venerdì 5 novembre 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 03 novembre 2010

Testo di riferimento: «Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione (La Thuile 2010), suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 8 (2010).
• Canto “Il viaggio”
• Canto “Lagrima”
• Gloria
Vorrei cominciare la Scuola di comunità di oggi con due lettere che sono arrivate. La prima dice così: «Sono rimasto molto colpito dall’ultima Scuola di comunità. Una cosa in particolare che hai detto mi ha ferito. Pensavo che la ferita passasse, che in fondo potessi trovare il modo dinasconderla o dimenticarla come altre volte, ma questa volta non ci riesco, perciò ti scrivo.
Rispondendo alla prima persona che è intervenuta hai detto che di fronte alle circostanze dolorose, alle prove della vita [stavo leggendo la lettera inviata] non bastano le esperienze vissute altre volte,neanche la certezza che senza la Resurrezione niente avrebbe senso [perché questo non dimostra la Resurrezione], non basta pregare perché si può pregare come se Cristo non fosse risorto [qui riassume quello che diceva la lettera: non era proprio così, ma sostanzialmente è così]. Hai detto che serve il giudizio e che il giudizio è il riconoscimento di un fatto. Fino a qui sono stato assolutamente d’accordo, io ho annuito a ogni parola che hai detto, ma poi ne hai detta una che ho sentito completamente estranea a me e al discorso. Hai detto: “Non basta tutto questo, ci vuole la fede”. La fede? Ho pensato: “Che cosa c’entra la fede?”. Sono rimasto di sasso. Non ho capito nulla. Io pensavo che la fede arrivasse alla fine del percorso, dopo aver dato tutti i giudizi sulle cose e
sull’esperienza, dopo aver usato la libertà. Allora, a conclusione del ragionamento, arriva la fede. In tutto quello che hai detto agli Esercizi della Fraternità e che ho letto più volte non avevo colto nulla;sono entrato anche io nel club: solo ora comincia a farsi strada in me l’ipotesi che la fede ha inizio nei fatti e che la sfida della libertà e della vita è già lì e che devo imparare quello che pensavo già di sapere. Devo dire che un po’ mi rode ammettere che hai sempre ragione su questo e che ho sempre avuto torto io, ma ora non ho più scuse. Ti chiedo proprio come un bambino di spiegarmi l’abicì.
Oltretutto penso di essere in buona compagnia, il club è abbastanza affollato».
Perché ritorno su questo? Perché mi stupisce la difficoltà che è emersa alle ultime Scuole di comunità, come se in fondo avessimo bisogno di una risposta ultimamente sentimentale, tant’è vero che il mio rispondere con un fatto tante persone non l’hanno sentito come risposta adeguata al bisogno che hanno. Io vi dico: se voi aveste la vostra persona più cara ammalata, che cosa vi servirebbe di più? Una mia consolazione o che io vi raccontassi che è stata scoperta la medicina che
la guarisce? Che cosa è risposta più corrispondente? Qual è la carità più grande? Qual è la risposta più adeguata al bisogno che abbiamo? Una bella consolazione? Una bella spiegazione della malattia? O l’annuncio del fatto che quella malattia è stata sconfitta e che c’è la possibilità di vivere in un altro modo? E questo, l’annuncio di questo fatto, è quello che ho provato a fare, davanti alle
domande che emergevano, non in modo astratto, ma parlando della Resurrezione di Cristo – che è “il” fatto – non come un evento del passato, ma aiutandovi a riconoscere quei fatti che documentano “ora” la Resurrezione: erano i cambiamenti emersi nelle testimonianze che avevamo ascoltato prima. Io non avevo bisogno di spiegarvi la cosa, ma soltanto di aiutarvi a guardare quello che stava succedendo lì, e che l’unica spiegazione di quei fatti è la Sua presenza. Se uno non riconosce
questo, deve produrre tutta la spiegazione, deve aggiungere parole a parole. Il mio tentativo metodologico la volta scorsa ha voluto essere questo: «Ma vi rendete conto di che cosa abbiamo sentito? Vi rendete conto che tutte queste cose che abbiamo sentito non ci sarebbero, se Cristo non fosse “qui e ora”?».
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Quest’ultima osservazione risponde a un’altra lettera
:
«Come l’aver visto non diventa un devoto ricordo e quindi ancora uno sforzo mio perché sia quello che è stato? Perché a me interessa questa contemporaneità, a me interessa sperimentare oggi che certi volti sono il segno della Sua presenza a cui ho dato la vita, che un certo luogo è il luogo della memoria non perché è scritto, bensì perché accade davanti ai miei occhi».
Per questo, quel che manca è la fede non staccata dai fatti, la fede come riconoscimento dell’origine di quei fatti di cui io sono testimone. Altrimenti neanche quello che accade davanti ai nostri occhi ci serve, perché lo riduciamo, riduciamo il segno della Sua presenza, in cui si documenta la Sua presenza. Ce l’ha detto sempre, con tutta semplicità, don Giussani: qual è il segno della Sua
presenza? «È, se opera». Il criterio è molto semplice: è, se opera. Se io Lo vedo all’opera, questa è la testimonianza più patente che c’è. E per questo la risposta al nostro bisogno è in questo riconoscimento, che non è il tentativo di immaginare o di sentire o di spiegare, ma il riconoscimento semplice della Sua presenza.
Ma per questo occorre la semplicità che documenta quest’altra lettera
:
«Due anni fa a Freiburg per motivi di studio ho conosciuto una ragazza tedesca di cui sono diventato molto amico. Lei è nata e vissuta a Berlino; si dice atea, una persona dai mille interessi che l’hanno portata in giro per il mondo a fare le esperienze più diverse. Una volta tornati io in Italia e lei a Berlino, tra mille fatiche e distrazioni l’amicizia è però continuata, si è intensificata tanto che questa estate l’ho invitata alla vacanza che facciamo con alcuni gruppi di Fraternità. Non solo lei ha miracolosamente accettato, ma una volta lì è rimasta subito conquistata e provocata da tutto quello che vedeva, tanto da sbaragliare tutti i miei timori sul fatto che essendo tedesca lei certe cose non le potesse capire. Poi è tornata a Berlino per un lavoro che l’ha resa pressoché irreperibile fino a poche settimane fa. Quando ci siamo risentiti mi ha detto che uno dei desideri che le erano nati questa estate era, per continuare quello che aveva visto, di leggere la Bibbia, e che per far questo si sarebbe recata in una chiesa protestante che conosceva. Io mi sono sinceramente demoralizzato, perché mi sembrava che lei stesse già cambiando il metodo inventandosi cosa fare invece di seguire con semplicità ciò che era accaduto. Però non ho voluto fermarla, pensando che piuttosto l’avrei aiutata a dare un giudizio su ciò che avrebbe visto. Venerdì ci siamo sentiti; la prima cosa che mi ha detto è: “Quello che ho visto alla chiesa protestante è stato molto importante, perché mi ha fatto capire meglio cosa ho visto
quest’estate e come può essere diverso quello che si intende con la parola fede”, e poi mi ha spiegato che in quella chiesa aveva visto che il pastore puntava tutto sui sentimenti, e commentava: “Una volta tornati a casa non resta niente se non seguire in modo passivo quello che il pastore ha detto di fare”. Invece, quello che aveva visto alla vacanza era tutt’altro, gli amici che cercano di aiutarsi ognuno nel proprio cammino di fede usando la ragione e senza che nessuno si sostituisca a
un altro. E concludeva: “Ho capito che quello che voi cercate di fare è un cammino umano allafede” [complimenti a questa ragazza]. Queste parole mi hanno fatto sobbalzare, perché te le ho sentite ripetere tante volte, ma sono sicuro che la mia amica non le ha mai sentite. Mi ha impressionato vedere come una persona nuova, con tante esperienze alle spalle e una disponibilità che la rende attenta a ciò che vede, abbia subito colto il tratto inconfondibile della nostra compagnia, cioè l’esaltazione dell’umano e l’uso radicale della ragione, e non abbia potuto trovare
altre parole per descriverla se non quelle dette, lo abbia riconosciuto come corrispondente e abbia potuto usarlo come pietra di paragone con ciò che ha vissuto in seguito, dimostrando che si tratta davvero di qualcosa di unico e non riproducibile a piacere. Per me è stata una grandissima provocazione che mi spinge a desiderare di approfondire la conoscenza di ciò che la mia amica ha riconosciuto con tanta facilità [è facile!]. In ciò domina la gratitudine per Chi mi ha donato
immeritatamente anche il rapporto con questa amica come occasione imprevedibile di memoria di Lui».
Non uno sforzo immaginativo, di nuovo: un testimone «occasione imprevedibile di memoria di Lui».

Mia mamma sta molto male e più vado avanti più questa situazione peggiora, lei soffre di depressione e ve lo dico perché è una cosa che va avanti da tanti anni, è una cosa di cui io soffro
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molto e tutta la mia famiglia soffre molto, la situazione è molto difficile. Ieri ci siamo sentite al telefono (non la sentivo da circa due mesi) ed è stata l’ennesima lite, l’ennesimo buttarmi addosso tutta una serie di cose molto difficili per me da gestire. Quando ho chiuso questa telefonata in un modo veramente brutto mi sono impressionata come mai nella mia vita, perché mi sono ritrovata addosso una letizia, una pace e una serenità a guardare lei, la sua malattia e il modo in cui io sto
iniziando a chiedermi che cosa questo vuol dire per me. La prima cosa che ho pensato è: io mercoledì devo andare a dire a Carrón e a tutti che Gesù è vero ed è un fatto. Ed è una cosa che io non ho mai detto nella mia vita in questo modo così semplice. E io dico che è Gesù perché non è una cosa che viene da me, io non sono capace di darmi questa serenità di sguardo. Tutto questo nasce solo dal lavoro di Scuola di comunità. Perché io ho incontrato il movimento in università, ma non è che abbia mai preso sul serio il lavoro personale, in cinque anni l’avrò fatto – non so – tre
volte.
Non è male come record!
Una bella media! Mi sono laureata a maggio, ho iniziato a lavorare e avevo questi venti minuti in cui andavo in metropolitana al lavoro e per moralismo dicevo: «Sono ciellina, allora uso questi venti minuti per far Scuola di comunità» (è bellissimo che poi il Signore usa tutto…). Ho iniziato a fare Scuola di comunità così e mi sto impressionando ogni giorno di più perché ogni giorno che passa io non riesco più a stare senza fare il lavoro perché mi fa accorgere delle cose che io ho già davanti, ma che non guarderei in questo modo.
Cioè, di che cosa ti sta facendo accorgere?
Mi sta facendo accorgere della presenza di Gesù, che è tutto dato.
Grazie.
Non dimenticate che io vi ho fatto due domande. Che cosa è cambiato in noi leggendo la lezione di La Thuile? Come concepiamo la comunione e la compagnia e che cosa vuol dire la memoria, che cosa ci ha fatto compagnia?

Queste due settimane lavorando su questa domanda mi sono accorta che sta iniziando a cambiare la concezione di compagnia, perché davanti ai testimoni mi rendo conto che tu poni una strada che è percorribile da me. Allora la compagnia e la comunione è il fatto che io nella giornata, in quel fatto che capita, andando al lavoro, incontrando il collega, io posso dire “Tu” e poi iniziare per me un cammino nuovo gridandolo al mondo.

Grazie.
Durante questi giorni ho vissuto un’esperienza che voglio verificare con te e porti una domanda. Mio papà si è ammalato apparentemente di influenza, nei giorni sono apparsi dei sintomi strani, preoccupanti, al punto che sabato ho prenotato un volo e sono andato di corsa a passare la domenica e il lunedì a dare una mano a mia sorella. E sono partito con tre desideri. Il primo era convincere mio padre a farsi ricoverare in ospedale (gliel’avevano già consigliato, ma non ci voleva andare). Il secondo era convincerlo a prendere almeno durante la malattia una badante in
aiuto per mia madre che è poco autosufficiente (anche questo glielo avevano proposto, ma lui si era opposto). E il terzo desiderio grande e nascosto era invitarlo a fare pace con Gesù, perché lui almeno nella forma di adesione alla Chiesa non Lo frequenta da un tempo immemorabile. A casa dei miei ne ho approfittato: «Sono venuto per dirti tre cose», e gliele ho dette tutte e tre. Alla prima richiesta mi ha detto di no (però ho capito subito che dovevo aspettare un po’, pazientare e avrei raggiunto l’obiettivo). Alla seconda ha accettato. La terza domanda è stata un po’ un parto, perché in sostanza era la prima volta che gli esprimevo questo desiderio segreto del mio cuore – non so se è un’eresia, ma penso che anche il Paradiso senza quel testone di mio padre non sarebbe abbastanza bello, né per me né per mia mamma né per le mie sorelle –. Lui mi ha chiesto di spiegare meglio, io ho detto: «Accetta che gli altri preghino per te, magari accetta di incontrare un sacerdote, per confessarti», e lui mi ha detto un ni. Ho aggiunto pure che era la cosa a cui tenevo di più, e mi sono fermato qua, poi sono andato in un angolo nascosto a piangere, contento intanto
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di averglielo detto e poi a pregare nostro Signore di abbracciarlo sempre più forte. Nel corso della giornata mi sono reso conto che stava veramente male, si doveva ricoverare subito, e allora sono andato dritto da lui a dirgli che si doveva ricoverare e basta. Ma nel fare questo ho capito una cosa: che i tre desideri che avevo non erano diversi, cioè che accettare di andare in ospedale, cioè
di stare alla realtà, era il primo modo per fare pace con Gesù. Il giudizio è che dire di sì a Gesù e alle circostanze è la stessa cosa; se mio papà avesse detto: «Sì, mi confesso», e poi non si fosse voluto curare... Volevo chiederti se questo giudizio è vero. E la domanda è: è umano dire: «Fai pace con Cristo perché vuoi bene a me», cioè io non sarò felice se tu non fai pace con Lui che poi è
la stessa cosa che gli ho detto: «Fatti curare perché vuoi bene a me e io non sarò felice se tu non ti lasci curare»?

Come tentativo è buono. La questione è che occorre passare per la libertà di tuo papà. La questione è: tu che cosa gli hai testimoniato, che mossa hai fatto tu per facilitare la questione? Questa è la questione. Grazie.
Per piacere, rispondi alle domande.

Quindici giorni fa hai letto della lettera di Marta e del dialogo con suo padre e a un certo punto hai detto che Marta diceva: «Amo tutto della vita, non butterei via niente». Quello che mi ha fatto compagnia in questi quindici giorni è stata Marta con questa sua affermazione, e tu che dicevi che il lavoro che richiedi a noi l’hai dovuto fare tu di fronte alla salma di tuo padre. Perché? Io mi sono chiesta da cosa Marta potesse pescare per dire una cosa così e quindi mi sono costretta a fare
un lavoro. E tu dicevi, leggevi, che lei la mattina diceva: «Io sono Tu che mi fai». Per me questo è sempre stato uno slogan lontano dalla mia vita, formale. Però la sfida per me in questi quindici giorni è stata capire l’origine: come uno può dire una cosa del genere sapendo che deve morire, come può uno dire una cosa del genere di fronte al padre morto? Quindi: io come posso dire questa frase a me stessa che è la sfida più grande, quando io della mia vita butterei via un sacco di episodi? E la scoperta di questi quindici giorni è stata che ho conosciuto chi è Cristo per me, cioè L’ho incontrato di nuovo nelle sfide che tu ci fai un sacco di volte, L’ho visto come la cosa più corrispondente. E la cosa più impressionante è che ho iniziato anche io ad amare la mia vita non come un formaggio con i buchi, ma tutta, tutta, perché è Cristo che me la dà, è Cristo che me l’ha data dall’origine e io so chi è Cristo per me.
Cosa hai fatto perché cambiasse questo?
Ho dovuto guardare quello che sono veramente, quello che compie il mio cuore adesso, ed è Lui, il Suo sguardo.

Nella lezione di La Thuile, riprendendo la questione dello sguardo – guardarci come ci guarda Dio o guardarci come ci guardiamo noi –, affrontiamo un punto decisivo. Perché, come ci guardiamo noi, di solito? Ripercorrendo il percorso che uno ha fatto, tutti gli sbagli che uno ha fatto, tutte le occasioni che ha perso, in cui la vita non è andata: questa è la modalità con cui, di solito, siamo guardati nella società; il nostro valore è in quello che alla fine riusciamo a fare, il nostro valore dipende dalla nostra riuscita, e siccome poi – come dice lei – tante volte non riusciamo, allora siamo sempre incastrati lì. Che cosa è entrato di nuovo nella vita? Che cosa è entrato per Zaccheo nella vita? Anche lui avrebbe potuto fare l’elenco di tutte le cose che aveva fatto male; ma che cosa è successo? Un ragionamento in più? Un cambiamento dello stato d’animo in più? Un pensiero in
più? Un’immaginazione in più? No, è successo un fatto, Qualcuno lo ha guardato e questo – abbiamo detto nel libretto – ha investito tutta la sua persona. Ho tentato di richiamarvi a immedesimarvi con quel momento in cui si è sentito guardato e si è sentito investito da una luce nuova, da una emozione nuova. Questo istante prima, che è un fatto, noi lo possiamo lasciare entrare o meno quando guardiamo la vita; perché uno può incominciare a fare l’elenco e i conti non tornano. Allora, in Zaccheo quello che è prevalso (come in Giovanni e Andrea) è l’essere stato
conquistato da uno sguardo che ha preso il sopravvento su tutte le analisi. E questa è la comunione: lasciare entrare questa novità, questa luce nuova, questo sguardo nuovo, questo giudizio nuovo in noi. E non c’entra niente che cosa ci è successo, anzi, quanto più sono successe delle cose, più ti
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stupisce che uno sguardo possa essere così potentemente vincente e che niente, assolutamente niente, nessun dolore, nessuno sbaglio possa vincere! Che cosa succede? Il problema, dice don Giussani, è che questo avvenimento, che ci ha cambiato la vita, poi noi lo dimentichiamo nel quotidiano. Dice che il difetto nostro è che manca l’esistenzialità della memoria, cioè che questo sguardo
rimanga nell’affrontare tutto. Se questo non rimane, prevale ancora l’altro sguardo, è una «debolezza grande di esistenzialità del sentimento di appartenenza». Invece se io dico adesso: «Io appartengo a te, Cristo», questa scelta di campo mi risparmia l’analisi. Mi risparmia l’analisi, capite? E questo è un giudizio sintetico che è dentro il fatto dello sguardo di Gesù a Zaccheo(perché era un giudizio tutto di stima quello di Gesù su Zaccheo); questo sguardo gli ha risparmiato tutta l’analisi di tutti gli sbagli che aveva fatto. Perciò questo giudizio è la liberazione! Questo
giudizio è uno sguardo, è un fatto che io non mi potrei mai immaginare (tanto è vero che spessissimo continuiamo a fare l’analisi invece di riconoscere questo). Senza che questo diventi familiare come sguardo, noi non lasciamo entrare la novità della fede. E senza la novità della fede – questa novità che è incominciata ad affacciarsi in una Presenza storica che ci ha guardato così – noi siamo come tutti, non perché Lo neghiamo, ma perché non è esistenzialmente presente nel nostro sguardo. Per questo, che cosa è la comunione? La comunione è questa novità che entra nella vita
proprio attraverso una presenza. Diciamo alla fine del libretto, a pagina 60: «È cedendo a Lui [come fu per Zaccheo] che si genera la nostra unità, la nostra comunione. Come fu dall’inizio, quando, cedendo a Lui, ciascuno di quei dodici che Gesù chiamò generò la prima comunione cristiana. Non ci sarà un’altra origine – mai! – di una comunione cristiana!». Questa è una scelta di campo – dice
Giussani –, è un problema della libertà; inizialmente non lo possiamo generare noi, perché è un fatto, un incontro imprevisto, imprevedibile; ma che uno ritorni a questo sguardo, che uno lo riconosca di nuovo quando lo ritrova e che uno lo accolga di nuovo quando gli viene detto, questa è una decisione della libertà.
Bentornato, hai accolto questa decisione, questo sguardo, o no?
Il punto è questo qua. Sono molto arrabbiato per un motivo solo, perché la fede per me è morta con la morte di mia mamma, con le ceneri di mia madre. E non c’è fatto più grande, per me non c’è fatto più grande. E questa questione qua dello sguardo che mi dici tu non mi interessa, va bene?
È una scelta. Tu puoi farlo, questa è la tua grandezza. Anche Zaccheo, quando Gesù gli ha detto: «Zaccheo scendi dalla pianta che vengo a casa tua», avrebbe potuto dire: «Io me ne frego di quello che mi dici».Perché tu vuoi invitarmi a casa tua? Tu sei Gesù?
No, non sono Gesù, non sono così stupido da pensare di essere Gesù. Io ti dico che questo sguardo è arrivato a noi attraverso la povera gente che siamo, e che questo sguardo è la possibilità per ciascuno di noi, così come per te, di poter guardare tutto non da solo come un cane.
Quindi, praticamente, questo sguardo è un fatto?
È un fatto, sì. È un fatto. Come ti sto guardando io adesso: è un fatto. Come per Zaccheo: è un fatto. E si rende presente ora, tanto è vero che tu lo puoi ricusare, lo puoi rifiutare ancora un’altra volta.
Te lo sto ridicendo io ora, e tu davanti a questo fatto, che sta succedendo davanti ai tuoi occhi – ora! –, puoi continuare a dire: «Non lo accetto». È nel tuo diritto di farlo; tu continui a negare questo
fatto, ma sta succedendo davanti a te ora, come la prima volta
.
E qual è la liberazione? Mi liberi da che cosa?
Tu puoi continuare…
Resusciti mia mamma? No!
Puoi continuare a dire tutte queste cose, ma tu, ti avevo chiesto un mese fa, puoi assicurare che quello che tu dici è tutto? Che non c’è la possibilità che possa succedere un’altra cosa?
E cosa deve succedere d’altro? È già una catastrofe! Cosa deve succedere?
Questa è la questione. Tu puoi dire che conosci già tutto? Questa è la tua presunzione, che tu pensi di conoscere tutto, e non lasci aperta la possibilità che ogni persona intelligente deve lasciare aperta.
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Perché la categoria della possibilità è la cosa più ragionevole. Ma per questo occorre essere minimamente disponibili. E perciò, se tu non sei minimamente disponibile…

Quindi domani mattina quando vado in ospedale per la mia malattia devo tenere aperta la possibilità? Devo fare questo?
Sì.
Devo dire: «C’è questa possibilità di grandezza più grande»?

Sì. Anche guardare la propria malattia è possibile. Tante persone vivono la stessa tua situazione addirittura con gratitudine. Chiaro? C’è la tua libertà, amico, la tua libertà! Adesso ti hanno visto tutti, adesso ti trovi con la tua libertà a dover decidere. Basta. Perché nessuno di noi può risparmiare all’altro la libertà. Attraverso il metodo assolutamente fragile che sono le nostre presenze, a
ciascuno di noi viene rivolto questo annuncio, come duemila anni fa. Lo avevamo detto allaGiornata d’inizio anno: non ci sarà nessun fatto, anche il più eclatante, che possa cambiarmi se non sono disponibile, neanche se vedessi un morto resuscitare. Il nostro amico ci rende palese la possibilità che è in agguato in ciascuno di noi; lui ha il coraggio di dirlo, a volte testardamente, ma è
una possibilità per ciascuno! Questa scelta di campo tocca a ciascuno; in particolare, quando arrivano i momenti cruciali della vita, con tutta la drammaticità del vivere, ognuno deve fare questa scelta. Ma non in modo irragionevole! Questo è il cammino della fede: quando uno fa un cammino
umano può arrivare ad affermare che il “sì” a Cristo è la scelta più ragionevole che ci sia per darsi ragione dei fatti davanti ai quali noi siamo stati, per grazia, testimoni.
A partire dalla prossima Scuola di comunità, senza “chiudere” il libretto di La Thuile, cominciamo il capitolo su «Il sacrificio» del libro di don Giussani Si può vivere così?.
Ogni anno sosteniamo due gesti di carità che sono di grande portata:
 la Giornata nazionale della “Colletta Alimentare”, che si terrà sabato 27 novembre, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare;
 la Campagna Tende di Avsi, che quest’anno avrà come titolo «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo» a sostegno di progetti, soprattutto educativi, di aiuto in America Latina (Haiti e Cile), Africa (Kenya, Sud Sudan e Uganda) e Libano.
Sono due occasioni stupende per testimoniare quello che abbiamo di più caro, condividendo il bisogno di tanta gente. Sono molte le persone che incontriamo che rispondono spontaneamente a questo gesto e che si coinvolgono con noi per un impeto di generosità e di gratuità.
Stando insieme durante la Giornata della Colletta o durante le iniziative della Campagna Tende possiamo testimoniare l’origine, la ragione profonda di questi gesti che ci educano alla carità molto più di mille discorsi. Senza la consapevolezza dell’origine, con quello che abbiamo visto nella Scuola di comunità sulla carità, questi gesti perdono tutta la loro portata, cioè comunicare lo
sguardo che serve per vivere. Non si tratta di appiccicare una etichetta al gesto, di appiccicare Gesù: nel modo con cui noi viviamo questi gesti possiamo testimoniare l’origine e aiutare gli altri a cogliere l’origine di quello che facciamo. Noi non vogliamo fare qualcosa che non lasci traccia, ma che possa servire alla persona che lo fa per un di più, perché sappiamo che la persona ha bisogno di qualcosa di più di un atto di generosità (che pure è prezioso). Attraverso la Colletta e le Tende
possiamo introdurre a qualcosa d’altro: che il bisogno è più grande e che noi siamo lì per la gratitudine di aver trovato la risposta a questo bisogno. Noi saremo lì per questo, non per riempire il vuoto con un gesto generoso, ma per gratitudine per quello che abbiamo incontrato.
Lasciar perdere questi due momenti educativi per le nostre comunità sarebbe davvero un peccato.
• Veni Sancte Spiritus

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