martedì 6 ottobre 2015

La promessa che l'altro suscita in noi

 «Che Dio continui a benedire le nostre famiglie». Alla veglia di preghiera per il Sinodo sulla Famiglia, ha parlato anche la guida di CL. Ecco il testo del suo intervento
«La famiglia, infatti, per la Chiesa, non è prima di tutto un motivo di preoccupazione, ma la felice conferma della benedizione di Dio al capolavoro della creazione. Ogni giorno, in tutti gli angoli del pianeta, la Chiesa ha motivo di rallegrarsi con il Signore per il dono di quel popolo numeroso di famiglie che, anche nelle prove più dure, onorano le promesse e custodiscono la fede!» (27 settembre 2015). 

Queste parole di papa Francesco a Philadelphia ci offrono il motivo del nostro incontro questa sera: ringraziare Dio che continua a generare famiglie, come documenta la nostra presenza oggi, qui, per domandare che continui a benedire le nostre famiglie.

Da dove le viene questo ottimismo? Dalla certezza nella fedeltà del Signore alla sua Chiesa, la sua famiglia. In questo modo, suggerisce anche a noi la direzione dello sguardo da avere, dove porre la nostra speranza.

Come possiamo raggiungere sempre di più questa certezza? Vivendo fino in fondo il motivo per cui due si sposano. Come ci ha ricordato l’enciclica Deus caritas est: nell’«amore tra uomo e donna, […] all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, […] al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» (2).

È l’esperienza che testimonia Giacomo Leopardi nel suo inno ad Aspasia: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà». La bellezza della donna è percepita dal poeta come un «raggio divino», come la presenza della divinità. Attraverso la sua bellezza, è Dio stesso che bussa alla porta dell’uomo.

La bellezza della donna è in realtà «raggio divino», segno che rimanda oltre. Per questo, se non incontrano ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove si può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a liberarsi e il loro desiderio di infinito è destinato a rimanere insoddisfatto.

Cristo, la Bellezza fatta carne, pone «la sua persona al centro della affettività e della libertà dell’uomo», al «cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera» (don Giussani). Solo Lui può compiere la promessa che l’altro suscita in noi. Le nostre famiglie potranno raggiungere la loro pienezza, perdonarsi a vicenda, affrontare tutte le sfide, aprirsi agli altri, se Lo ospitano a casa.

Così potremo testimoniare a tutti la bellezza delle nostre famiglie. Il bene che rappresentano per tutti. Mostrando che Cristo rende possibile amare senza ritorno, perché «tutto per me Tu fosti e sei» (Ada Negri). 

CARRON " Con la Laudato si' , il Papa ci chiama a una conversione interiore"



Intervenendo a Napoli assieme a Mazzarella, Polito e Bersani, ad un dibattito sull’enciclica, il presidente di CL afferma: “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. Polito ha poi interrogato Carrón sul monito lanciato dal papa nella sua lettera: “Se “i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”, la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore. Tuttavia anche alcuni cristiani impegnati spesso si fanno beffe delle preoccupazi per l’ambiente”.
Per il presidente di CL tale rilievo spinge ad andare a fondo della pretesa cristiana come avvenimento che coinvolge ogni aspetto dell’esistenza: “Se il cristianesimo non è in grado di generare uomini che si mettano nel reale con una modalità nuova, data dalla fede, di rispondere a tutto, il cristianesimo perde il suo fascino”.
Bergoglio rilancia, in tal senso, l’esigenza di una conversione, che distrugga l’umana pretesa di farsi padrone e sfruttatore della natura. “Non abbiamo bisogno – osserva Carrón – di un rapporto di competizione con la realtà, ma, al contrario, di mutare il nostro sguardo su di essa, in modo da generare uomini nuovi. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”.
La “sobrietà” e la “cura” che il Papa indica come necessari a tale cambiamento nascono da un atteggiamento di “stupore” e “meraviglia” verso il creato, la cui importanza fu sottolineata da don Luigi Giussani: “Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una ‘presenza’. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente dalla parola ‘cosa’. Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola ‘essere’. Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza”.
Solo se si ridesta in questa maniera, ha concluso don Carrón, l’uomo non cerca di riempire il vuoto del proprio cuore con il possesso delle cose, ma avverte che “tutto è piccino per la capacità del suo animo. Trovare Uno che è in grado di riempire il cuore è la vera conversione”.

lunedì 5 ottobre 2015

«Fidiamoci di questo Papa, la famiglia è uomo-donna: il Sinodo non si dividerà»



«Fidatevi del Papa, fidiamoci del Papa. Il Sinodo dei Vescovi non è un tribunale istituito per giudicare le periferie dell’umanità contemporanea. È, invece, un’opportunità per riproporre al mondo la verità della fede cristiana attraverso la libertà. Dal Sinodo non mi attendo una guerriglia tra dottrina e pastorale, ma la ricerca di nuove modalità per riproporre l’annuncio di sempre della Chiesa davanti alle nuove sfide della società, a partire dall’accoglienza di chi soffre. Ci vuole accompagnamento da parte della Chiesa, senza discriminazioni. Non servono muri, ma ponti, la fede deve soccorrere l’uomo, ovunque sia bloccato per una difficoltà o una sofferenza, comunicando l’evento cristiano che libera».

Don Julián Carrón guida Comunione e Liberazione da dieci anni, successore di don Luigi Giussani. È un sacerdote spagnolo di 65 anni che, fino al 2020, sarà a capo di un «popolo di Dio» nato in Italia ma ormai diffuso in ben 90 Paesi del globo. È figlio di contadini e, per genetica, sa bene che si raccoglie se si semina. È l’uomo della svolta di Cl: stop al movimento braccio della politica, sì al recupero dell’esperienza cristiana. È notte fonda quando in un albergo di Napoli ha ancora forza e fiato per incontrare i giovani delle comunità di Cl della città.

Don Carrón, sappiamo come è uscita la Chiesa dal Sinodo dello scorso anno, anche divisa su temi fondamentali della vita e della famiglia. Secondo lei saranno superate le divisioni evocate perfino da cardinali di prima fila della Chiesa?
«Nulla sarà come prima dopo la predicazione americana di Papa Francesco, con l’affermazione sostanziale del concetto di famiglia come un dono. Il Papa dall’America, e significativamente dall’America, ha detto al mondo che la famiglia non è un motivo di preoccupazione, ma un dono per la società. Come possono le famiglie, con la loro testimonianza e la loro vita, destare nei giovani il desiderio di sposarsi?».


Il Papa recupera al dibattito nel mondo il concetto di famiglia...
«Lo recupera in positivo, non dialetticamente. Non ne fa oggetto di un lamento e non la tratta come una difficoltà da superare, ma insiste sulla bellezza della famiglia come possibilità di un bene per tutti».

La Chiesa continua a parlare di una famiglia come nell’ordine della Creazione, cioè come unione tra uomo e donna?
«Senza dubbio, non potrebbe fare altrimenti. Anzi, discutere della famiglia e della sua missione nella Chiesa e nel mondo parte dal riconoscimento di questo dato originale. Ma noi cristiani dobbiamo testimoniare di più il matrimonio come esperienza di amore tra due persone che si legano liberamente per camminare verso il loro destino, e non come vincolo che limita, schiaccia e alla fine delude. Spesso sento giovani che impauriti dicono: “Forse è meglio non sposarsi”, sono spaventati. Proprio per questo siamo chiamati ad annunciare Cristo come la risposta che vince la paura. Il cristianesimo è l’invito a partecipare a una esperienza dove si può verificare che quello che è impossibile agli occhi degli uomini è possibile a Dio».

Nella esperienza concreta?
«La Chiesa deve creare più luoghi per le famiglie che definire nuove regole. Non serve alimentare polemiche dottrinali su punti fermi della tradizione; la Chiesa deve accogliere le famiglie, ascoltare le persone che faticano a trovare un lavoro, a garantire un futuro ai figli. Chi ascolta oggi queste solitudini esistenziali? Ecco l’evento di un Cristianesimo che si fa incontro e ascolto».

sabato 3 ottobre 2015

Papa: il demonio seduce in tre mosse, lo scudo è l'umiltà

Gendarmi vaticani in parata - L'Osservatore Romano
È l’umiltà la virtù necessaria per difendersi, con l’aiuto di Dio, dalle tre “insidie” tipiche con le quali il demonio tenta l’uomo: il possesso dei beni che corrompe, la vanità e il potere che accendono la superbia. Papa Francesco ne ha parlato all’omelia della Messa celebrata questa mattina con la Gendarmeria Vaticana, in occasione della festa del Corpo.
“Tre scalini”. Il demonio distrugge l’uomo così: tre passi per sottrarlo a Dio e perderlo tra corruzione e onori da “pavone”, solleticando in chi si lascia sedurre l’idea di essere un numero uno, “quello che comanda”.
L'insidia, "metodo" del demonio
Papa Francesco parla al Corpo della Gendarmeria Vaticana, che vive ogni giorno il suo compito di vigilanza e difesa, e dunque una sua lotta contro le espressioni del male, offrendo una riflessione ispirata alla Prima lettura tratta dal Libro dell’Apocalisse – che parla della “guerra” che “scoppiò in cielo” tra Dio e Satana – e poi al brano del Vangelo sulle tentazioni nel deserto e sui tentativi del demonio di far cadere in trappola Gesù:
“Questo è uno dei metodi del diavolo, le insidie. E’ un seminatore di insidie, mai cade dalle sue mani un seme di vita, un seme di unità, sempre insidie, insidie: è il suo metodo, seminare insidie. Preghiamo il Signore che ci protegga da questo. Poi un altro metodo, un altro modo di fare la guerra lo abbiamo sentito nella prima Lettura, il Satana che seduce: è un seduttore, è uno che semina insidie e un seduttore, e seduce col fascino, col fascino demoniaco, ti porta a credere tutto”.
Ricchezza che corrompe
È questo, osserva Francesco, il “metodo della guerra” usato da Satana, basato su tre livelli di fascinazione analoghi alle tentazioni patite da Gesù:
“I tre scalini del metodo del serpente antico, del demonio. Primo, avere cose: in questo caso il pane, le ricchezze, le ricchezze che ti portano lentamente alla corruzione – e questa della corruzione non è una fiaba, c’è dappertutto. C’è dappertutto la corruzione: per due soldi tanta gente vende l’anima, vende la felicità, vende la vita, vende tutto”.
La vanità e la superbia del potere
Secondo gradino, la vanità. L’invito del demonio a gettarsi dal pinnacolo del tempio non è altro che un’esibizione, indurre Gesù a inscenare, dice il Papa, “il grande spettacolo” che dimostri facilmente la sua regale divinità. E poi, l’ultima mossa:
“Il terzo scalino: il potere, l’orgoglio, la superbia: io ti do tutto il potere del mondo, tu sarai quello che comanda. Questo accade anche a noi, sempre, nelle piccole cose, attaccati troppo alle ricchezze: ci piace quando ci lodano, come il pavone, no? E tanta gente fa il ridicolo, tante gente. La vanità ti fa fare il ridicolo. O, alla fine, quando hai potere, ti senti Dio e questo è il grande peccato”.
La scelta dell'umiltà
Contro le tentazioni, nota Francesco, Gesù “non risponde con parole proprie” ma con quelle della Scrittura per insegnare “che col diavolo non si può dialogare”. E quello di non pronunciare “parole sue” è, conclude il Papa, un atto di “umiltà” da parte di Cristo. Umiltà che Francesco invita i gendarmi a prendere a modello per il loro servizio che contribuisca a “far crescere la bontà nel mondo”:
“Voi che lavorate – avete un lavoro un po’ difficile dove sempre ci sono contrasti e dovete mettere le cose al loro posto ed evitare tante volte reati o delitti – pregate tanto perché il Signore, con l’intercessione di San Michele Arcangelo, vi difenda da ogni tentazione: da ogni tentazione di corruzione per il denaro, per le ricchezze, di vanità e di superbia. E quanto più umile, come Gesù, quanto più umile è il vostro servizio, più fecondo e più utile sarà per tutti noi”.

Papa: contro scandalo fame guardare in faccia i poveri, non sono numeri

Il Papa in un momento dell'udienza al Banco alimentare - REUTERS
Di fronte all’emergenza della fame, i poveri e i migranti “sono persone e non numeri”: vanno aiutati a riconquistare la loro dignità e a “rimettersi in piedi”. Così Papa Francesco alla Fondazione Banco alimentare, riunita per un incontro a 25 anni dalla nascita della rete che, solo nel 2015, in Italia ha aiutato oltre un milione e mezzo di poveri, distribuendo alimenti a più di 8 mila strutture caritative.
Fame, vero scandalo e peccato: poveri e migranti non sono numeri
La fame, “vero ‘scandalo’ che minaccia la vita e la dignità” di uomini, donne, bambini e anziani. Papa Francesco torna a denunciare una piaga che non esita a definire “ingiustizia” - anzi di più, dice - “peccato”, con la quale “ogni giorno dobbiamo confrontarci”. Lo fa con i partecipanti all’incontro promosso dalla Fondazione Banco alimentare, una “rete di carità” che da 25 anni è impegnata al fianco dei più poveri:
“Non dimenticate che sono persone e non numeri, ciascuno con il suo fardello di dolore che a volte sembra impossibile da portare. Tenendo sempre presente questo, saprete guardarli in faccia, guardarli negli occhi, stringere loro la mano, scorgere in essi la carne di Cristo e aiutarli anche a riconquistare la loro dignità e a rimettersi in piedi. Vi incoraggio ad essere per i poveri dei fratelli e degli amici; a far sentire loro che sono importanti agli occhi di Dio”.
Squilibri anche in società ricche, aggravati da aumento migranti
Il Papa incoraggia i circa 7 mila presenti in Aula Paolo VI e quelli che hanno seguito l’incontro da Piazza San Pietro “a proseguire” nell’impegno di “contrastare lo spreco di cibo, recuperarlo e distribuirlo alle famiglie in difficoltà e alle persone indigenti”.
“In un mondo ricco di risorse alimentari, grazie anche agli enormi progressi tecnologici, troppi sono coloro che non hanno il necessario per sopravvivere; e questo non solo nei Paesi poveri, ma sempre più anche nelle società ricche e sviluppate. La situazione è aggravata dall’aumento dei flussi migratori, che portano in Europa migliaia di profughi, fuggiti dai loro Paesi e bisognosi di tutto”.
Educarci all’umanità
Francesco ricorda due uomini “che non sono rimasti indifferenti al grido dei poveri”: l’imprenditore Danilo Fossati, che diede inizio e promosse “senza voler apparire”, “sempre in punta di piedi”, il Banco alimentare, sul finire del secolo scorso confidò a don Luigi Giussani - fondatore del movimento di Comunione e Liberazione - il disagio per la distruzione di prodotti ancora commestibili di fronte a tanti che in Italia “soffrivano la fame”. Quindi invita a guardare a Cristo che, di fronte alle folle affamate, non ignorò il problema né fece “un bel discorso sulla lotta alla povertà”, ma moltiplicò pani e pesci in abbondanza:
“Possiamo fare qualcosa, di fronte all’emergenza della fame, qualcosa di umile, e che ha anche la forza di un miracolo. Prima di tutto possiamo educarci all’umanità, a riconoscere l’umanità presente in ogni persona, bisognosa di tutto”.
Ingrossare ‘fiume’ della speranza
L’invito del Papa è a seguire l’esempio di Fossati e don Giussani, i quali compresero “che qualcosa doveva cambiare nella mentalità delle persone, che i muri dell’individualismo e dell’egoismo dovevano essere abbattuti”:
“Continuate con fiducia questa opera, attuando la cultura dell’incontro e della condivisione. Certo, il vostro contributo può sembrare una goccia nel mare del bisogno, ma in realtà è prezioso! Insieme a voi, altri si danno da fare, e questo ingrossa il fiume che alimenta la speranza di milioni di persone”.
Carità verso i poveri che incontriamo
Gesù, prosegue il Papa, ci invita a fare spazio nel nostro cuore all’“urgenza” di dare da mangiare agli affamati: la Chiesa ne ha fatto una delle “opere di misericordia corporale”:
“Condividere ciò che abbiamo con coloro che non hanno i mezzi per soddisfare un bisogno così primario, ci educa a quella carità che è un dono traboccante di passione per la vita dei poveri che il Signore ci fa incontrare”.
L’esortazione finale è a non farsi scoraggiare dalle difficoltà ma a gareggiare “nella carità operosa”, sostenuti da Maria: pregando la Madre della Carità, Francesco sollecita i presenti a pensare non a sé stessi ma a una o più persone conosciute “che sono affamate e che hanno bisogno del pane di ogni giorno”. 

Leggere Scola e scoprire la cosa più indecente di papa Francesco: la fede in Cristo

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È bello avere un vescovo così. Parlo del cardinale di Milano, Angelo Scola (lo ha intervistato, sulla prima pagina del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo). Perché c’è nel suo dire la luce di una ragione calma e profonda. Si vede che ha incontrato non una teoria su Gesù, ma Cristo stesso. Il quale dona a chi lo frequenta anche “un pensiero forte”, che non è affatto il contrario della tenerezza. La misericordia non è svenevolezza da “animulae blandulae”, è la solidità del padre che ti accarezza.
Non ho mai letto una apologia di Bergoglio-persona e del suo ministero petrino più profonda e meno lecchina di questa. Scopre la cosa più indecente e meno detta di Francesco, quasi fosse un ammennicolo civettuolo: la sua fede in Gesù Cristo. «È un grande uomo di fede», ha il «carisma del popolo» (e il carisma è cosa che viene dallo Spirito, vuol dire grazia). Insomma: la Provvidenza ha voluto questo Papa, non il potere mondano o un’interferenza, discorso chiuso, anzi magnificamente aperto. Si tratta di immedesimarsi con il suo insegnamento, di «uno che parla con autorità», come Gesù. Non ha paura di questo paragone “audace”, Scola.
Con intelligenza e senza alcuna teatralità, ma con la logica disarmante della sincerità, scopre gli altarini demoniaci dell’ideologia che pretende di ingabbiare papa Francesco come un canarino rosso. Non adopera mezze frasi: il cardinale, dalla cattedra dei santi Ambrogio e Carlo, e dei beati Ferrari, Schuster e Montini, a questo punto denuncia «l’uso che si fa di questo papato». Sia da parte di laudatores che di scomunicatores.
L’uso – e qui è tutta farina di Boris, Scola non c’entra – è di due tipi, opposti e in fondo uguali. Il primo è quello più evidente: ed è appunto il trasformare il magistero bergogliano in una decalcomania devota al progressismo dei nuovi diritti, per cui il sentimento amoroso è la sola sostanza della vita e delle cose. Il secondo uso è apparentemente il suo contrario, ma in realtà accetta questa deformazione, e ne cava il pretesto per dichiararlo anti-Papa e proclamare che il cattolicesimo non è più utile neppure come cemento di valori morali. Questa idea coinvolge anche teste nobili, ma tragicamente convinte di una sorta di primato intellettuale persino nei confronti dello Spirito Santo.
La posizione giusta non sta nel mezzo, cioè in un terzo schema, in una ideologia mediana. Ma nel primato della persona. Tu e Boris. Noi non siamo – afferma Scola – categorie, ma persone. Non siamo omosessuali con certi diritti da riconoscere più o meno, oppure appartenenti alla corporazione degli eterosessuali. O magari nella casta degli sposati felici, con certe pretese e certi doveri, oppure in quella dei divorziati risposati a cui si deve studiare se passare l’eucarestia come diritto. Ogni persona, ogni rapporto è un unicum.
Persino il dramma non è mai identico. Lo scriveva, a proposito delle famiglie infelici, già Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina. E Scola attacca il pelagianesimo di chi ritiene che l’indissolubilità del matrimonio cristiano sia legata alla buona volontà. Ma no. Essa è possibile, e c’è, perché costruita sacramentalmente da Cristo. E non si tratta allora di rendere facile lo sciogliere il vincolo con il consenso del vescovo. Ma di vedere se esso c’era in origine. Perché se c’era, c’è. E se non c’era, meglio non ingarbugliare le trafile.
E le unioni omosessuali? Scopro con Scola che trasformarle in una categoria sociale disperde persino il tesoro di un amore tra due persone dello stesso sesso, banalizzandolo, riducendolo a problematica sociale. E invece anche lì. Ogni storia è unica. E perché non proporre di vivere un cammino difficile di castità, un sacrificio d’amore. È così bella la strada dell’obbedienza alla sorgente. Con questo pensiero forte in testa, Boris si sente pieno di tenerezza, disposto ad andare in giro disarmato. La bella ragione.

martedì 29 settembre 2015

L’arcivescovo di Milano: «Il Papa non è populista, non bisogna strumentalizzarlo»

Angelo Scola (Fotogramma)

Cardinale Scola, domenica prossima si apre il Sinodo conclusivo sulla famiglia. Un anno fa lei disse al «Corriere»: niente comunione ai divorziati risposati; il Papa non potrà fare altrimenti. Conferma?
«Avevo espresso un auspicio, vedremo come andrà a finire. Se mi si vuol far dire che personalmente non ho trovato ragioni adeguate per accettare la proposta del cardinale Kasper, va bene, fate pure i vostri grafici distinguendo “chi sta con il Papa”, “chi non sta con il Papa”... Però la mia preoccupazione è di natura completamente diversa. Ho l’impressione che si stia “pensando” poco. A tutti i livelli». 

Si è passati dall’intellettuale Ratzinger al populista Bergoglio? 
«No, Ratzinger è un “umile servitore della vigna” e Francesco non è per nulla un populista. È un grande uomo di fede che, fin dal primo giorno, ha innovato in due direzioni. Ha capito che se non ci si coinvolge di persona non si risulta autorevoli; per questo papa Francesco dà grande importanza ai gesti. E la sua idea della povertà teologica è fondamentale». 

Povertà teologica? 
«Sì. Il Papa dice: se, seguendo il Vangelo, osserviamo la realtà partendo dalla periferia, dall’esperienza concreta dei poveri, lo vedremo secondo una visuale più completa che facendo il contrario, partendo dal centro e andando verso la periferia. Le due cose dimostrano che ha un fortissimo senso del popolo, un carisma straordinario di coinvolgimento con tutta quanta la realtà. Ed esprime una visione teologica e culturale efficace. Che abbia potuto imparare questa attitudine in un Paese come l’Argentina, dove il popolo ha avuto un peso storico rilevante, senza cadere in facili cortocircuiti — peronismo o non peronismo —, questo è pure un dato importante. Non a caso Bergoglio ha contribuito a far evolvere la teologia della liberazione in una teologia di popolo, liberandola dal rischio dell’ideologia. Se mi è permesso un paragone ardito, la gente diceva di Gesù: “è uno che parla con autorità”. Perché era coinvolto con quello che diceva. Il Papa è così: il populismo non c’entra niente. Semmai il problema è l’uso che si può fare di questo papato».

Che cosa intende? 
«Bisogna vigilare sulle strumentalizzazioni esterne, che potrebbero reintrodurre nella Chiesa una logica ideologica, in un momento in cui c’è più che mai bisogno di “mescolare le carte”, di superare le sterili dispute, di ascoltarsi reciprocamente. Se invece si ricade nella logica degli schieramenti contrapposti: “Ecco, avevamo ragione noi che dicevamo certe cose prima”, oppure “No, questo non si deve neppure dire”, è finita. Questa è la sfida che tocca alla Chiesa italiana». 

A cominciare dal Sinodo. Lei aveva proposto, anziché scontrarsi sulla comunione, di rendere più agevole la dichiarazione di nullità del matrimonio. Finirà così?«Resta una differenza qualitativa tra i due problemi. Un conto è snellire la verifica di nullità, cosa che il Santo Padre ha già fatto con il motu proprio, un conto è riammettere alla comunione sacramentale i divorziati risposati, perché la verifica della nullità non ha mai un esito scontato. Se si appura che il matrimonio c’era, c’è. Il rapporto tra Cristo e la Chiesa, entro il quale i due sposi esprimono davanti alla comunità cristiana il loro consenso, non è un modello esteriore da imitare. È il fondamento del matrimonio che nasce. Io, sposo, non potrei mai fondare il “per sempre”, l’indissolubilità, sulle sabbie mobili della mia volontà. E come posso fidarmi in maniera definitiva che mia moglie mi sarà fedele sempre? Cosa succede nel consenso reciproco espresso all’interno dell’atto eucaristico? Che io voglio il dovere del “per sempre” e decido non sulla base della mia fragile volontà, ma radicandomi nel rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa. È questo che, attraverso il sacramento, fonda il matrimonio». 

Sta dicendo che la comunione non è un accessorio, ma un fondamento stesso del matrimonio?«Esattamente». 

Ma legare la nullità del matrimonio alla mancanza di fede di uno degli sposi non è un ammorbidimento del vincolo? 
«È chiaro che la dimensione soggettiva della fede non è verificabile: io non mi posso permettere di giudicare quanta fede hai o non hai tu. Però la fede non è un fatto individualistico, è inserita organicamente nella comunione. Gesù ha detto: “Quando due o tre di voi si riuniranno in nome mio io sono in mezzo a loro”. L’Eucaristia è il vertice espressivo di questa natura comunionale della fede. Pertanto, rispettando fino in fondo la coscienza di ogni singolo, si può valutare se egli intende o meno fare ciò che la Chiesa fa quando unisce due in matrimonio. L’urgenza prioritaria, per me, è che il Sinodo possa suggerire al Santo Padre un intervento magisteriale che unifichi semplificandola la dottrina sul matrimonio. Un intervento teso a mostrare il rapporto tra l’esperienza di fede e la natura sacramentale del matrimonio». 

Don Carron dice che sulle unioni omosessuali serve il dialogo, non il muro. Lei cosa ne pensa?
«Ho già detto che nel riconoscimento pieno della dignità personale di quanti provano attrazione per lo stesso sesso anche noi cristiani siamo stati un po’ lenti. Ma la famiglia è qualcosa di unico, con una fisionomia molto specifica, legata al rapporto fedele e aperto alla vita tra un uomo e una donna. Non reputo conveniente una legislazione che, nei principi o anche solo nei fatti, possa produrre confusione a questo livello. Tra l’altro non sono molto convinto che lo Stato debba occuparsi direttamente di queste cose e sono anche un po’ seccato di fronte a questo Parlamento europeo, perché non ha il diritto di premere sui singoli Stati in favore di una normativa in campo etico. Ho piuttosto l’impressione che, essendo povero di poteri reali, si occupi di queste cose a sproposito, senza tener conto delle differenze tra gli Stati. L’Italia non è certo la Svezia o l’Olanda». 

I cattolici dovrebbero far sentire di più la loro voce?
«Sì, attraverso la testimonianza, anche pubblica, del bell’amore. Bisogna distinguere bene la questione delle unioni omosessuali dalla famiglia, essendo però estremamente attenti al percorso che le persone con questa attrazione compiono. Qualche giorno fa ho ricevuto esponenti di una associazione molto interessante, Courage, promossa nel 1980 dal cardinal Cooke, allora arcivescovo di New York. Persone che si impegnano a vivere la castità in questo tipo di attrazione...». 

Se ad esempio due omosessuali vivessero insieme in modo casto, la Chiesa non li condannerebbe? «Certo che no. In questo campo non esiste il bianco e il nero. Come nella situazione dei divorziati e risposati: ogni caso è personale. Tutto ciò che ha a che fare con la dimensione sessuale dell’io è personale e può essere trattato solo singolarmente. Non esiste la categoria degli omosessuali o la categoria dei divorziati e risposati. Ognuno di noi, che sia omosessuale o eterosessuale, da quando nasce a quando muore deve fare i conti con questa dimensione. È quello che taluni psicoanalisti chiamano “il processo di sessuazione”. Allora, tutti noi dobbiamo essere rispettosi fino in fondo del cammino sia degli omosessuali sia degli eterosessuali. A me non piacciono le semplificazioni esasperate, per cui tutto il Sinodo si riduce al problema dell’ammissione dei divorziati alla comunione sacramentale, per cui quando si parla di unioni omosessuali tutto si riduce al diritto di essere famiglie, e non si entra mai in un pensiero forte, non si toccano mai le questioni che ci sono dietro, le uniche in grado di promuovere la dignità di tutti e la loro equilibrata libertà». 

Per questo dice che si pensa poco? 
«Certo. Guardi anche all’immigrazione». 

Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: è d’accordo?
«A Milano abbiamo iniziato da tempo a muoverci in questa direzione. La Chiesa fa il buon Samaritano: accoglie, cura. Ma si sta affrontando in profondità il problema? Non è più solo un’emergenza, è un fenomeno strutturale, e nei prossimi 30-40 anni diventerà imponente. Non sarà qualche commissione di tecnocrati che a tavolino risolverà tutto. Potrà essere utile anche quella, ma c’è bisogno di una visione politica che sappia valorizzare i dati dell’esperienza. Preparando i “Dialoghi di vita buona” che faremo a Milano con varie voci della società civile — rettori delle università, imprenditori, filosofi — una domanda era ricorrente: “Siamo tutti davanti all’evidenza che un’epoca sta finendo. E adesso?”. Stiamo entrando in una fase in cui la discontinuità sarà un elemento ineludibile. Si incrociano fattori dirompenti gravemente sconnessi tra di loro, dalle bioingegnerie genetiche alle neuroscienze, alla civiltà delle reti, al meticciato, alla mutazione antropologica, a un modo di valutare i comportamenti individuali e i comportamenti sociali. E tuttavia non c’è mai il puro frammento. Questa inedita discontinuità va governata riconoscendo la rottura, ma nello stesso tempo cercando di cucire quel che può essere cucito. Altrimenti non riusciremo ad andare oltre lo smarrimento della domanda: “E adesso cosa succede?”»
Intervista di Aldo Cazzullo