domenica 18 aprile 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 14 aprile 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 346-351.
• Canto “Quando uno ha il cuore buono”
• Canto “Give Me Jesus”
Incomincio leggendo una delle domande che avete mandato. «Nel capitolo “Perfetti come il padre vostro” e “La morale è imitare Dio nella carità” la mia reazione immediata è stata quella di provare su di me una sorta di impotenza e di stratosferica sproporzione fra me e quello che invece Giussani descrive come esperienza che nasce dal dono commosso di sé e offerta della propria vita. In
particolare, mi ha colpito la descrizione degli atteggiamenti nuovi del cambiamento di mentalità che nascono da questa diversità di vita dell’ultimo capitolo sulla carità. Mi sembra umanamente impossibile vivere in questo modo, eppure sono certo che per meno di questo la vita alla lunga diventa insostenibile; che cosa dà la forza per giocarsi e rilanciarsi nella realtà come descrive Giussani?». La forza per giocarsi la descrive lui stesso, perché anche lui parte – come abbiamo detto
la volta scorsa – da questa impressione di sproporzione totale; dice infatti a pagina 338: «È curioso il vangelo quando dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”. Perfetto come il Padre nostro: ma chi è capace? Come raccomandazione è sconsiderata, come raccomandazione produce l’inverso: la paura. Invece c’è il passo parallelo di san Luca che spiega cosa vuol dire: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre che sta nei cieli”. La perfezione è questa commozione in atto verso il bisogno dell’uomo». E poi descrive come si comunica a noi l’essere:
«La fonte è in Te dell’essere», come ogni fibra del nostro essere dipenda, abbia la sua sorgente in Lui e come questo si vede in modo solare quando si parla di un bambino rispetto alla mamma; dicevamo l’altra volta: l’uomo deriva da Dio infinitamente di più che un bambino nasca dalle viscere di sua madre, tanto è vero che se il bambino fosse autocosciente direbbe: «Tu sei tutto per me». Uno che fosse veramente consapevole si renderebbe conto che questa dipendenza è infinitamente più grande in chiunque di noi, ma questo si vede ancora di più quando il Mistero si
muove per questa carità piena di commozione e fa vibrare tutto il nostro essere. Perciò è vero che è impossibile, la questione è se noi capiamo che la carità può essere “solo” riflesso della gratuità della Sua grazia. Cita Péguy: «Come la loro libertà è il riflesso della mia libertà, / Così mi piace trovare in loro come una certa gratuità / Che sia come il riflesso della gratuità della mia grazia [la grazia è qualsiasi mossa con cui Dio crea, perché la mossa di Dio è creatrice]. Che sia come creata a immagine e somiglianza della gratuità della mia grazia». Per questo noi dobbiamo essere molto attenti, perché è qui dove noi introduciamo un altro metodo: è impossibile, se non è la comunicazione del Mistero che ci rende così Suoi da farci poi riflettere nel nostro essere quello che riceviamo da Lui. È questo che dobbiamo testimoniarci, perciò lo leggo all’inizio della Scuola di Comunità, speriamo che le esperienze che sentiremo questa sera aiutino a riconoscere questo,
perché è vero che per meno di questo, alla lunga, la vita diventa insostenibile; Giussani lo descrive in un modo solare quando dice che «se non si attua nell’amore, come amore, l’io è insoddisfatto, rabbioso con sé, ostile agli altri, incapace di bere e di assimilare la bellezza della realtà, annoiato»;
l’alternativa a questo è una vita rabbiosa. Per questo ci interessa capire bene il passaggio.


Sono sposato e ho due figli. Per circa quarant’anni per me tutto quello che era prima Chiesa, Mistero, fede eccetera non c’entrava con la vita, finché quattro anni fa, con la morte di un carissimo amico, è successo l’incontro ed è entrata in me la bellezza. Ho ereditato da questo mio amico il Banco di Solidarietà, i cosiddetti “pacchi”, così incominciò per me piano piano a cambiare tutto. Poi due anni fa, dopo aver partecipato all’assemblea dei Banchi, lì per la prima
volta mi sono sentito veramente pieno e, come diceva la canzone prima, con un cuore buono si può
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fare di tutto. Che dire? Vorrei raccontare, parlare di me, di quello che mi sta capitando da quando mi è stato data – come dire? – una nuova vita. Ti accorgi che ogni giorno che vivi lo vivi per qualcosa che è voluto, mi sorprende lo stupore con cui affronto tutto questo: cose nuove e belle e cose negative, che prima di questo sarebbe stato quasi impossibile accettare.
«Prima sarebbe stato quasi impossibile».
Fatto sta che io sono sempre quello di prima, con i miei difetti, le mie abitudini ed è proprio qui il punto, il fatto: sono quello di prima, ma con un cuore diverso, con un cuore pieno. Volevo raccontare alcuni episodi che ho vissuto. Il primo: alcuni mesi fa, degli amici che erano stati al Meeting mi hanno portato un regalo, un berretto con la scritta: “Dio c’è ma non sei tu, rilassati”.
Devo dire che mi è piaciuto molto e lo indosso anche al lavoro in cantiere. Un giorno, mentre stavo lì tranquillo, un collega non italiano mi disse: «Ma perché porti quel cappellino con quella scritta?»; al momento rimasi di stucco, ma poi risposi tranquillamente: «Vedi, porto questo cappellino perché ho incontrato qualcosa di straordinario e perché da non molto tempo mi sento davvero cristiano». Continuai a parlare di me e di come questo incontro ha cambiato me, il modo
con cui sto con gli amici, colleghi, di come sto con la famiglia. Il giorno dopo mi si avvicina un altro operaio che si trovava vicino a noi il giorno prima e aveva ascoltato tutto, mi chiese se per favore potevo raccontare anche a lui quello che avevo raccontato al suo amico riguardo alla famiglia e al modo con cui sto davanti alle persone, avendo incontrato questa realtà. Beh, mi sono venuti i brividi grandi come una casa, in quel momento mi sono stupito veramente, mi sembrava quasi incredibile di trovarmi a raccontare, a parlare della bellezza della carità di Cristo proprio a due stranieri e musulmani, che rimanevano stupiti dal modo con cui io raccontavo la mia esperienza, del fatto che io indossavo quel cappellino senza problemi. Cavolo, ma quanto grande è il Mistero? Ma quanto vera è quella Presenza che non fa distinzioni e ti mette di fronte alle persone per il fatto del commosso, per il fatto che ti commuovi di fronte a tutto questo. Qui mi viene da dire:
ho tutto, non mi manca niente, ho amici, compagnia, sono felice di vivere questa realtà. Ma l’umano non finisce mai di lavorare e ti mette sempre in discussione; mi capita alle volte mi trovarmi di fronte a situazioni un po’ dure per il fatto magari che mia moglie non condivide del tutto il mio pensare, il mio incontro. Ma come? Mi capita di parlare di carità e di bellezza con persone che nemmeno conosco e le persone che ho più vicino con cui vivo la mia vita non mi capiscono? Non nego che alle volte ci sto male e questo mi aiuta a capire che le circostanze che
viviamo non ce le creiamo noi, ci vengono date. Giorni fa un amico mi disse come mai non avevo partecipato all’assemblea della Fraternità regionale, risposi che quella domenica a mia moglie “cascava” il giorno di riposo e avevamo organizzato una piccola gita; l’amico mi guardò dicendomi che secondo lui non vedeva molto giusto aver saltato quell’assemblea, ma non per il fatto che prima c’è l’assemblea e poi la moglie, ma cercando di spiegarmi che bisognerebbe sacrificare qualche altro incontro per certe occasioni. Penso, pur rispettando il mio amico, che questo non sia molto giusto perché il Mistero ci dà e ci mette davanti quotidianamente quello che
dobbiamo vivere, perciò se ci capita un’occasione è perché Lui ce la dà. Insomma, quello che voglio dire è che Cristo c’è quotidianamente, ora, qui e non fra un mese, non quando diciamo noi.
Io ho incontrato questa meravigliosa realtà non per essere del movimento o fare il movimento, ma per vivere il movimento; non so se questo c’entri con la carità, ma di una cosa sono certo, che tutto questo ti riempie di vita, ti rende vero, ti fa sentire amato in qualsiasi circostanza.

Grazie. Una risposta più adeguata è difficile trovarla, perché è tutta lì davanti a noi.

Volevo raccontare alcune esperienze vissute in quest’ultimo mese che mi hanno aiutato a capire che cos’è la commozione. Due cose in particolare: la prima, solo se io in prima persona sperimento questa commozione posso cambiare lo sguardo verso l’altro, liberarmi da ogni pregiudizio e accorgermi che anche l’altro può commuoversi. La seconda cosa, pur cosciente della mia nullità, del mio niente, posso anch’io essere per l’altro qualcosa di importante e diventare una persona
eccezionale. Il mese scorso ho accompagnato una mia classe a un viaggio di istruzione a Napoli, proposto da me e dalla mia collega, spinte da una preoccupazione più educativa che didattica.
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Coscienti delle problematiche e del niente vissuto quotidianamente dai nostri ragazzi, volevamo poter offrire a questa classe, oltre che la visita ai musei e ai monumenti, qualcosa di più, cioè un incontro con una realtà fatta di persone eccezionali come gli amici del Rione Sanità, che avevamo conosciuto al Meeting di Rimini e che attraverso le loro canzoni e la loro mostra avevano mosso il nostro cuore, e quindi speravamo che ciò accadesse anche per loro. La premessa a questo viaggio: alcuni colleghi, sapendo della nostra appartenenza al movimento ci avevano accusato di voler utilizzare questa uscita per indottrinare i nostri ragazzi. Devo dire che io sono partita per Napoli piena di timori e di paure che potesse accadere qualcosa nel nostro comportamento che poi, al ritorno, sarebbe stato magari raccontato e che avrebbe potuto dare adito a incentivare questi pregiudizi negativi, quindi la mia unica preoccupazione era quella che tutto fosse perfettamente
organizzato, che non ci fosse nessuno sbilanciamento ideologico. Così partiamo e arriviamo alla sera, tutto a posto. Il secondo giorno, però, è accaduto un fatto imprevisto: siamo andati a visitare la chiesa del Gesù accompagnati da un’amica del Rione Sanità; eravamo nell’ala riservata a San Giuseppe Moscati, tutta tappezzata di ex-voto per grazia ricevuta e si avvicina a noi un anziano sacerdote che, interrompendo la spiegazione della nostra amica, si mette a raccontarci la sua
esperienza nelle favelas del Brasile e poi la vita di Giuseppe Moscati, e poi ci dice con cadenza dialettale che tanta gente ogni giorno gli chiede di dire non una Ave Maria, ma tante Ave Marie e quindi, vedendoci lì seduti, ci chiede di recitare insieme una preghiera e così abbiamo fatto. Ho guardato i volti stupiti dei miei alunni che recitavano l’Ave Maria e a me è sobbalzato il cuore e mi sono commossa, mi sono messa a piangere di fronte al modo così imprevedibile con cui il Signore
si stava manifestando; immediatamente ho pensato a un collega che ironicamente mi aveva detto che avremmo fatto recitare le preghiere: se davvero avessimo programmato il tutto, non sarebbe riuscito così bene. In quel momento ho capito che è un Altro che fa e non io che faccio. Quanto è accaduto mi ha immediatamente liberato da ogni timore e paura; anzi, mi ha dato una carica che mi ha permesso da quel momento in poi di guardare ogni mio alunno con uno sguardo diverso. Per esempio la sera stessa un ragazzo voleva assolutamente andare a vedere la partita di Champions
League, è venuto giù un acquazzone tremendo, eppure con l’ombrello, tutti bagnati, siamo andati a cercare un posto dove andare a vedere la partita. Il giorno dopo i nostri amici ci hanno portato a visitare il Rione Sanità e un amico architetto, prima di spiegarci alcuni monumenti presenti nella zona, ci ha raccontato brevemente il motivo per il quale, dopo aver incontrato quella che ora è sua moglie, ha deciso con lei di vivere proprio in quel quartiere rinunciando a una buona carriera; una
mia alunna è scoppiata in lacrime, un’altra addirittura ha detto: «Ma deve proprio tenerci a questo Dio, deve proprio volerGli bene per fare questa scelta»; la stessa sera abbiamo partecipato al concerto di Alfredo Minucci che con le sue canzoni piene di profonda poesia ci ha raccontato come attraverso l’incontro con alcuni amici la sua vita è cambiata, e quella stessa ragazza che aveva pianto nel pomeriggio, si è di nuovo commossa; la sua amica è stata immobile tutto il tempo a registrare le canzoni di Alfredo. Con noi c’era una persona che, vedendo questi ragazzi piangere,
mi dice: «Ma come sono fragili questi ragazzi che piangono così sentendo una canzone». Allora io ho riflettuto su questa frase e ho detto dentro di me: ma la fragilità è quando le cose non ti vanno per il verso giusto come tu le hai organizzate e quindi piangi perché è come se tu avessi perso la speranza, ma la commozione è un’altra cosa. Credo che la mia alunna si sia commossa perché ha
sentito qualcuno che le ha detto qualcosa di così vero che non può non farti vibrare il cuore, quel qualcosa che ti corrisponde così perfettamente e che tu non ti aspettavi per cui resti stupito e commosso, pieno di gioia. Tornati a casa, abbiamo fatto scrivere dei commenti su questa gita e questa ragazza scrive: «Mi ha colpito l’architetto e sua moglie, che hanno scelto di vivere insieme nella zona più malfamata di Napoli per aiutare la propria gente e poi le belle melodie di Alfredo
che hanno contribuito a rendere la giornata fantastica». Poi, naturalmente, tra i tanti commenti scritti i ragazzi hanno detto che hanno scoperto alcuni aspetti nuovi dei loro professori e quanto è buona la pizza di Napoli. Mi sono resa conto che anche attraverso di me e attraverso il mio niente io posso diventare per qualcuno una persona eccezionale, tanto che anche la pizza mangiata insieme diventa più buona.

Grazie. Lei ha cominciato a guardare in un altro modo, in un certo momento, per quello che stava accadendo ai suoi studenti, cioè la comunicazione dell’Essere che stava succedendo l’ha fatta partecipare a quello sguardo e questo si è comunicato anche ai ragazzi e si comunica soltanto attraverso il sì, l’accogliere in noi questa grazia.
Cerchiamo di essere concisi, perché altrimenti non ce la facciamo.



Anch’io ero giù a Napoli con questa classe, e, sull’onda di questa eccezionalità vissuta e commossa, ho pensato: «Vado al triduo di Gs dopo tanti anni che non vado»; mi sono ammalata e quindi sono rimasta, come dire, sprovvista del gesto eccezionale; non sono neanche riuscita ad andare alla Via Crucis della sera, quindi, apparentemente, non c’era l’occasione eccezionale che mi aspettavo, che mi avrebbe ricommosso, e questo mi ha molto colpito perché trovandomi sola con me stessa ho pensato: «Signore, mi rimane come cosa ancora estranea che Tu sia morto per me, è
una cosa che mi dispiace, non capisco che cosa c’entri con me». Allora sono andata a una semplice Via Crucis al pomeriggio alle tre, perché volevo essere immedesimata; a un certo punto, il prete ha detto: «Comunque Cristo ha vissuto l’abbandono del Padre a causa della distanza dei nostri peccati»; in quel momento sono rimasta commossissima, colpitissima perché ho detto: «Ma dunque, se Tu non fossi morto, io adesso non potrei avere questa pace, questa letizia, questo sguardo, questa tenerezza, questa commozione», e mi è venuta una gratitudine e ho come poggiato
i piedi, come dire: io per cosa mi affanno? Mi è venuto da guardare lo spettacolo di quello che Lui fa in me e anche attorno a me, perché comunque anche questo albore di comunità che sta nascendo a scuola è assolutamente opera Sua; e qual è il metodo? Che Lui, commuovendo me, mi fa muovere, e gli altri si accorgono che io mi muovo non per forza, non per organizzazione (tanto è vero che l’anno scorso non succedeva niente). Che il primo oggetto della carità è Cristo lo capisco in questo senso, per cui sono molto grata che tu stia insistendo così tanto sul capire questo passaggio.

Perché durante la Via Crucis tu hai percepito qualcosa?

Perché ero cosciente del mio bisogno, cioè perché io per la prima volta nella mia vita mi sono detta: «Mi dà fastidio che Tu sia estraneo su questo punto», e quindi non ho subìto quello che sentivo dire come una cosa estranea, ma ero tutta attenta a capire come il Signore mi avrebbe risposto.

Questa è una parte della vicenda, è soltanto attraverso il bisogno che Lui può entrare e poi è una grazia.

È l’Altro che è contemporaneo.

Questo è quello che volevo dire per rispondere a un’altra lettera, che dice: «“La nuova legge non è un comandamento più radicalizzato, più complicato da compiere, è la grazia dello Spirito Santo; la nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri, la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo”. Lo Spirito è la modalità con cui Cristo entra fino al midollo della nostra vita, facendoci diventare veramente Suoi. Dopo che tu hai parlato della misericordia di Dio che si è fatto carne per piangere con noi, mangiare con noi, sembra un passo indietro di concretezze, sembra di ritornare al Vecchio Testamento in cui Dio si manifesta in Spirito con i profeti, non carnalmente con la Sua faccia umana e divina allo stesso tempo; mi sembra che la carità legata alla presenza dello Spirito perda di quella dimensione carnale che è quella di cui ho bisogno.
Ti sarei grato se mi facessi capire meglio e mi scuso». Prima di tutto non si perde niente della dimensione carnale, anzi, si comunica attraverso qualcuno: quel che lei ha sentito per anni come estraneo finalmente è divenuto carnale, finalmente è suo. E questo si chiama Spirito Santo.


Infatti mi ha colpito moltissimo che a pagina 341 dice: «La sorgente di questa commozione, in Cristo come in me stesso, è lo Spirito di Cristo. È lo Spirito di Cristo la sorgente della compassione e della commozione». Tu prima della Pasqua ci hai detto: «Chiedete lo Spirito Santo», e dunque anche sulla spinta di questo tuo invito capivo che l’unico modo per averLo più carnale, per conoscerLo più carnalmente, era invocarLo.

Forse ci conviene capire che non siamo noi a farLo diventare nostro, ma che è qualcosa che dobbiamo implorare.

Sono dieci giorni che mi rigiro tra le mani l’articolo che hai scritto per Pasqua, che si intitola: «Feriti, torniamo a Cristo». Mi colpisce perché in tanti, di fronte alla provocazione scandalosa di questa vicenda, abbiamo sentito in qualche modo la tentazione di adeguarci allo scandalizzarsi di tutti (pur capendo naturalmente da subito quanto aveva in sé di strumentale tutto questo). La prima cosa che mi ha colpito nel leggerlo è che sei partito da questa parola “sgomento” e tutto l’inizio di questo tuo racconto entra dentro profondamente; “sgomento” e “giustizia” sono queste parole che continui a dire, fra l’altro riecheggiando esattamente il Papa.

A te perché ha colpito questo?

Aggiungo un altro aspetto che mi ha colpito perché poi provo a dirti che cosa ho cercato di capire io; tu non hai fatto un cenno nell’articolo all’attacco contro la Chiesa, mi ha colpito invece che tu sei partito da un’idea drammatica della vita. Io l’ho capita così: non è dramma se gridi giustizia, non è dramma se ti scandalizzi, non è dramma nemmeno se ti arrabbi per l’evidente attacco alla Chiesa che c’è qui dentro; è dramma se stai davanti all’enigma: «Chi darà risposta a questo
dolore, a questa domanda senza fine?», cioè all’impossibilità di rispondere da sé a questa domanda. A me pare che tu volessi dire: solo da lì può nascere la mendicanza di Cristo, che Lui colmi l’abisso davanti al quale siamo, l’abisso di male, di peccato, ma anche l’abisso di questo giudizio sproporzionato sulla Chiesa. Allora io voglio capire come sei arrivato a questa mossa, mentre dappertutto si fa tutto un altro discorso. Voglio dire: mentre il mondo, e anch’io istintivamente, sta fra lo scandalo e la difesa (perché i due poli sono questi ormai), mi ha colpito
che tu hai osato accomunare autori e vittime di fronte all’incommensurabilità di questa ferita che è data e ricevuta, ma è sempre questo tornare a Cristo, ché solo Lui colma l’abisso. Ecco, io voglio capire da dove nasce questo giudizio, perché io continuo a rileggerlo e mi dico: io sento che ha qualcosa a che vedere con la parola commozione, con il dono commosso di sé.

È una domanda che rivolgo a tutti: da dove nasce la mossa per guardare la realtà così?

Io dico che cosa ha provocato in me questo articolo, perché è stato un fatto che mi ha spalancato l’orizzonte e mi ha dato un grande respiro. Prima di vederlo io avevo assunto e dato dei giudizi più o meno simili a quelli che si leggono sui giornali.

E questo che cosa ci dice? Che, come spiegherò spero bene agli Esercizi, non abbiamo un volto diverso, siamo nei soliti schieramenti; è inutile che ci scandalizziamo, siamo come tutti, o un alibi o un altro, niente di nuovo sotto il sole. Questo ci introduce alla vera questione che dobbiamo porci, e dico questo per incominciare a prepararci agli Esercizi. Perché se, tanto, alla fine non siamo diversi…

Ero soprattutto dispiaciuta per il dolore che stava vivendo il Papa, accusavo questo violento attacco alla Chiesa e pensavo che in questi tempi cattivi la difesa della fede cominciava a esigere sempre di più il prezzo di un grande sacrificio. Però, nonostante questi sentimenti, senza osare dirmelo, non ero del tutto soddisfatta di come mi stavo ponendo davanti alla vicenda, avevo sentore che mancasse qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa, e soprattutto mi fermavo lì, mi accontentavo. Ho capito dopo quanto fosse di fatto estraneo a me stessa l’ascolto del cuore; fino a
quando tu hai messo l’accento sulla natura della nostra esigenza di giustizia che è infinita, allora ho capito il perché del mio disagio: in tutti i miei tentativi non mi ero mai accorta che la risposta poteva venire solo da fuori di me. L’accorgermi di aver lasciato fuori me stessa, e di conseguenza l’ipotesi della risposta, è stato un giudizio che ha ristabilito dignità a tutti. Perché non ho paura che succedano certi fatti o che vengano tempi cattivi, ma ho timore di scoprire che la fede non sia
in grado di stare di fronte a tutto, e questo timore inizia a fondarsi nel momento in cui dentro tutto io non faccio la verifica di essa. Così posso dire di aver veramente vissuto la Pasqua. Attraverso quello che ci avete detto tu e il Papa, io ho potuto avere davanti agli occhi un’umanità nuova e guardarla. È stato un fatto il tuo giudizio, hai visto dove noi non vedevamo, è stato l’irrompere di una novità che mi ha riempito di gioia e di stupore. Adesso quello che mi affascina è la possibilità
di imparare sempre di più il giudizio nuovo attraverso il metodo che tu ci indichi, ci ripeti e ci fai vedere. Così come è stato un esempio il lavoro delle elezioni: il gesto di aver dato il volantino al mercato o ai negozianti che frequento abitualmente ha introdotto un giudizio nuovo, una scoperta del reale; l’aver raccolto l’umano degli altri è stato l’accorgermi del mio, uguale e preciso al loro,
ma preso.

Cioè incominciamo a intravedere che questa nostra impossibilità di stare davanti al reale c’entra con la fede, che non è semplicemente che ci schieriamo come tutti, ma che c’entra con la fede e per questo mi interessa tornare su questo, perché ci fa verificare se c’è la possibilità o meno di qualche novità, di quello che oggi la Scuola di comunità chiama mentalità nuova, cioè se veramente è possibile o non è possibile. Perché se non è possibile, che cosa stiamo a fare qui? È una domanda radicale che arriva fino al midollo della questione. Incominciamo a prepararci agli Esercizi guardando questo, perché allora ci renderemo conto di qual è la sfida che la nostra fede rappresenta ai nostri occhi, e che cosa ci dà la fede per affrontare questa situazione.

Mi provoca molto quello che dicevi adesso perché partendo dall’altra volta io ero rimasto molto colpito dalla tua frase che hai ripreso quattro volte: «Viviamo sotto la pressione di una commozione», perché descriveva due aspetti; da una parte, tantissime persone a cui sono legato profondamente in tutto questo periodo continuano a cercarmi con una domanda sempre più vera, sempre più profonda a cui bisogna rispondere, e quindi con un’attesa grande. Un esempio di questo: sto diventando amico di un ragazzo che ha grossissimi problemi in questo momento, non
riesce ad alzarsi la mattina, ha una sfiducia totale sulle cose, non ha fatto un’esperienza di speranza su di sé e ieri sera pensavo di andare a dargli una mano, perché l’ho preso veramente a cuore; mi sono trovato di fronte un uomo che aveva un domanda così grande, così vera, addirittura più grande della mia, cui stare davanti che mi ha messo all’angolo tutto il tempo. Dall’altra, mi era venuto un desiderio insopprimibile di montagna, in questo periodo pressato dal lavoro, avevo proprio il desiderio di andare a fare l’ultima sciata. Allora, finita la Fraternità, con alcuni amici siamo andati. Siccome sono proprio amici che mi vogliono bene, tutto è stato bello: discrezione, argomenti tirati fuori, bellezza dell’ambiente, messa alla fine. Arrivo a casa, ero così contento che sono andato da mio papà che non sta bene e ho trovato la solita storia: la malattia, la sua depressione assoluta, la non voglia di sorridermi neanche un momento. Allora mi è venuto questo contraccolpo che già mi era successo nella settimana: ho proprio sentito il bisogno di raccattare Cristo da tutte le parti. Quando adesso tu dicevi della fede, a me colpiva: io non posso rinunciare al desiderio che mio papà affronti questa difficoltà con meno tristezza. Anche se credo in Gesù, non è che mi basta, con questa tristezza devo farci i conti, a un certo punto com’è che sono incapace di rispondere a questa tristezza? Eppure com’è che quella bellezza lì che ho portato giù mi portava là dentro? Cosa posso fare io? Il mio bisogno è che io devo raccattare Cristo ovunque per poter stare
di fronte a questa situazione e che quello che abbiamo davanti è molto più grande di quello che possiamo immaginare, c’è, da una parte, l’umanità con il suo desiderio infinito e, dall’altra, l’Unico che risponde.

Dove lo raccatta? Da dove tira fuori Cristo? Perché questa è la questione, altrimenti è come se la fede non avesse presa sulla realtà, e davanti alle cose siamo come tutti; è questa la questione, amici.

Parto raccontando un fatto. L’altro giorno sono tornata in ospedale dopo i riposi, mi aspettava nel corridoio una paziente e vedendomi mi è corsa incontro dicendo: «Finalmente sei tornata»; lì per lì questa cosa mi ha colpito (insomma, una che ti aspetta...) e mi ha anche gasato; fatto sta che dopo due giorni faccio la notte, succede che lei suona il campanello, va a rispondere la mia collega e lei
le dice: «No, mandami lei!». Allora io entro in stanza e lei (tra l’altro, mi aveva chiamato per una scusa banale, voleva aprire una bottiglietta d’acqua), a un certo punto, mi guarda e mi dice: «Ma esiste il Paradiso?»; da lì è accaduto un certo dialogo. A me ha impressionato questa cosa perché
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quella notte ho vissuto un sussulto con questa donna e questo sussulto ha cambiato il sentimento che io avevo di me, mi ha fatto riprendere coscienza.

Che cos’è questo sussulto?

Questo sussulto è l’esperienza della corrispondenza, cioè è Cristo.

Cioè? Che cos’è questo sussulto? Voglio capirlo bene: perché tu senti questo sussulto con certe persone così e non con altre?

Infatti la mia domanda nasceva un po’ su questo, perché se io penso a me, penso di essere una grandissima infedele e mi rendo conto che questa fedeltà è appesa a questo sussulto, dipende da questo sussulto, tant’è che, per esempio, le preferenze che ho non le ho scelte io, mi sono capitate, ma sono legate, hanno la natura di questo sussulto per cui, rileggendo questo capitolo, mi chiedevo: a fronte della mia infedeltà, quindi rispetto anche ai rapporti di preferenza, alla gente
che uno incontra, di mio cosa c’è? Di mio c’è solo l’attesa di questo sussulto? Anche perché mi rendo conto che quando per me non è vivo questo sussulto la cosa mi stufa e quindi la mollo, però io voglio capire…

Questo sussulto non è altro che la comunicazione dell’Essere, l’Essere che ti fa essere di più, l’Essere che ti fa più te stesso, come dice don Giussani, quella vibrazione ineffabile e totale davanti alle cose e alle persone; questa è la comunicazione dell’Essere, che non è un’astrazione, che non è un sentimento, che non è uno stato d’animo: semplicemente è un di più di intensità umana che si
comunica! Allora uno capisce il grande passaggio di pagina 348: «L’uomo esiste per affermare un Altro che si chiama Dio. Questa è la verità che commuove il cuore, commuove e fa agire [è il sussulto che diceva lei]. L’amore vero, cioè l’attuarsi vero della legge dell’uomo, che è lo scopo del vivere, è affermare l’Essere, è affermare l’Altro, è “affermare Te, Dio”. Analogamente, dedicarsi a un fratello, a un altro uomo, esistere per un altro, agire per un altro, commuoversi per un altro, è
amore vero in quanto desidera che l’altro conosca la verità e viva la verità del suo essere in modo compiuto». E una volta percepito questo sussulto – siccome il dialogo è un dialogo a due –, se un altro non vuole stare a questo livello, non mi interessa più, non riesce a prendermi, e allora non sonoin grado di tenere, tranne che l’Essere si comunichi costantemente a me e mi possa portare ad amare. Ma noi possiamo amare così perché l’Essere ci comunica questo di più, questa intensità. Noi
possiamo amare gli altri solo sotto il sussulto di questa commozione, sotto la pressione di questa commozione. Per questo è possibile, non perché sia nostro, ma perché questa commozione è riflesso di quello che il Mistero fa in noi, di quello che il Mistero ci comunica. Il vero atteggiamento è essere disponibili a ricevere questo dono attraverso la modalità con cui Lui ce lo dà, perché, come ci ha insegnato sempre il don Gius, la prima attività è una passività, è accogliere, è lasciarsi colpire, lasciarsi trascinare dall’Essere, accettare quel di più di essere; è questo che ci rende riflesso di Lui.

Ci prepariamo agli Esercizi chiedendo questo: che ciascuno di noi, in questo gesto che faremo fra dieci giorni, possa partecipare di più all’Essere, per noi e per il mondo. Il desiderio che abbiamo di vivere questo gesto è messo in luce, già da subito, dal nostro “io” in azione, da come il nostro “io” si muove anche rispetto al sacrificio che ci viene chiesto di essere attenti alle indicazioni; è un gesto
dalle dimensioni così enormi che non può esistere se non con il contributo del sacrificio di ciascuno, e questo sacrificio è la modalità della nostra domanda a Cristo, che abbia pietà del nostro niente, la modalità con cui noi imploriamo di non cadere nel nulla, che ci dia quella partecipazione all’Essere che rende la vita veramente degna di essere vissuta; per questo essere attenti al silenzio, alla
puntualità, agli avvisi, sono occasioni di questa preghiera, di questa domanda affinché le circostanze possano essere “amiche” del proprio cuore.

Come risposta a quello che sta accadendo nei confronti del Papa vi segnalo due gesti importanti. La CEI ha rivolto un invito a tutta la comunità ecclesiale a stringersi attorno a Papa Benedetto XVI nel quinto anniversario della sua elezione a pontefice il prossimo 19 aprile. Vi chiedo di aderire alle iniziative che le diocesi proporranno (Santa Messa, liturgia della parola, recita del Rosario,
adorazione eucaristica, veglie di preghiera, eccetera). Ciascuno deve informarsi nella propria
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diocesi; laddove non ci fosse nulla di organizzato, occorre farci noi promotori. Per la Diocesi di Milano il cardinale propone per lunedì 19 aprile una giornata di preghiera per il Papa, invitando a partecipare alla Santa Messa che le parrocchie dedicheranno a questo scopo: dunque ciascuno si informi nella propria parrocchia e vi partecipi anche invitando altri. È un gesto semplice, ma significativo in questo momento.
Il secondo gesto cui siamo invitati tutti a partecipare è questo: la Consulta nazionale delle aggregazioni laicali (un organismo che raduna le varie associazioni e movimenti ecclesiali in Italia) invita tutti a partecipare domenica 16 maggio, a Roma in piazza San Pietro, alla recita del Regina Coeli. È un gesto semplice di presenza con cui vogliamo dire e vogliamo testimoniare la nostra adesione, il nostro sostegno al Papa. Al più presto daremo le indicazioni sulle modalità operative di
partecipazione e di invito a questo gesto, cui dare la massima priorità di adesione.
A conclusione, diciamo una preghiera per il Papa Bendetto XVI, anche perché dopodomani è il suo
compleanno.
• Ave Maria

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