di san Luca che spiega cosa vuol dire: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre che sta nei cieli”. La perfezione è questa commozione in atto verso il bisogno dell’uomo». E poi descrive come si comunica a noi l’essere:
«La fonte è in Te dell’essere», come ogni fibra del nostro essere dipenda, abbia la sua sorgente in Lui e come questo si vede in modo solare quando si parla di un bambino rispetto alla mamma; dicevamo l’altra volta: l’uomo deriva da Dio infinitamente di più che un bambino nasca dalle viscere di sua madre, tanto è vero che se il bambino fosse autocosciente direbbe: «Tu sei tutto per me». Uno che fosse veramente consapevole si renderebbe conto che questa dipendenza è infinitamente più grande in chiunque di noi, ma questo si vede ancora di più quando il Mistero si
muove per questa carità piena di commozione e fa vibrare tutto il nostro essere. Perciò è vero che è impossibile, la questione è se noi capiamo che la carità può essere “solo” riflesso della gratuità della Sua grazia. Cita Péguy: «Come la loro libertà è il riflesso della mia libertà, / Così mi piace trovare in loro come una certa gratuità / Che sia come il riflesso della gratuità della mia grazia [la grazia è qualsiasi mossa con cui Dio crea, perché la mossa di Dio è creatrice]. Che sia come creata a immagine e somiglianza della gratuità della mia grazia». Per questo noi dobbiamo essere molto attenti, perché è qui dove noi introduciamo un altro metodo: è impossibile, se non è la comunicazione del Mistero che ci rende così Suoi da farci poi riflettere nel nostro essere quello che riceviamo da Lui. È questo che dobbiamo testimoniarci, perciò lo leggo all’inizio della Scuola di Comunità, speriamo che le esperienze che sentiremo questa sera aiutino a riconoscere questo,
perché è vero che per meno di questo, alla lunga, la vita diventa insostenibile; Giussani lo descrive in un modo solare quando dice che «se non si attua nell’amore, come amore, l’io è insoddisfatto, rabbioso con sé, ostile agli altri, incapace di bere e di assimilare la bellezza della realtà, annoiato»;
l’alternativa a questo è una vita rabbiosa. Per questo ci interessa capire bene il passaggio.


Sono sposato e ho due figli. Per circa quarant’anni per me tutto quello che era prima Chiesa, Mistero, fede eccetera non c’entrava con la vita, finché quattro anni fa, con la morte di un carissimo amico, è successo l’incontro ed è entrata in me la bellezza. Ho ereditato da questo mio amico il Banco di Solidarietà, i cosiddetti “pacchi”, così incominciò per me piano piano a cambiare tutto. Poi due anni fa, dopo aver partecipato all’assemblea dei Banchi, lì per la prima
volta mi sono sentito veramente pieno e, come diceva la canzone prima, con un cuore buono si può
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fare di tutto. Che dire? Vorrei raccontare, parlare di me, di quello che mi sta capitando da quando mi è stato data – come dire? – una nuova vita. Ti accorgi che ogni giorno che vivi lo vivi per qualcosa che è voluto, mi sorprende lo stupore con cui affronto tutto questo: cose nuove e belle e cose negative, che prima di questo sarebbe stato quasi impossibile accettare.
«Prima sarebbe stato quasi impossibile».
Fatto sta che io sono sempre quello di prima, con i miei difetti, le mie abitudini ed è proprio qui il punto, il fatto: sono quello di prima, ma con un cuore diverso, con un cuore pieno. Volevo raccontare alcuni episodi che ho vissuto. Il primo: alcuni mesi fa, degli amici che erano stati al Meeting mi hanno portato un regalo, un berretto con la scritta: “Dio c’è ma non sei tu, rilassati”.
Devo dire che mi è piaciuto molto e lo indosso anche al lavoro in cantiere. Un giorno, mentre stavo lì tranquillo, un collega non italiano mi disse: «Ma perché porti quel cappellino con quella scritta?»; al momento rimasi di stucco, ma poi risposi tranquillamente: «Vedi, porto questo cappellino perché ho incontrato qualcosa di straordinario e perché da non molto tempo mi sento davvero cristiano». Continuai a parlare di me e di come questo incontro ha cambiato me, il modo
con cui sto con gli amici, colleghi, di come sto con la famiglia. Il giorno dopo mi si avvicina un altro operaio che si trovava vicino a noi il giorno prima e aveva ascoltato tutto, mi chiese se per favore potevo raccontare anche a lui quello che avevo raccontato al suo amico riguardo alla famiglia e al modo con cui sto davanti alle persone, avendo incontrato questa realtà. Beh, mi sono venuti i brividi grandi come una casa, in quel momento mi sono stupito veramente, mi sembrava quasi incredibile di trovarmi a raccontare, a parlare della bellezza della carità di Cristo proprio a due stranieri e musulmani, che rimanevano stupiti dal modo con cui io raccontavo la mia esperienza, del fatto che io indossavo quel cappellino senza problemi. Cavolo, ma quanto grande è il Mistero? Ma quanto vera è quella Presenza che non fa distinzioni e ti mette di fronte alle persone per il fatto del commosso, per il fatto che ti commuovi di fronte a tutto questo. Qui mi viene da dire:
ho tutto, non mi manca niente, ho amici, compagnia, sono felice di vivere questa realtà. Ma l’umano non finisce mai di lavorare e ti mette sempre in discussione; mi capita alle volte mi trovarmi di fronte a situazioni un po’ dure per il fatto magari che mia moglie non condivide del tutto il mio pensare, il mio incontro. Ma come? Mi capita di parlare di carità e di bellezza con persone che nemmeno conosco e le persone che ho più vicino con cui vivo la mia vita non mi capiscono? Non nego che alle volte ci sto male e questo mi aiuta a capire che le circostanze che
viviamo non ce le creiamo noi, ci vengono date. Giorni fa un amico mi disse come mai non avevo partecipato all’assemblea della Fraternità regionale, risposi che quella domenica a mia moglie “cascava” il giorno di riposo e avevamo organizzato una piccola gita; l’amico mi guardò dicendomi che secondo lui non vedeva molto giusto aver saltato quell’assemblea, ma non per il fatto che prima c’è l’assemblea e poi la moglie, ma cercando di spiegarmi che bisognerebbe sacrificare qualche altro incontro per certe occasioni. Penso, pur rispettando il mio amico, che questo non sia molto giusto perché il Mistero ci dà e ci mette davanti quotidianamente quello che
dobbiamo vivere, perciò se ci capita un’occasione è perché Lui ce la dà. Insomma, quello che voglio dire è che Cristo c’è quotidianamente, ora, qui e non fra un mese, non quando diciamo noi.
Io ho incontrato questa meravigliosa realtà non per essere del movimento o fare il movimento, ma per vivere il movimento; non so se questo c’entri con la carità, ma di una cosa sono certo, che tutto questo ti riempie di vita, ti rende vero, ti fa sentire amato in qualsiasi circostanza.

Grazie. Una risposta più adeguata è difficile trovarla, perché è tutta lì davanti a noi.

Volevo raccontare alcune esperienze vissute in quest’ultimo mese che mi hanno aiutato a capire che cos’è la commozione. Due cose in particolare: la prima, solo se io in prima persona sperimento questa commozione posso cambiare lo sguardo verso l’altro, liberarmi da ogni pregiudizio e accorgermi che anche l’altro può commuoversi. La seconda cosa, pur cosciente della mia nullità, del mio niente, posso anch’io essere per l’altro qualcosa di importante e diventare una persona
eccezionale. Il mese scorso ho accompagnato una mia classe a un viaggio di istruzione a Napoli, proposto da me e dalla mia collega, spinte da una preoccupazione più educativa che didattica.
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Coscienti delle problematiche e del niente vissuto quotidianamente dai nostri ragazzi, volevamo poter offrire a questa classe, oltre che la visita ai musei e ai monumenti, qualcosa di più, cioè un incontro con una realtà fatta di persone eccezionali come gli amici del Rione Sanità, che avevamo conosciuto al Meeting di Rimini e che attraverso le loro canzoni e la loro mostra avevano mosso il nostro cuore, e quindi speravamo che ciò accadesse anche per loro. La premessa a questo viaggio: alcuni colleghi, sapendo della nostra appartenenza al movimento ci avevano accusato di voler utilizzare questa uscita per indottrinare i nostri ragazzi. Devo dire che io sono partita per Napoli piena di timori e di paure che potesse accadere qualcosa nel nostro comportamento che poi, al ritorno, sarebbe stato magari raccontato e che avrebbe potuto dare adito a incentivare questi pregiudizi negativi, quindi la mia unica preoccupazione era quella che tutto fosse perfettamente
organizzato, che non ci fosse nessuno sbilanciamento ideologico. Così partiamo e arriviamo alla sera, tutto a posto. Il secondo giorno, però, è accaduto un fatto imprevisto: siamo andati a visitare la chiesa del Gesù accompagnati da un’amica del Rione Sanità; eravamo nell’ala riservata a San Giuseppe Moscati, tutta tappezzata di ex-voto per grazia ricevuta e si avvicina a noi un anziano sacerdote che, interrompendo la spiegazione della nostra amica, si mette a raccontarci la sua
esperienza nelle favelas del Brasile e poi la vita di Giuseppe Moscati, e poi ci dice con cadenza dialettale che tanta gente ogni giorno gli chiede di dire non una Ave Maria, ma tante Ave Marie e quindi, vedendoci lì seduti, ci chiede di recitare insieme una preghiera e così abbiamo fatto. Ho guardato i volti stupiti dei miei alunni che recitavano l’Ave Maria e a me è sobbalzato il cuore e mi sono commossa, mi sono messa a piangere di fronte al modo così imprevedibile con cui il Signore
si stava manifestando; immediatamente ho pensato a un collega che ironicamente mi aveva detto che avremmo fatto recitare le preghiere: se davvero avessimo programmato il tutto, non sarebbe riuscito così bene. In quel momento ho capito che è un Altro che fa e non io che faccio. Quanto è accaduto mi ha immediatamente liberato da ogni timore e paura; anzi, mi ha dato una carica che mi ha permesso da quel momento in poi di guardare ogni mio alunno con uno sguardo diverso. Per esempio la sera stessa un ragazzo voleva assolutamente andare a vedere la partita di Champions
League, è venuto giù un acquazzone tremendo, eppure con l’ombrello, tutti bagnati, siamo andati a cercare un posto dove andare a vedere la partita. Il giorno dopo i nostri amici ci hanno portato a visitare il Rione Sanità e un amico architetto, prima di spiegarci alcuni monumenti presenti nella zona, ci ha raccontato brevemente il motivo per il quale, dopo aver incontrato quella che ora è sua moglie, ha deciso con lei di vivere proprio in quel quartiere rinunciando a una buona carriera; una
mia alunna è scoppiata in lacrime, un’altra addirittura ha detto: «Ma deve proprio tenerci a questo Dio, deve proprio volerGli bene per fare questa scelta»; la stessa sera abbiamo partecipato al concerto di Alfredo Minucci che con le sue canzoni piene di profonda poesia ci ha raccontato come attraverso l’incontro con alcuni amici la sua vita è cambiata, e quella stessa ragazza che aveva pianto nel pomeriggio, si è di nuovo commossa; la sua amica è stata immobile tutto il tempo a registrare le canzoni di Alfredo. Con noi c’era una persona che, vedendo questi ragazzi piangere,
mi dice: «Ma come sono fragili questi ragazzi che piangono così sentendo una canzone». Allora io ho riflettuto su questa frase e ho detto dentro di me: ma la fragilità è quando le cose non ti vanno per il verso giusto come tu le hai organizzate e quindi piangi perché è come se tu avessi perso la speranza, ma la commozione è un’altra cosa. Credo che la mia alunna si sia commossa perché ha
sentito qualcuno che le ha detto qualcosa di così vero che non può non farti vibrare il cuore, quel qualcosa che ti corrisponde così perfettamente e che tu non ti aspettavi per cui resti stupito e commosso, pieno di gioia. Tornati a casa, abbiamo fatto scrivere dei commenti su questa gita e questa ragazza scrive: «Mi ha colpito l’architetto e sua moglie, che hanno scelto di vivere insieme nella zona più malfamata di Napoli per aiutare la propria gente e poi le belle melodie di Alfredo
che hanno contribuito a rendere la giornata fantastica». Poi, naturalmente, tra i tanti commenti scritti i ragazzi hanno detto che hanno scoperto alcuni aspetti nuovi dei loro professori e quanto è buona la pizza di Napoli. Mi sono resa conto che anche attraverso di me e attraverso il mio niente io posso diventare per qualcuno una persona eccezionale, tanto che anche la pizza mangiata insieme diventa più buona.

Grazie. Lei ha cominciato a guardare in un altro modo, in un certo momento, per quello che stava accadendo ai suoi studenti, cioè la comunicazione dell’Essere che stava succedendo l’ha fatta partecipare a quello sguardo e questo si è comunicato anche ai ragazzi e si comunica soltanto attraverso il sì, l’accogliere in noi questa grazia.
Cerchiamo di essere concisi, perché altrimenti non ce la facciamo.



Anch’io ero giù a Napoli con questa classe, e, sull’onda di questa eccezionalità vissuta e commossa, ho pensato: «Vado al triduo di Gs dopo tanti anni che non vado»; mi sono ammalata e quindi sono rimasta, come dire, sprovvista del gesto eccezionale; non sono neanche riuscita ad andare alla Via Crucis della sera, quindi, apparentemente, non c’era l’occasione eccezionale che mi aspettavo, che mi avrebbe ricommosso, e questo mi ha molto colpito perché trovandomi sola con me stessa ho pensato: «Signore, mi rimane come cosa ancora estranea che Tu sia morto per me, è
una cosa che mi dispiace, non capisco che cosa c’entri con me». Allora sono andata a una semplice Via Crucis al pomeriggio alle tre, perché volevo essere immedesimata; a un certo punto, il prete ha detto: «Comunque Cristo ha vissuto l’abbandono del Padre a causa della distanza dei nostri peccati»; in quel momento sono rimasta commossissima, colpitissima perché ho detto: «Ma dunque, se Tu non fossi morto, io adesso non potrei avere questa pace, questa letizia, questo sguardo, questa tenerezza, questa commozione», e mi è venuta una gratitudine e ho come poggiato
i piedi, come dire: io per cosa mi affanno? Mi è venuto da guardare lo spettacolo di quello che Lui fa in me e anche attorno a me, perché comunque anche questo albore di comunità che sta nascendo a scuola è assolutamente opera Sua; e qual è il metodo? Che Lui, commuovendo me, mi fa muovere, e gli altri si accorgono che io mi muovo non per forza, non per organizzazione (tanto è vero che l’anno scorso non succedeva niente). Che il primo oggetto della carità è Cristo lo capisco in questo senso, per cui sono molto grata che tu stia insistendo così tanto sul capire questo passaggio.

Perché durante la Via Crucis tu hai percepito qualcosa?

Perché ero cosciente del mio bisogno, cioè perché io per la prima volta nella mia vita mi sono detta: «Mi dà fastidio che Tu sia estraneo su questo punto», e quindi non ho subìto quello che sentivo dire come una cosa estranea, ma ero tutta attenta a capire come il Signore mi avrebbe risposto.

Questa è una parte della vicenda, è soltanto attraverso il bisogno che Lui può entrare e poi è una grazia.

È l’Altro che è contemporaneo.

Questo è quello che volevo dire per rispondere a un’altra lettera, che dice: «“La nuova legge non è un comandamento più radicalizzato, più complicato da compiere, è la grazia dello Spirito Santo; la nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri, la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo”. Lo Spirito è la modalità con cui Cristo entra fino al midollo della nostra vita, facendoci diventare veramente Suoi. Dopo che tu hai parlato della misericordia di Dio che si è fatto carne per piangere con noi, mangiare con noi, sembra un passo indietro di concretezze, sembra di ritornare al Vecchio Testamento in cui Dio si manifesta in Spirito con i profeti, non carnalmente con la Sua faccia umana e divina allo stesso tempo; mi sembra che la carità legata alla presenza dello Spirito perda di quella dimensione carnale che è quella di cui ho bisogno.
Ti sarei grato se mi facessi capire meglio e mi scuso». Prima di tutto non si perde niente della dimensione carnale, anzi, si comunica attraverso qualcuno: quel che lei ha sentito per anni come estraneo finalmente è divenuto carnale, finalmente è suo. E questo si chiama Spirito Santo.


Infatti mi ha colpito moltissimo che a pagina 341 dice: «La sorgente di questa commozione, in Cristo come in me stesso, è lo Spirito di Cristo. È lo Spirito di Cristo la sorgente della compassione e della commozione». Tu prima della Pasqua ci hai detto: «Chiedete lo Spirito Santo», e dunque anche sulla spinta di questo tuo invito capivo che l’unico modo per averLo più carnale, per conoscerLo più carnalmente, era invocarLo.

Forse ci conviene capire che non siamo noi a farLo diventare nostro, ma che è qualcosa che dobbiamo implorare.

Sono dieci giorni che mi rigiro tra le mani l’articolo che hai scritto per Pasqua, che si intitola: «Feriti, torniamo a Cristo». Mi colpisce perché in tanti, di fronte alla provocazione scandalosa di questa vicenda, abbiamo sentito in qualche modo la tentazione di adeguarci allo scandalizzarsi di tutti (pur capendo naturalmente da subito quanto aveva in sé di strumentale tutto questo). La prima cosa che mi ha colpito nel leggerlo è che sei partito da questa parola “sgomento” e tutto l’inizio di questo tuo racconto entra dentro profondamente; “sgomento” e “giustizia” sono queste parole che continui a dire, fra l’altro riecheggiando esattamente il Papa.

A te perché ha colpito questo?

Aggiungo un altro aspetto che mi ha colpito perché poi provo a dirti che cosa ho cercato di capire io; tu non hai fatto un cenno nell’articolo all’attacco contro la Chiesa, mi ha colpito invece che tu sei partito da un’idea drammatica della vita. Io l’ho capita così: non è dramma se gridi giustizia, non è dramma se ti scandalizzi, non è dramma nemmeno se ti arrabbi per l’evidente attacco alla Chiesa che c’è qui dentro; è dramma se stai davanti all’enigma: «Chi darà risposta a questo
dolore, a questa domanda senza fine?», cioè all’impossibilità di rispondere da sé a questa domanda. A me pare che tu volessi dire: solo da lì può nascere la mendicanza di Cristo, che Lui colmi l’abisso davanti al quale siamo, l’abisso di male, di peccato, ma anche l’abisso di questo giudizio sproporzionato sulla Chiesa. Allora io voglio capire come sei arrivato a questa mossa, mentre dappertutto si fa tutto un altro discorso. Voglio dire: mentre il mondo, e anch’io istintivamente, sta fra lo scandalo e la difesa (perché i due poli sono questi ormai), mi ha colpito
che tu hai osato accomunare autori e vittime di fronte all’incommensurabilità di questa ferita che è data e ricevuta, ma è sempre questo tornare a Cristo, ché solo Lui colma l’abisso. Ecco, io voglio capire da dove nasce questo giudizio, perché io continuo a rileggerlo e mi dico: io sento che ha qualcosa a che vedere con la parola commozione, con il dono commosso di sé.

È una domanda che rivolgo a tutti: da dove nasce la mossa per guardare la realtà così?

Io dico che cosa ha provocato in me questo articolo, perché è stato un fatto che mi ha spalancato l’orizzonte e mi ha dato un grande respiro. Prima di vederlo io avevo assunto e dato dei giudizi più o meno simili a quelli che si leggono sui giornali.

E questo che cosa ci dice? Che, come spiegherò spero bene agli Esercizi, non abbiamo un volto diverso, siamo nei soliti schieramenti; è inutile che ci scandalizziamo, siamo come tutti, o un alibi o un altro, niente di nuovo sotto il sole. Questo ci introduce alla vera questione che dobbiamo porci, e dico questo per incominciare a prepararci agli Esercizi. Perché se, tanto, alla fine non siamo diversi…

Ero soprattutto dispiaciuta per il dolore che stava vivendo il Papa, accusavo questo violento attacco alla Chiesa e pensavo che in questi tempi cattivi la difesa della fede cominciava a esigere sempre di più il prezzo di un grande sacrificio. Però, nonostante questi sentimenti, senza osare dirmelo, non ero del tutto soddisfatta di come mi stavo ponendo davanti alla vicenda, avevo sentore che mancasse qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa, e soprattutto mi fermavo lì, mi accontentavo. Ho capito dopo quanto fosse di fatto estraneo a me stessa l’ascolto del cuore; fino a
quando tu hai messo l’accento sulla natura della nostra esigenza di giustizia che è infinita, allora ho capito il perché del mio disagio: in tutti i miei tentativi non mi ero mai accorta che la risposta poteva venire solo da fuori di me. L’accorgermi di aver lasciato fuori me stessa, e di conseguenza l’ipotesi della risposta, è stato un giudizio che ha ristabilito dignità a tutti. Perché non ho paura che succedano certi fatti o che vengano tempi cattivi, ma ho timore di scoprire che la fede non sia
in grado di stare di fronte a tutto, e questo timore inizia a fondarsi nel momento in cui dentro tutto io non faccio la verifica di essa. Così posso dire di aver veramente vissuto la Pasqua. Attraverso quello che ci avete detto tu e il Papa, io ho potuto avere davanti agli occhi un’umanità nuova e guardarla. È stato un fatto il tuo giudizio, hai visto dove noi non vedevamo, è stato l’irrompere di una novità che mi ha riempito di gioia e di stupore. Adesso quello che mi affascina è la possibilità
di imparare sempre di più il giudizio nuovo attraverso il metodo che tu ci indichi, ci ripeti e ci fai vedere. Così come è stato un esempio il lavoro delle elezioni: il gesto di aver dato il volantino al mercato o ai negozianti che frequento abitualmente ha introdotto un giudizio nuovo, una scoperta del reale; l’aver raccolto l’umano degli altri è stato l’accorgermi del mio, uguale e preciso al loro,
ma preso.

Cioè incominciamo a intravedere che questa nostra impossibilità di stare davanti al reale c’entra con la fede, che non è semplicemente che ci schieriamo come tutti, ma che c’entra con la fede e per questo mi interessa tornare su questo, perché ci fa verificare se c’è la possibilità o meno di qualche novità, di quello che oggi la Scuola di comunità chiama mentalità nuova, cioè se veramente è possibile o non è possibile. Perché se non è possibile, che cosa stiamo a fare qui? È una domanda radicale che arriva fino al midollo della questione. Incominciamo a prepararci agli Esercizi guardando questo, perché allora ci renderemo conto di qual è la sfida che la nostra fede rappresenta ai nostri occhi, e che cosa ci dà la fede per affrontare questa situazione.

Mi provoca molto quello che dicevi adesso perché partendo dall’altra volta io ero rimasto molto colpito dalla tua frase che hai ripreso quattro volte: «Viviamo sotto la pressione di una commozione», perché descriveva due aspetti; da una parte, tantissime persone a cui sono legato profondamente in tutto questo periodo continuano a cercarmi con una domanda sempre più vera, sempre più profonda a cui bisogna rispondere, e quindi con un’attesa grande. Un esempio di questo: sto diventando amico di un ragazzo che ha grossissimi problemi in questo momento, non
riesce ad alzarsi la mattina, ha una sfiducia totale sulle cose, non ha fatto un’esperienza di speranza su di sé e ieri sera pensavo di andare a dargli una mano, perché l’ho preso veramente a cuore; mi sono trovato di fronte un uomo che aveva un domanda così grande, così vera, addirittura più grande della mia, cui stare davanti che mi ha messo all’angolo tutto il tempo. Dall’altra, mi era venuto un desiderio insopprimibile di montagna, in questo periodo pressato dal lavoro, avevo proprio il desiderio di andare a fare l’ultima sciata. Allora, finita la Fraternità, con alcuni amici siamo andati. Siccome sono proprio amici che mi vogliono bene, tutto è stato bello: discrezione, argomenti tirati fuori, bellezza dell’ambiente, messa alla fine. Arrivo a casa, ero così contento che sono andato da mio papà che non sta bene e ho trovato la solita storia: la malattia, la sua depressione assoluta, la non voglia di sorridermi neanche un momento. Allora mi è venuto questo contraccolpo che già mi era successo nella settimana: ho proprio sentito il bisogno di raccattare Cristo da tutte le parti. Quando adesso tu dicevi della fede, a me colpiva: io non posso rinunciare al desiderio che mio papà affronti questa difficoltà con meno tristezza. Anche se credo in Gesù, non è che mi basta, con questa tristezza devo farci i conti, a un certo punto com’è che sono incapace di rispondere a questa tristezza? Eppure com’è che quella bellezza lì che ho portato giù mi portava là dentro? Cosa posso fare io? Il mio bisogno è che io devo raccattare Cristo ovunque per poter stare
di fronte a questa situazione e che quello che abbiamo davanti è molto più grande di quello che possiamo immaginare, c’è, da una parte, l’umanità con il suo desiderio infinito e, dall’altra, l’Unico che risponde.

Dove lo raccatta? Da dove tira fuori Cristo? Perché questa è la questione, altrimenti è come se la fede non avesse presa sulla realtà, e davanti alle cose siamo come tutti; è questa la questione, amici.

Parto raccontando un fatto. L’altro giorno sono tornata in ospedale dopo i riposi, mi aspettava nel corridoio una paziente e vedendomi mi è corsa incontro dicendo: «Finalmente sei tornata»; lì per lì questa cosa mi ha colpito (insomma, una che ti aspetta...) e mi ha anche gasato; fatto sta che dopo due giorni faccio la notte, succede che lei suona il campanello, va a rispondere la mia collega e lei
le dice: «No, mandami lei!». Allora io entro in stanza e lei (tra l’altro, mi aveva chiamato per una scusa banale, voleva aprire una bottiglietta d’acqua), a un certo punto, mi guarda e mi dice: «Ma esiste il Paradiso?»; da lì è accaduto un certo dialogo. A me ha impressionato questa cosa perché
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quella notte ho vissuto un sussulto con questa donna e questo sussulto ha cambiato il sentimento che io avevo di me, mi ha fatto riprendere coscienza.

Che cos’è questo sussulto?

Questo sussulto è l’esperienza della corrispondenza, cioè è Cristo.

Cioè? Che cos’è questo sussulto? Voglio capirlo bene: perché tu senti questo sussulto con certe persone così e non con altre?

Infatti la mia domanda nasceva un po’ su questo, perché se io penso a me, penso di essere una grandissima infedele e mi rendo conto che questa fedeltà è appesa a questo sussulto, dipende da questo sussulto, tant’è che, per esempio, le preferenze che ho non le ho scelte io, mi sono capitate, ma sono legate, hanno la natura di questo sussulto per cui, rileggendo questo capitolo, mi chiedevo: a fronte della mia infedeltà, quindi rispetto anche ai rapporti di preferenza, alla gente
che uno incontra, di mio cosa c’è? Di mio c’è solo l’attesa di questo sussulto? Anche perché mi rendo conto che quando per me non è vivo questo sussulto la cosa mi stufa e quindi la mollo, però io voglio capire…

Questo sussulto non è altro che la comunicazione dell’Essere, l’Essere che ti fa essere di più, l’Essere che ti fa più te stesso, come dice don Giussani, quella vibrazione ineffabile e totale davanti alle cose e alle persone; questa è la comunicazione dell’Essere, che non è un’astrazione, che non è un sentimento, che non è uno stato d’animo: semplicemente è un di più di intensità umana che si
comunica! Allora uno capisce il grande passaggio di pagina 348: «L’uomo esiste per affermare un Altro che si chiama Dio. Questa è la verità che commuove il cuore, commuove e fa agire [è il sussulto che diceva lei]. L’amore vero, cioè l’attuarsi vero della legge dell’uomo, che è lo scopo del vivere, è affermare l’Essere, è affermare l’Altro, è “affermare Te, Dio”. Analogamente, dedicarsi a un fratello, a un altro uomo, esistere per un altro, agire per un altro, commuoversi per un altro, è
amore vero in quanto desidera che l’altro conosca la verità e viva la verità del suo essere in modo compiuto». E una volta percepito questo sussulto – siccome il dialogo è un dialogo a due –, se un altro non vuole stare a questo livello, non mi interessa più, non riesce a prendermi, e allora non sonoin grado di tenere, tranne che l’Essere si comunichi costantemente a me e mi possa portare ad amare. Ma noi possiamo amare così perché l’Essere ci comunica questo di più, questa intensità. Noi
possiamo amare gli altri solo sotto il sussulto di questa commozione, sotto la pressione di questa commozione. Per questo è possibile, non perché sia nostro, ma perché questa commozione è riflesso di quello che il Mistero fa in noi, di quello che il Mistero ci comunica. Il vero atteggiamento è essere disponibili a ricevere questo dono attraverso la modalità con cui Lui ce lo dà, perché, come ci ha insegnato sempre il don Gius, la prima attività è una passività, è accogliere, è lasciarsi colpire, lasciarsi trascinare dall’Essere, accettare quel di più di essere; è questo che ci rende riflesso di Lui.

Ci prepariamo agli Esercizi chiedendo questo: che ciascuno di noi, in questo gesto che faremo fra dieci giorni, possa partecipare di più all’Essere, per noi e per il mondo. Il desiderio che abbiamo di vivere questo gesto è messo in luce, già da subito, dal nostro “io” in azione, da come il nostro “io” si muove anche rispetto al sacrificio che ci viene chiesto di essere attenti alle indicazioni; è un gesto
dalle dimensioni così enormi che non può esistere se non con il contributo del sacrificio di ciascuno, e questo sacrificio è la modalità della nostra domanda a Cristo, che abbia pietà del nostro niente, la modalità con cui noi imploriamo di non cadere nel nulla, che ci dia quella partecipazione all’Essere che rende la vita veramente degna di essere vissuta; per questo essere attenti al silenzio, alla
puntualità, agli avvisi, sono occasioni di questa preghiera, di questa domanda affinché le circostanze possano essere “amiche” del proprio cuore.

Come risposta a quello che sta accadendo nei confronti del Papa vi segnalo due gesti importanti. La CEI ha rivolto un invito a tutta la comunità ecclesiale a stringersi attorno a Papa Benedetto XVI nel quinto anniversario della sua elezione a pontefice il prossimo 19 aprile. Vi chiedo di aderire alle iniziative che le diocesi proporranno (Santa Messa, liturgia della parola, recita del Rosario,
adorazione eucaristica, veglie di preghiera, eccetera). Ciascuno deve informarsi nella propria
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diocesi; laddove non ci fosse nulla di organizzato, occorre farci noi promotori. Per la Diocesi di Milano il cardinale propone per lunedì 19 aprile una giornata di preghiera per il Papa, invitando a partecipare alla Santa Messa che le parrocchie dedicheranno a questo scopo: dunque ciascuno si informi nella propria parrocchia e vi partecipi anche invitando altri. È un gesto semplice, ma significativo in questo momento.
Il secondo gesto cui siamo invitati tutti a partecipare è questo: la Consulta nazionale delle aggregazioni laicali (un organismo che raduna le varie associazioni e movimenti ecclesiali in Italia) invita tutti a partecipare domenica 16 maggio, a Roma in piazza San Pietro, alla recita del Regina Coeli. È un gesto semplice di presenza con cui vogliamo dire e vogliamo testimoniare la nostra adesione, il nostro sostegno al Papa. Al più presto daremo le indicazioni sulle modalità operative di
partecipazione e di invito a questo gesto, cui dare la massima priorità di adesione.
A conclusione, diciamo una preghiera per il Papa Bendetto XVI, anche perché dopodomani è il suo
compleanno.
• Ave Maria

venerdì 16 aprile 2010

Un metodo per uscire dalla crisi: la lezione di Sturzo e Giussani


Che cosa hanno in comune due preti così diversi e così poco clericali - e forse proprio per questo così influenti nella storia italiana - come don Sturzo e don Giussani? Lo stimolo a riflettere su un accostamento così inusuale mi viene dall’articolo del card. Scola apparso qualche settimana fa su Ilsussidiario.net.
Citando il primo Giussani, Scola richiama la necessità, per un qualunque esperienza umana, di essere in grado di assurgere a dignità culturale. Scriveva infatti il prete milanese che fin dall’inizio “mi apparve chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale”.
Ma questa dignità culturale - continua la riflessione del cardinale su Giussani - è impossibile “se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo”.
Proprio questa attenzione al concreto farsi della storia e alla responsabilità di trasformarla in una visione culturale e politica capace di parlare agli uomini di buona volontà di una data epoca storica costituisce, a mio parere, il sorprendente punto di contatto tra Giussani e Sturzo: che cosa ha fatto il prete siciliano se non cogliere “un’esperienza umana” - quella dell’Italia cattolico-sociale di inizio ‘900 - elevandola ad una dignità culturale tale da essere capace di comunicarsi all’intero Paese?
Un tale compito costituisce poi, per entrambi i preti, la sfida stessa con cui il cristianesimo è chiamato a misurarsi, incalzato com’è dal processo di secolarizzazione: evitando di attestarsi sulle posizioni difensive di chi mira semplicemente a difendersi da una modernità che avanzerebbe solo distruggendo il patrimonio cristiano, si tratta piuttosto di avere l’ardire di affrontare a viso aperto il tempo, rintracciando al suo interno le potenzialità che, già incarnate nella prassi, possano però aiutarci a trovarne una declinazione diversa. Nella convinzione che “nel cuore della realtà” è sempre possibile trovare le tracce di quell’annuncio che provoca la fede.
In questo senso, osserva Scola, “Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo... Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni”.
E la stessa cosa si può ben dire per Sturzo, il quale - testardamente - ha dedicato anni della propria vita a conoscere la grande ricchezza dell’esperienza cattolica di inizio secolo. Nella convinzione che solo a partire da quella incarnazione sarebbe stato possibile ricostruire un’elaborazione culturale sufficientemente solida e radicata sulla quale poi basare anche la proposta politica dei cattolici per lo sviluppo dell’Italia. Non dunque un approccio dogmatico - che deduce da principi generali come deve andare il mondo - quanto l’umile immersione nella carne della vita, senza timore di sporcarsi le mani o, peggio, la testa.
E’ proprio questo il filo che lega Sturzo a Giussani e che mi sembra particolarmente prezioso per noi oggi, di fronte alla grave crisi nazionale e globale nella quale ci troviamo.
Nella sua rilettura, Scola compie un altro passaggio illuminante:“non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di 'soggetto' come implicato nel dono stesso dell’essere”.
Ora, quello che mi colpisce è che queste sono esattamente le stesse categorie che la mia ricerca sociologica mi ha portato a considerare come costitutive del tempo che viviamo. Solo che tali categorie sono poste in una cornice che, invece di generare più umanità e libertà, finisce per distruggere e confiscare queste dimensioni cosi preziose dell’esistenza umana. E questo perché la secolarizzazione in corso tocca in profondità proprio queste categorie - le stesse che erano già state colte da don Giussani - manipolandole e strumentalizzandole.
E’ questo il caso di quella configurazione nella quale viviamo - il “capitalismo tecno-nichilista” - la quale, per semplificare all’osso, lavora esattamente affettività ed evento, ma fa carta straccia di fede (ritenuta del tutto pleonastica) e ragione (ridotta a tecnica).
Sturzo e Giussani ci insegnano che solo rimettendo insieme tutte queste dimensioni - affettività, evento, ragione, fede - si può formare un impasto capace di trovare, nell’esperienza concreta della vita, la sua verità. Quando ciò non avviene o avviene in modo parziale, i modelli sociali che si vengono a costituire si rivelano fallimentari e insostenibili.
In questo modo, ci viene indicato un metodo con cui lavorare per trovare una via d’uscita dalla crisi profonda nella quale siamo finiti: mettersi in ascolto di quelle realtà diffuse che ancora esistono e che il capitalismo tecno-nichilista tende a marginalizzare e, alla fine, a distruggere e, ripartendo da lì, da questo ancoramento all’esperienza più positiva, provare a ridire una parola che possa incontrare in profondità chi vive in questo tempo, le sue paure ma anche le sue speranze
Mauro Magatti 16/04/10 ilsussidiario.net

Il comunicato della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali-L'invito al Regina Coeli domenica 16 maggio 2010, in Piazza San Pietro.


A CINQUE ANNI DALL’ELEZIONE
Preghiamo per il Papa


La Consulta nazionale delle aggregazioni laicali, organismo che raduna sessantasette associazioni e movimenti ecclesiali italiani, invita quanti appartengono e si riconoscono nel mondo dell’associazionismo cattolico a partecipare a Roma alla recita del Regina Coeli, domenica 16 maggio 2010, in Piazza San Pietro.
Vogliamo in questo modo stringerci visibilmente intorno a Benedetto XVI come figli col padre, desiderosi di sostenerlo nel suo impegnativo ministero, esprimendogli affetto e gratitudine per la sua passione per Cristo e per l’umanità intera.
Il 16 maggio a Roma intendiamo consegnare nelle mani di Maria la nostra fedeltà al Santo Padre per il bene della Chiesa, nella quale facciamo esperienza della misericordia, unica risposta adeguata al bisogno di giustizia, che emerge dal cuore di ciascuno in questi momenti.
Ci guida l’umile certezza testimoniata dalle parole del Papa: «È nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo, egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire».
Con questa consapevolezza invitiamo tutti alla preghiera in Piazza San Pietro, grati al Signore che ci ha donato Benedetto XVI come guida nel nostro cammino di fede.

Roma, 14 aprile 2010
La Consulta nazionale delle aggregazioni laicali

Oggi Benedetto XVI compie 83 anni. Lunedì 19, in occasione del quinto anniversario della sua elezione, la Conferenza Episcopale Italiana invita «a stringersi nella preghiera intorno a lui, centro di unità e segno visibile di comunione». Per questo, la Consulta nazionale delle aggregazioni laicali ha proposto di partecipare alla recita del Regina Coeli, domenica 16 maggio, in Piazza San Pietro, «consegnando nelle mani di Maria la nostra fedeltà al Santo Padre per il bene della Chiesa». Perché, come ha ricordato ieri Benedetto XVI in un'omelia ai membri della Commissione biblica, davanti agli «attacchi del mondo» siamo chiamati a «lasciarci trasformare» nel dolore della purificazione. Ecco il racconto del Giornale


Da il Giornale, 16 aprile 2010
Benedetto XVI: «Adesso è l’ora di fare penitenza»
di Andrea Tornielli

Sono poche parole, pronunciate a braccio, ma arrivano come una boccata d’aria nel clima avvelenato di queste settimane. Il Papa, nell’omelia della messa celebrata ieri nella Cappella Paolina per la Commissione biblica, ha fatto riferimento agli scandali degli abusi sui minori, pur senza citarli esplicitamente. E ha detto che i cristiani devono fare penitenza.
«Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci appariva troppo dura. Adesso sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita». «Aprirsi al perdono - ha continuato Ratzinger - prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione e della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della misericordia divina». Benedetto XVI ha parlato di «attacchi del mondo», un riferimento evidente al profluvio di articoli e di commenti anche molto polemici dedicati agli abusi sui minori perpetrati da sacerdoti e religiosi, e all’accanimento di chi cerca di dipingere la Chiesa cattolica come un covo di pedofili. Ma ha affermato che essi «ci parlano dei nostri peccati» invitando tutti i cristiani alla penitenza. Il suo richiamo è giunto al termine di una riflessione sul primato dell’obbedienza a Dio, a partire dalla frase pronunciata da Pietro di fronte al Sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini». Questa obbedienza dà dunque a Pietro la libertà di opporsi alla suprema istituzione religiosa. «Al contrario, nei tempi moderni – ha osservato Benedetto XVI – si è teorizzata la liberazione dell’uomo, anche dall’obbedienza a Dio: l’uomo sarebbe libero, autonomo, e nient’altro». «Ma questa autonomia - ha aggiunto - è una menzogna, una menzogna ontologica, perché l’uomo non esiste da se stesso e per se stesso; è una menzogna politica e pratica, perché la collaborazione e la condivisione delle libertà è necessaria e se Dio non esiste, se Dio non è un’istanza accessibile all’uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza. Poi il consenso della maggioranza diventa l’ultima parola alla quale dobbiamo obbedire e questo consenso – lo sappiamo dalla storia del secolo scorso – può essere anche un consenso nel male. Cosi vediamo che la cosiddetta autonomia non libera l’uomo».
«Le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio», ha spiegato il Papa, ricordando quella nazista e quella marxista. Oggi non viviamo sotto la dittatura, ma possono esistere forme più sottili: «Un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e la sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura». Per i cristiani, ha aggiunto, obbedire più a Dio che agli uomini, suppone però conoscere veramente Dio e volergli veramente obbedire fino al martirio. «Noi oggi abbiamo spesso un po’ paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma che la sua meta sia la vita eterna e che dalla meta vengano poi i criteri della vita, non osiamo dirlo». Allora, ha concluso il Papa, dobbiamo avere il coraggio, la gioia, la grande speranza che «la vita eterna c’è, e che da questa vera vita viene la luce che illumina anche questo mondo».
(da il Giornale, 16 aprile 2010)

«Cosa ci dice la tragedia di Smolensk?» - Il volantino di giudizio della comunità polacca

Ognuno, di fronte a questi fatti, scopre la stessa umana impotenza, la stessa vulnerabilità. Per questo ogni cuore grida lo stesso grido, la stessa domanda di significato. Chi è in grado di affrontarla? Nessun essere umano! Perciò la cosa più ragionevole è il gesto della preghiera, della domanda di significato.
In questa drammatica coincidenza, c’è “qualcosa” che la ragione non capisce, ma che allo stesso tempo esige una spiegazione completa. Vediamo che c’è qualcosa di inconcepibile, che non siamo in grado di capire. Ma non possiamo né eliminarlo, né dimenticarlo. Siamo costretti a riconoscerlo. C’è qualcosa di così grande, che nemmeno le più accurate indagini sono in grado di spiegare. Questi fatti sono certamente importanti, ma la ragione esige risposte ultime. Che nessun uomo può dare, solo Dio può. Per questo stiamo umilmente davanti al Signore della Storia, aspettando che con il tempo sveli il significato più profondo di questi accadimenti tragici.
Solamente la fede vede questo “qualcosa di più”. Così come cinque anni fa, durante l’addio a Giovanni Paolo II, sperimentavamo una «miracolosa pesca di gente». Anche adesso vediamo che è il Signore che opera. «Si è fermato lungo la riva» e ha rivelato la Sua azione nel segno di una «miracolosa pesca di gente» radunatasi in preghiera. È il Signore del mondo e della Storia a rivelarci il Suo regno sui cuori umani, trasformando le coincidenze drammatiche in un grande bene.
Egli grida: «Coraggio, sono io; non abbiate paura! Io ho vinto il mondo. Io sono la Resurrezione e la vita. Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre, alla Verità ultima delle cose, se non per mezzo di me». Solo ascoltando la voce di questo Unico Testimone possiamo trovare il significato di tutte le cose.
La Chiesa da 2000 anni è testimone della Sua Presenza e vittoria attraverso il fatto della Resurrezione. Lui presente, oggi, nella Sua Chiesa, attraverso il carisma che ci ha presi, è la forza per l’uomo anche in situazioni più drammatiche. Da qui viene la nostra certezza di fede e la speranza, che «nella vita e nella morte apparteniamo al Signore».
Vediamo che attraverso questi avvenimenti drammatici il Signore ci risveglia richiamandoci alla fondamentale verità della nostra vita, alla conversione. Convertirsi a Cristo vuol dire liberarsi dall’illusione dell’autosufficienza. Vuol dire rendersi conto e accettare il proprio niente, il bisogno della Sua salvezza e amicizia. Significa cambiare lo sguardo verso la storia e il prossimo: «Non c’è qui né giudeo né greco (né polacco né russo), perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù».
Senza Cristo non c’è vera costruzione della vita umana, sia a livello personale che sociale. Per questo non si può vivere in un silenzioso accordo, come se Lui non ci fosse, cercando di eliminarLo dalla vita, costruendo tutto “per finta”. È una scelta tragica, perché senza di Lui non c’è risposta, né soluzione alla vita e alla morte. E la vita è sempre di più presa dalla confusione e decadenza.
Senza rimanere in Lui, nella viva comunità della Chiesa, senza un’educazione costante, non è possibile mantenere questa commozione del cuore che ha fatto il Signore. Perché questo bene, nato da una morte tragica, dal sacrificio della vita, non sia vano, dobbiamo «rinascere di nuovo».
Per questo sono sempre attuali le parole di Giovanni Paolo II: «Spalancate le porte a Cristo». Il suo grido («Scenda il tuo Spirito e rinnovi la faccia della terra...») si trasformi in una domanda di fedeltà a ciò che lo Spirito ha iniziato in noi, perché sia portato avanti attraverso l’obbedienza della fede. Perché faccia in noi «un cuore nuovo e uno spirito nuovo».

Comunione e Liberazione Polonia

lunedì 12 aprile 2010

Contro gli scandali Papa Benedetto XVI prepara la "rivoluzione" dei maestri e dei santi

La lettera di Carrón ci ricorda che i preti pedofili esistono. A molti di noi piacerebbe che si trattasse solo di un brutto sogno, o di calunnie della stampa laicista. Non è quello che scrive Carrón, e non è quello che c’insegna il papa. Nella magnifica Lettera ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010 Benedetto XVI denuncia con voce fortissima i «crimini abnormi», «la vergogna e disonore», la violazione della dignità delle vittime, il colpo inferto alla Chiesa «a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione». A nome della Chiesa «esprime apertamente la vergogna e il rimorso».
Certo, il papa affronta il problema dal punto di vista del diritto canonico ribadendo con forza che è stata la sua «mancata applicazione», da parte talora anche di vescovi, non le sue norme come una certa stampa laicista pretenderebbe, a causare la «vergogna». Certo, il papa fa cenno al fatto che il problema della pedofilia non tocca soltanto - e neppure principalmente - i sacerdoti, così che non è senza malizia che certi media concentrano il loro fuoco sulla Chiesa e sul pontefice. Ma il papa, come Carrón, si pone ultimamente su un piano diverso. Parla della vita spirituale dei sacerdoti, la cui trascuratezza è alle radici del problema e cui chiede di ritornare attraverso l’adorazione eucaristica, le missioni, la pratica frequente della confessione. E il ritorno a Cristo non è solo per i preti: è per tutti noi.
Com’è potuta accadere, infatti, una tragedia così immane? Quelli che gli inglesi e gli americani chiamano the Sixties («gli anni ’60») e noi, concentrandoci sull’anno emblematico, «il Sessantotto» appaiono sempre di più come gli anni o il tempo di un profondo sconvolgimento dei costumi, con effetti cruciali e duraturi sulla religione. C’è stato del resto un Sessantotto nella società e anche un Sessantotto nella Chiesa: proprio il 1968 è l’anno del dissenso pubblico contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI.
Con molto acume un pensatore cattolico brasiliano, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), parlò a suo tempo di una “IV Rivoluzione” - successiva alla Riforma, alla Rivoluzione francese e a quella sovietica - più radicale delle precedenti perché capace di sconvolgere non solo il corpo sociale, ma il corpo umano. Nella Chiesa Cattolica della portata di questa rivoluzione non ci fu subito sufficiente consapevolezza. Anzi, essa contagiò - spiega nella sua lettera Benedetto XVI - «anche sacerdoti e religiosi», determinò «fraintendimenti» nell’interpretazione del Concilio, causò «insufficiente formazione, umana, morale e spirituale nei seminari e nei noviziati». In questo clima certamente non tutti i sacerdoti insufficientemente formati o contagiati dal clima successivo agli anni ’60, e nemmeno una loro percentuale significativa, divennero pedofili. E tuttavia questo numero non è uguale - come tutti vorremmo - a zero, e giustifica le severissime parole del papa.
Lo studio della “IV Rivoluzione” degli anni ’60, e del 1968, è cruciale per capire quanto è successo dopo, pedofilia compresa. E per trovare rimedi reali, che la Chiesa ha cominciato a porre in essere. Se questa rivoluzione, a differenza delle precedenti, è morale e spirituale e tocca l’interiorità dell’uomo, solo dalla restaurazione della moralità, della vita spirituale e di una verità integrale sulla persona umana potranno ultimamente venire i rimedi. Ma per questo i sociologi, come sempre, non bastano: occorrono i padri e i maestri, gli educatori e i santi.

Massimo Introvigne lunedì 12 aprile 2010

sabato 10 aprile 2010

Io, missionario in Paraguay vorrei che il mondo abbracciasse il Papa


DA UNA PARROCCHIA DI ASUNCIÓN L’AUSPICIO DI UN « GESTO PUBBLICO »
Caro direttore, mai come in questi giorni in cui gli attacchi al Santo Padre si sono susseguiti a raffica, mi è riecheggiata nella mente una affermazione che don Giussani soleva farci durante gli incontri con noi sacerdoti, parlando del Santo Padre. Era una citazione del cardinal Montini, allora arcivescovo di Milano, alla vigilia dell’apertura del Concilio Vaticano II.
La memoria a volte mi tradisce, però ricordo molto bene la sostanza della dichiarazione citata: «Come sarebbe bello se il Concilio Vaticano II, prima di iniziare i lavori, vedesse tutti i vescovi riuniti pubblicamente rendere un filiale omaggio, una rinnovata fedeltà alla figura del Santo Padre». Erano tempi in cui all’orizzonte stavano apparendo i primi segni di tanta speranza e anche di tanta sofferenza. E il cardinal Montini, che più tardi avrebbe parlato del «fumo di Satana» penetrato nella Chiesa, presagiva già all’inizio del Concilio la necessità che tutta la Chiesa rinnovasse quella comunione effettiva e affettiva con colui che S. Caterina definisce il «dolce Cristo in terra, la garanzia della verità della nostra fede».
In questi tempi difficili, in cui il fumo di Satana è molto più evidente e intenso che al finale del pontificato di Paolo VI, mentre si dispiegano anche attacchi blasfemi contro l’umanità e la santità di Benedetto XVI, mi piacerebbe che tutta la Chiesa facesse un gesto concreto, pubblico, per manifestare l’affetto, la comunione affettiva ed effettiva che ci unisce al Santo Padre. È già stato bello vedere tante Chiese particolari, con i propri pastori e laici, solidarizzare con il Papa. Però è come se sentissi che ci vuole qualcosa di più ed è quel qualcosa che solo chi è figlio sa esprimere, sa donare al proprio padre. Si tratta di un atto di fede, perché l’adesione, la comunione con il Papa appartiene all’atto di fede. Perché Ubi Petrus ibi ecclesia et ubi ecclesia ibi Christus.
Trovare un gesto concreto, come quello evocato da Montini alla vigilia del Concilio Vaticano II, è in fondo rinnovare il nostro 'sì' a Cristo, significa guardare in faccia Cristo, perché è Cristo che è deriso, che viene sputacchiato quando si attacca il Santo Padre.
Io sono lontano, sono in Paraguay in compagnia dei miei ammalati terminali, dei miei barboni e dei miei bambini abbandonati, che nella sofferenza offrono la loro vita perché Gesù conforti il cuore del Papa, colui che per noi è consolazione e granitica certezza, colui che ci garantisce della verità della nostra fede. Che cosa sarebbe di noi, nella debolezza e vicini alla morte, se non potessimo guardare a lui offrendo per lui la nostra vita e il nostro dolore?
Per questo vorremmo che in tutto il mondo i cattolici, bruciati come Santa Caterina dall’amore per il Papa, facessero sentire ancora di più presenza e affetto.
Per questo motivo mi permetto di proporre – io, che non sono nessuno, se non un poveretto che ogni giorno offre la vita insieme ai suoi ammalati per il Santo Padre – gesti pubblici con la partecipazione del popolo cristiano, approfittando della conclusione dell’anno sacerdotale, voluto dal Papa per la santificazione dei suoi pastori. Gesti in cui soprattutto noi pastori, dopo quest’anno di grazia che ci è stato regalato, rinnoviamo il nostro totale amore a Cristo, la nostra consegna generosa e appassionata alla persona del Santo Padre.
Vogliamo dirgli il nostro affetto, vogliamo rinnovare con lui la nostra fede in Cristo Gesù, vogliamo che senta che noi sacerdoti gli vogliamo bene, che ciò che ci interessa è la santità, seguendo il suo costante richiamo a vivere la nostra vocazione integralmente, a gioire per il dono del celibato, sigillo della nostra totale appartenenza a Cristo nella sua Chiesa, perché il popolo affidatoci respiri la bellezza dell’Avvenimento cristiano.
Nella parrocchia in cui vivo ad Asunción ci siamo già mossi tutti ed è bello vedere la testimonianza di affetto che ogni giorno riceve pubblicamente la persona del Papa.
Un piccolo esempio di questo affetto è l’avere assunto l’impegno non indifferente dal punto di vista finanziario, di pubblicare ogni mese un libretto, ben curato, con tutti i discorsi del Papa. Libretto che poi viene regalato a quanti comprano il secondo quotidiano nazionale ogni ultimo giovedì del mese. Così in un povero Paese del Terzo Mondo, la figura e il magistero del Santo Padre sono diventati nella umile coscienza della gente una luce di certezza e speranza.
Preghiamo tutti perché accadano gesti d’amore, che partano dai figli nei confronti di chi ci è padre, maestro e guida.
Avvenire -PADRE ALDO TRENTO *Missionario in Paraguay

domenica 4 aprile 2010

"Quei peccati dei preti, ferita profonda bisogna tornare alla lezione di Cristo"


di JULIAN CARRON - presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Caro direttore, mai come davanti alla dolorosissima vicenda della pedofilia tutti abbiamo sentito tanto sgomento. Sgomento dovuto alla nostra incapacità di rispondere all'esigenza di giustizia che veniva fuori dal profondo del cuore.

La richiesta di responsabilità, il riconoscimento del male fatto, il rimprovero degli errori commessi nella conduzione della vicenda, tutto ci sembra totalmente insufficiente di fronte a questo mare di male. Niente sembra bastare. Si capiscono, così, le reazioni irritate che abbiamo potuto vedere in questi giorni.

Tutto questo è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l'insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.

Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro.

Se questa è la situazione, la questione più bruciante - che nessuno può evitare - è così semplice quanto inesorabile: "Quid animo satis?". Che cosa può saziare la nostra sete di giustizia? Qui arriviamo a toccare con mano tutta la nostra incapacità, genialmente espressa nel Brand di Ibsen: "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte m'inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?". O, detto con altre parole: può tutta la volontà dell'uomo riuscire a realizzare la giustizia a cui tanto aneliamo?

Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero "assassinio" dell'umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma.

Nella sua audacia disarmante è stato il Papa, paradossalmente, a non soccombere a questa riduzione della giustizia a una misura qualunque. Da una parte, ha riconosciuto senza tentennamenti la gravità del male commesso da preti e religiosi, li ha esortati ad assumersi le loro responsabilità, ha condannato il modo sbagliato con cui è stata gestita la vicenda per paura dello scandalo da parte di alcuni vescovi, esprimendo tutto lo sgomento che provava per i fatti accaduti e prendendo dei provvedimenti per evitare che si ripetano.

Ma, dall'altra parte, Benedetto XVI è ben consapevole che questo non è sufficiente per rispondere alle esigenze di giustizia per il danno inferto: "So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata". Così come il fatto di scontare le condanne, o il pentimento e la penitenza dei fautori degli abusi, non sarà mai sufficiente a riparare il danno arrecato alle vittime e a loro stessi.

È proprio il suo riconoscimento della vera natura del nostro bisogno, del nostro dramma, l'unico modo per salvare - per prendere sul serio e per considerare - tutta quanta l'esigenza di giustizia. "L'esigenza di giustizia è una domanda che si identifica con l'uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre, di una risposta che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, la giustizia è impossibile... Se venisse eliminata l'ipotesi di un "oltre", quella esigenza sarebbe innaturalmente soffocata" (don Giussani). E come il Papa l'ha salvata? Appellandosi all'unico che può salvarla. Qualcuno che rende presente l'aldilà nell'aldiqua: Cristo, il Mistero fatto carne. "Egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa".

Fare appello a Cristo, dunque, non è cercare un sotterfugio per scappare davanti all'esigenza della giustizia, ma è l'unico modo di realizzarla. Il Papa si appella a Cristo, evitando un scoglio veramente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare. La tentazione protestante sempre è in agguato. Sarebbe stato molto facile, ma a un prezzo troppo alto: perdere Cristo. Perché, ricorda il Papa, "è nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo". E per questo, consapevole della difficoltà di vittime e colpevoli a "perdonare o essere riconciliati con la Chiesa", osa pregare perché, avvicinandosi a Cristo e partecipando alla vita della Chiesa, possano "arrivare a riscoprire l'infinito amore di Cristo per ciascuno di voi", l'unico in grado di sanare le loro ferite e ricostruire la loro vita.
Questa è la sfida davanti alla quale siamo tutti, incapaci di trovare una risposta per i nostri peccati e per quelli degli altri: accettare di partecipare alla Pasqua che celebriamo in questi giorni, l'unico cammino per veder rifiorire la speranza.

“Incontrare il Risorto”. Un articolo redatto dal Patriarca in occasione della Pasqua.



Cosa impedisce che la Pasqua ai nostri occhi sprofondi nella lontananza siderale del mito? Il Risorto che non solo ci assicura che risorgeremo nel nostro “vero corpo” alla fine del mondo, ma ci dona di sperimentarlo fin da ora, qui.

Ogni giorno il “mestiere di vivere” negli affetti e nel lavoro ci sottopone a tante piccole morti: tensioni, incomprensioni, ostilità nei rapporti, pesantezza difficoltà ingiustizie nel lavoro… Eppure, dentro tutti i suoi piccoli e grandi anticipi (penso in questo caso ai terremoti di Haiti e del Cile, alla strage di innocenti nelle guerre e negli attentati, alle folle di affamati e di assetati, ai bambini violati… l’elenco sarebbe interminabile) la morte non domina più, perché il Signore della vita l’ha attraversata e definitivamente vinta.
Il Figlio di Dio si è incarnato, è entrato nella storia degli uomini – di tutti e di ciascuno -, Lui che poteva non morire è venuto a morire per ognuno di noi. È sceso nell’abisso del dolore e si è lasciato «trattare da peccato» per trascinarci nel vortice della sua resurrezione. Da quel momento la morte non ha più l’ultima parola su nessuna vicenda personale e sociale della vita dell’uomo.

«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Pasqua, cioè il passaggio di Gesù dalla morte alla vita, significa che la sua compagnia personale e indistruttibile traccia il binario della nostra esistenza. Un binario da cui alla fine, se noi lo vogliamo, non si deraglia, neanche se il percorso è impervio e accidentato – come quello di questo inizio di millennio – e presenta non poche incognite.

Nessuna di esse può trovare il cristiano impaurito o sulle difensive. Egli avanza fiducioso nella realtà e nulla sente, tendenzialmente, estraneo a sé, ma persegue tenacemente l’incontro con tutti i suoi fratelli, a qualunque razza cultura o religione appartengano. Non è ingenuo, al contrario è ben consapevole dell’inevitabile carico di fatica e dolore che questo comporta. Ce lo dice la stessa parola formata da in e contro, due preposizioni di segno opposto. Ma proprio dalla Pasqua, che nel Crocifisso risorto rivela il volto misericordioso di Dio, è reso indomabile nella ricerca di tutte le strade di una convivenza pacifica e instancabile nel costruirla.

A me pare che nella società plurale in cui la Provvidenza ci chiama a vivere ci sia un prezioso talento che oggi siamo chiamati a far fruttare: dobbiamo trasformare in un valore politico il bene pratico dell’essere insieme. Questo ci impegna ad aprire con coraggio vie insolite verso una nuova laicità, fatta di relazioni buone e di pratiche virtuose con cui, attraverso la narrazione reciproca, arrivare al riconoscimento comune.

La prova più impressionante del fatto della resurrezione del Signore oltre che nel racconto scarno che ne fanno gli evangelisti, sta in un dato imponente e altrimenti incomprensibile. Come si spiega, infatti, che un pugno di uomini semplici, letteralmente terrorizzati dopo la fine terribile del loro maestro, a un certo punto trovino il coraggio di uscire dal cenacolo e mettersi a predicare e annunciare pubblicamente il grande evento della Risurrezione? E come si spiega che tutti, nel giro di pochi anni, daranno la loro vita per Gesù? Qualcosa di sconvolgente deve essere accaduto: lo hanno rivisto, l’hanno incontrato di nuovo.

Il Risorto abita il nostro quotidiano. Buona Pasqua!

Angelo Card. Scola

sabato 3 aprile 2010

Alleluia!! alleluia !! Alleluia Cristo è risorto. Buona Pasqua


Venerdi alle tre Gesù gridò con voce forte: "Eloi, Eloi, lemà sabactàni?" Che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".Sono parole che lacerano non solo l'atmosfera, ma il cuore. Ma il dramma che esprimono è legato anche alla sua fiducia nel Padre.la preghiera di un innocente condannato a morte dove insieme all'angoscia viene proclamata anche la sua fiducia nel Padre che non l'avrebbe lasciato solo. L'inizio lascia trasparire tutto il dramma del dolore dell'uomo e della ingiustizia sulla terra, il dramma dei campi di sterminio, della Shoa, di guerre insensate, il dramma di tutti gli abbandonati....
Le forze del bene, anche se appaiono deboli, resisteranno alla violenza del male e lo sconfiggeranno.
Cristo è risorto e noi siamo chiamati a portare avanti nel mondo e dentro di noi la Sua risurrezione. Siamo chiamati a frantumare «le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.
Auguro una Santa Pasqua di letizia e pace dove l'Amore trionfa sempre sul male.