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C’ erano i bambini delle materne e delle elementari con i genitori. C’erano quelli che alle elementari ci andavano vent’anni fa, quando lui era arrivato a reggere le sorti dell’Istituto Sacro Cuore, e che a- desso ci mandano i loro figli. E poi tanti adulti passati da giovani in quella scuola, e altri venuti da molte città d’Italia e che l’avevano conosciuto in altre occasioni: al triduo pasquale promosso da Gioventù studentesca, al Meeting di Rimini, alle vacanze in montagna, agli incontri sull’educazione. C’erano decine di insegnanti che per molti anni l’hanno guardato come un maestro di vita e un testimone della fede. Sempre ' all’attacco', mai tranquillo. E c’erano gli amici di Comunione e liberazione, con i quali ha condiviso mille battaglie per fare fronte all’emergenza educativa, anche in tempi in cui pochi si erano accorti che questa è la sfida più vertiginosa dell’epoca nostra.
Cinquemila persone si sono radunate ieri pomeriggio al quartiere Feltre per i funerali di don Giorgio Pontiggia, rettore dell’Istituto Sacro Cuore dal 1984 al 2007. Mille hanno gremito la chiesa di Sant’Ignazio, gli altri hanno seguito la celebrazione davanti al maxischermo allestito nella piazza antistante. Alla celebrazione eucaristica, presieduta da monsignor Erminio De Scalzi, vicario episcopale per la città di Milano, hanno partecipato anche Carlo Faccendini, responsabile del settore per l’educazione scolastica della diocesi di Milano, Angelo Brizzolari, vicario episcopale della zona pastorale IV (Rho) e un centinaio di sacerdoti. Il messaggio inviato dal cardinale Dionigi Tettamanzi celebra un uomo «paternamente affettuoso verso i ragazzi che seguiva con zelo e dedizione per portarli a una formazione piena come uomini e come credenti». E nell’omelia don Julián Carrón ha ricordato che incontrando don Pontiggia «tutti noi abbiamo potuto toccare con mano che razza di novità Cristo può introdurre nella vita di un uomo quando si lascia prendere tutto. E allora diventa tutto una passione; quello che abbiamo visto in don Giorgio è questa passione che Cristo è in grado di destare nella vita di un uomo: una passione per Lui e per tutti gli uomini ». «La nostra voce canta con un perché… » : mentre le parole del canto di Adriana Mascagni –«Povera voce », uno dei motivi che ha segnato la storia di Cl – risuonavano nella chiesa, chi si guardava intorno poteva misurarne la verità. E intuire quanto la domanda di significato che abita nel cuore di ciascuno avesse trovato in questo sacerdote una risposta carica di fascino e che non lasciava indifferente chi lo incontrava. Lo ricorda anche il patriarca di Venezia, Angelo Scola, che fu suo compagno in seminario: «L’amicizia con lui è stata segnata dal suo appassionato desiderio di quella pienezza dell’umano che, per la grazia di Gesù, ci è donato e che sapeva destare in tutti».
DI GIORGIO PAOLUCCI
Funerale di don Giorgio Pontiggia
Milano, parrocchia di S. Ignazio di Loyola, 21 Ottobre 2009
Omelia di don Julián Carrón
Chi sei Tu, Cristo, che puoi appassionare così la vita di un uomo?
Chi sei Tu, che puoi attrarre tutto l’io, tutta la persona con tutta la sua capacità, immaginazione, intensità, per metterla al Tuo servizio, per poter comunicare agli uomini - non con parole, ma con la vibrazione e con quella intensità che solo Tu puoi introdurre nella vita - la Tua stessa vita?
Chi sei Tu, Cristo?
Noi, tutti noi - e voi giovani in modo particolare l’avete visto - abbiamo potuto toccare con mano che razza di novità Cristo può introdurre nella vita di un uomo quando si lascia prendere tutto, tutto. E allora diventa tutto una passione; quello che abbiamo visto in don Giorgio è questa passione che Cristo è in grado di destare nella vita di un uomo: una passione per Lui, Cristo, e per tutti gli uomini.
Grazie a questa sua semplicità, al suo lasciarsi prendere da questa attrattiva, tanti di voi avete potuto conoscere chi è Cristo, non con parole, non con un discorso, non formalisticamente, ma attraverso quell’avvenimento che Cristo, presente ora, fa accadere in un uomo che si lascia afferrare così. Tutta la sua persona era stata esaltata da questo riconoscimento di Cristo, che gli era stato comunicato - come lui stesso ci ha detto tante volte - attraverso quella modalità, quella intensità di vita che aveva incontrato in don Giussani. Questo lasciarsi prendere secondo questa modalità, diventando figlio di don Giussani, ha consentito a tanti di voi di conoscere veramente chi è Cristo, e ha esaltato il suo io umano, la sua vocazione di prete, la sua capacità educativa. Tutto è stato esaltato in lui; veramente abbiamo avuto la percezione di questo centuplo che diventa la vita, di questo di più che diventa la vita quando noi Lo lasciamo penetrare tutto in noi. Per questo la sua vita è diventata educazione: lui ha educato con tutta la sua vita, comunicando quella esperienza che aveva afferrato lui, come ci ricorda il cardinale Angelo Scola nel messaggio inviato per l’occasione:
«Fin dai primi tempi del Seminario l’amicizia con lui è stata segnata dal suo appassionato desiderio di quella pienezza dell’umano che, per la grazia di Cristo Gesù, ci è donato», e per questo «don Giorgio possedeva la straordinaria capacità di destare in tutti, soprattutto nei giovani, questo ardente desiderio. Nello stesso tempo non desisteva dall’essere di continuo pungolo alla libertà perché si assumesse fino in fondo la responsabilità personale e comunitaria del dono della fede».
Don Giorgio ci ha testimoniato questo fino all’ultimo respiro della vita, fino alla morte, perché la sua morte è l’ultimo suo gesto di amicizia verso di noi. In mezzo alla confusione che tante volte ci domina, la morte mette in chiaro tutto. Non si tratta di un’opinione in più, ma di un fatto, senza “ma” e senza “però”, perché ci mette tutti davanti all’Eterno e ci pone una domanda, che possiamo evitare solo tradendo la natura del nostro cuore: che cosa oltrepassa la barriera della morte? Soltanto quello che è vero.
Perciò la morte è un giudizio su ciò che veramente vale e su ciò che è inutile, e questo è l’ultimo gesto di amicizia che don Giorgio compie verso ciascuno di noi. È come se dicesse a tutti: «Guardate che quello che non oltrepassa questa barriera non vale, non serve». Perciò la sua morte è l’invito più potente che ci lascia, insieme alla sua vita, a vivere di fronte all’Eterno.
Ma noi possiamo guardare perfino questa “sciagura” - abbiamo appena ascoltato nella liturgia - della morte proprio per quello che a tanti di voi, giovani, lui ha comunicato, cioè l’unica cosa che serve per vivere e per morire: Cristo, l’unico risolutore, l’unico che è in grado di accompagnarci nel vivere e di accompagnarci nel morire. Per questo noi siamo in debito con don Giorgio, perché ha testimoniato a tutti noi questa passione. Tutto il resto non ci fa vivere e neppure serve per morire.
Mi è venuta subito in mente, pensando a lui e a questo momento, quella frase di San Gregorio Nazianzeno che abbiamo ascoltato in altre occasioni: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».
Questa morte sia per ciascuno di noi una grande occasione di conversione a Lui, a Colui di cui tutto consiste, per essere anche noi figli, cioè testimoni di chi è Cristo per quelli che ci incontrano, perché quella bellezza che don Giorgio ci ha comunicato possa arrivare ad altri, a coloro che ci incontrano nella strada della vita.
Domandiamo alla Madonna di essere eredi di questo grande testimone di Cristo in mezzo agli uomini.
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