martedì 4 giugno 2013

LA DOMENICA, COSTANTINO E NOI .QUESTIONE DI COMUNITÀ


Nel 321 Costantino introduce la festività della domenica, come giorno che so­spende le attività di lavoro, e avvia una nuova scansione del tempo che proseguirà in Occi­dente con altre ricorrenze religiose, e civili. La domenica resta sino ai giorni nostri la festa per eccellenza, che accompagna la vita indi­viduale, familiare e comunitaria, segna lo spa­zio dedicato allo spirito, al riposo e alla pre­ghiera, al dialogo in famiglia, ad attività che u­manizzano l’uomo, lo rendono capace di de­dicarsi al lavoro. Altre festività assumeranno nel tempo significati specifici. Per celebrazio­ni religiose essenziali, la memoria dei defun­ti, la ricorrenza di grandi eventi, nazionali, lo­cali, ma sempre con un significato derivato dalla domenica: dare rilievo a ciò che riempie e completa la vita personale e collettiva, col­tivare reminiscenze e valori che chiedono u­na pausa, una riflessione, una sosta interiore. Attorno alla domenica si costruì persino la co­siddetta 'tregua di Dio' che sospendeva osti­lità, azioni armate, per favorire iniziative di pace, ridurre le tragedie della guerra. Con la domenica nasce e si consolida un evento co­munitario, perché mai limitato a una persona o a gruppi ristretti, ma che chiede e suscita in­contri, partecipazione, attorno a eventi e sen­timenti collettivi. Chiunque di noi sa che se u­na festa riguarda poche persone, o piccoli ter­ritori, perde il suo significato. Potremmo fe­steggiare, ma se restiamo soli e gli altri lavo­rano, la festa si perde, evapora, prevale il lavoro degli estranei.
  Nella domenica sta il punto di congiunzione tra il riconoscimento di uno spazio spirituale e l’umanizzazione del tempo. Lo spirito chie­de spazio, ma dona spazio al riposo, alla per­sona, al silenzio delle sue riflessioni, alla gioia dei bambini e dei giovani. La festa illumina u­na identità che sappiamo di avere, ma che dobbiamo riscoprire e ravvivare, e d’altronde sappiamo bene che se tutte le giornate fosse­ro eguali, con poche feste personali o di grup­po, vivremmo come in un incubo, perché ru­beremmo il tempo alla famiglia, agli amici, al­lo sport, all’arte, alla convivialità più vera, al­la gratuità della vita. E tutti sanno che la do­menica non è di ostacolo alle attività produt­tive; al contrario, ci rende più capaci di ap­prezzare il significato del lavoro, perché lavo­ro e riposo dello spirito si illuminano a vicen­da. Infatti, una delle prime conquiste agli al­bori della società industriale è stata quella del riconoscimento del riposo festivo, per evitare lo sfruttamento delle persone, l’umiliazione della loro dignità.
  Delle ragioni della festa ciascuno di noi fa e­sperienza quotidiana. E per queste ragioni si deve reagire con forza ai tentativi di introdur­re meccanismi che limitano, mortificano, lo spazio della domenica, perché sono dotati di un brutto automatismo, pronti a dilatarsi, a insidiare il valore della gratuità e a far cresce­re quello della utilità economica immediata (e, magari, solo presunta). In Europa alcuni gruppi formularono tempo addietro la pro­posta di abolire del tutto la domenica, ridu­cendola a festa mobile locale, in modo da au­mentare dovunque la produttività. Una pro­posta frutto di mentalità anti-umanistica, ve­nata nel profondo di anti-religiosità, miope anche dal punto economico perché ripropor­rebbe su scala continentale un po’ di quello sfruttamento umano di cui ci siamo liberati a fatica, e segnerebbe un formidabile regresso storico.
  Oggi, anche proposte più limitate, che cerca­no di svuotare la domenica di significato con l’apertura degli esercizi commerciali, il prose­guimento indiscriminato di attività di lavoro, hanno il vizio di intaccare un bene prezioso che è di tutti, non può essere spezzettato, par­cellizzato, ridotto a segmenti territoriali o pro­duttivi. La domenica ha senso vero se ne fruia­mo tutti insieme (con eccezioni, sempre esi­stite, della necessità), se è evento comunitario, se possiamo viverla con pienezza di serenità e di gioia, senza dover cercare nella nostra città, nel nostro paese, un angolino dove è fe­sta mentre tutto attorno la festa non esiste.
  Riflettiamo sul valore strategico della dome­nica nel corso di questo anno costantiniano che celebra l’epoca in cui il mondo antico si aprì alla rivoluzione cristiana. Un passo in­dietro su questo punto vorrebbe dire cancel­lare un momento importante della nostra i­dentità, privarci di un bene che è patrimonio
 spirituale comune
 CARLO CARDIA  - Avvenire

Il Papa: l’ipocrisia è la lingua dei corrotti, il cristiano parla con amore e con verità

Un cristiano non usa un “linguaggio socialmente educato”, incline all’ipocrisia, ma si fa portavoce della verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini. È l’insegnamento che Papa Francesco ha offerto nell’omelia della Messa celebrata questa mattina a Casa Santa Marta. Con il Pontefice hanno concelebrato il patriarca dei cattolici armeni, Nerses Bedros XIX Tarmouni, mons. Fernando Vianney, vescovo di Kandy nello Sri Lanka, e mons. Jean Luis Brugues della Biblioteca Apostolica Vaticana, accompagnato da un gruppo di collaboratori della struttura. Presenti anche la presidente e il direttore generale della Rai, Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi, con i loro familiari.
Dai corrotti alla loro lingua preferita: l’ipocrisia. La scena evangelica del tributo a Cesare, e della subdola richiesta dei farisei e degli erodiani a Cristo sulla legittimità di quel tributo, fornisce a Papa Francesco una riflessione in stretta continuità con l’omelia di ieri. L’intenzione con cui si avvicinano Gesù, afferma, è quella di farlo “cadere nella trappola”. La loro domanda se sia lecito o no pagare le tasse a Cesare viene posta – rileva il Papa – “con parole morbide, con parole belle, con parole troppo zuccherate”. “Cercano – soggiunge – di mostrarsi amici”. Ma è tutto falso. Perché, spiega Papa Francesco, “questi non amano la verità” ma soltanto se stessi, “e così cercano di ingannare, di coinvolgere l’altro nella loro menzogna, nella loro bugia. Loro hanno il cuore bugiardo, non possono dire la verità”:

“E’ proprio il linguaggio della corruzione, l’ipocrisia. E quando Gesù parla ai suoi discepoli, dice: ‘Ma il vostro parlare sia ‘Sì, sì! No, no!’. L’ipocrisia non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola. Mai! Va sempre con l’amore! Non c’è verità senza amore. L’amore è la prima verità. Se non c’è amore, non c’è verità. Questi vogliono una verità schiava dei propri interessi. C’è un amore, possiamo dire: ma è l’amore di se stessi, l’amore a se stessi. Quell’idolatria narcisista che li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia”.
Quello che sembra un “linguaggio persuasivo”, insiste Papa Francesco, porta invece “all’errore, alla menzogna”. E, sul filo dell’ironia, osserva che quelli che oggi avvicinano Gesù e “sembrano tanto amabili nel linguaggio, sono gli stessi che andranno giovedì, la sera, a prenderlo nell’Orto degli Ulivi, e venerdì lo porteranno da Pilato”. Invece, Gesù chiede esattamente il contrario a chi lo segue, una lingua “sì, sì, no, no”, una “parola di verità e con amore”:

“E la mitezza che Gesù vuole da noi non ha niente, non ha niente di questa adulazione, con questo modo zuccherato di andare avanti. Niente! La mitezza è semplice; è come quella di un bambino. E un bambino non è ipocrita, perché non è corrotto. Quando Gesù ci dice: ‘Il vostro parlare sia ‘Sì, sì! No, no!’ con anima di bambini, dice il contrario del parlare di questi”.
L’ultima considerazione riguarda quella “certa debolezza interiore”, stimolata dalla “vanità”, per cui, constata Papa Francesco, “ci piace che dicano cose buone di noi”. Questo i “corrotti lo sanno” e "con questo linguaggio cercano di indebolirci”:

“Pensiamo bene oggi: qual è la nostra lingua? Parliamo in verità, con amore, o parliamo un po’ con quel linguaggio sociale di essere educati, anche di dire cose belle, ma che non sentiamo? Che il nostro parlare sia evangelico, fratelli! Poi, questi ipocriti che cominciano con la lusinga, l’adulazione e tutto questo, finiscono, cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Chiediamo oggi al Signore che il nostro parlare sia il parlare dei semplici, parlare da bambino, parlare da figli di Dio, parlare in verità dall’amore”.
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lunedì 3 giugno 2013

Il Papa: i corrotti fanno tanto male alla Chiesa, i santi sono luce per tutti

Peccatori, corrotti e santi. Papa Francesco ha incentrato su questo trinomio la sua omelia per la Messa di stamani nella Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che i corrotti fanno tanto male alla Chiesa perché sono adoratori di se stessi; i santi invece fanno tanto bene, sono luce nella Chiesa. Alla Messa – concelebrata con il cardinale Angelo Amato – ha preso parte un gruppo di sacerdoti e collaboratori della Congregazione delle Cause dei Santi e un gruppo di Gentiluomini di Sua Santità.

Cosa succede quando vogliamo diventare noi i padroni della vigna? Papa Francesco ha sviluppato la sua omelia partendo dal Vangelo odierno sulla parabola dei vignaioli malvagi per soffermarsi sui “tre modelli di cristiani nella Chiesa: i peccatori, i corrotti e i santi”. Il Papa ha osservato che dei peccatori “non è necessario parlare troppo, perché tutti noi lo siamo”. Ci conosciamo “da dentro – ha proseguito – e sappiamo cosa è un peccatore. E se qualcuno di noi non si sente così, vada a farsi una visita dal medico spirituale”, perché “qualcosa non va”. La parabola, però, ci parla di un’altra figura, di quelli che vogliono “impadronirsi della vigna e hanno perso il rapporto con il Padrone della vigna”. Un Padrone che “ci ha chiamato con amore, ci custodisce, ma poi ci dà la libertà”. Queste persone “si son sentite forti, si sono sentite autonome da Dio”:

“Questi, pian pianino, sono scivolati su quella autonomia, l’autonomia nel rapporto con Dio: ‘Noi non abbiamo bisogno di quel Padrone, che non venga a disturbarci!’. E noi andiamo avanti con questo. Questi sono i corrotti! Quelli che erano peccatori come tutti noi, ma hanno fatto un passo avanti, come se fossero proprio consolidati nel peccato: non hanno bisogno di Dio! Ma questo sembra, perché nel loro codice genetico c’è questo rapporto con Dio. E come questo non possono negarlo, fanno un dio speciale: loro stessi sono dio. Sono i corrotti”.
Questo, ha aggiunto, “è un pericolo anche per noi”. Nelle “comunità cristiane”, ha detto ancora, i corrotti pensano solo al proprio gruppo: “Buono, buono. E’ di noi” - pensano - ma, in realtà, "sono loro per se stessi”:

“Giuda ha incominciato: da peccatore avaro è finito nella corruzione. E’ una strada pericolosa la strada dell’autonomia: i corrotti sono grandi smemorati, hanno dimenticato questo amore, con il quale il Signore ha fatto la vigna, ha fatto loro! Hanno tagliato il rapporto con questo amore! E loro diventano adoratori di se stessi. Quanto male fanno i corrotti nelle comunità cristiane! Che il Signore ci liberi dallo scivolare su questa strada della corruzione”.
Il Papa ha così parlato dei santi, ricordando che oggi è il cinquantesimo della morte di Papa Giovanni XXIII, “modello di santità”. Nel Vangelo di oggi, ha soggiunto, i santi sono quelli che “vanno a prendere l’affitto” della vigna. “Loro sanno cosa li aspetta, ma devono farlo e fanno il loro dovere”:

“I santi, quelli che obbediscono al Signore, quelli che adorano il Signore, quelli che non hanno perso la memoria dell’amore, con il quale il Signore ha fatto la vigna. I santi nella Chiesa. E così come i corrotti fanno tanto male alla Chiesa, i santi fanno tanto bene. Dei corrotti, l’apostolo Giovanni dice che sono l’anticristo, che sono in mezzo a noi, ma non sono di noi. Dei santi la Parola di Dio ci parla come di luce, ‘quelli che saranno davanti al trono di Dio, in adorazione’. Chiediamo oggi al Signore la grazia di sentirci peccatori, ma davvero peccatori, non peccatori così diffusi (generici ndr), ma peccatori per questo, questo e questo, concreti, con la concretezza del peccato. La grazia di non diventare corrotti: peccatori sì, corrotti no! E la grazia di andare sulla strada della santità. Così sia”.
 http://it.radiovaticana.va

«In cammino verso la Casa di Maria per chiedere che le nostre pene siano trasformate in gioia» Macerata-Loreto 2013.

macerata loreto popolo
Monsignor Giancarlo Vecerrica, vescovo della diocesi di Fabriano-Matelica, racconta l’esperienza del pellegrinaggio di notte Macerata-Loreto (guarda la fotogallery), giunto alla sua trentacinquesima edizione e che anche quest’anno, a partire dalla sera dell’8 giugno, guiderà in prima persona, portando novantamila pellegrini in preghiera alla Santa Casa di Nazareth, la reliquia dell’edificio che accolse prima la nascita di Maria e poi l’annuncio dell’Angelo e che ora è situata nella Basilica di Loreto.

Monsignor Vecerrica, qual è il tema della Macerata-Loreto di quest’anno?

Il tema del pellegrinaggio è riassunto nel titolo scelto, che è una domanda che Benedetto XVI ha rivolto a tutti in occasione di un’udienza generale nell’ambito dell’Anno della Fede: «Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?»
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Perché questo titolo?

Abbiamo pensato che questa potesse essere la domanda più attuale, in un momento di profondo disagio sociale ed economico come quello che stiamo attraversando. Una domanda capace tanto di abbracciare le pur giuste preoccupazioni della gente, legate anche alla mancanza di lavoro, quanto di portarle oltre e più a fondo, allargando l’orizzonte degli interrogativi che sorgono nel cuore dell’uomo, e risvegliando l’attesa.
E cosa volete comunicare?
Ci siamo accorti che, in questo momento di crisi, la gente ricerca in un modo straordinario come non succedeva da tempo. Io personalmente lo vedo da vescovo: la gente si rivolge sempre più spesso alla Chiesa. E lo fa perché trova in essa una chiarezza di proposta che apre una ricerca a 360 gradi, ma, al tempo stesso, offre la possibilità di un aiuto concreto e materiale.
La Chiesa, insomma, insegna a considerare la totalità dei fattori della vita. È a questo che vogliamo educare, testimoniando che la nostra vicenda umana solo nel cristianesimo, nella fede in Gesù fatto uomo e che cammina con noi, trova una possibilità di risposta definitiva.

Scusi, ma cosa c’entra tutto questo con il pellegrinaggio?

Vede, è sempre stata tradizione nelle Marche che, al termine di ogni impresa umana, ci si recasse in pellegrinaggio alla Casa della Madonna a Loreto, in segno di domanda, devozione e ringraziamento. Compiere il pellegrinaggio, pertanto, è un gesto che raccoglie tutta la vita sociale, sportiva, politica, economica, delle associazioni e dei movimenti, tutte le vicende personali e del mondo, anche quelle più drammatiche, portandole verso un unico punto, la Casa della Madonna, cui riconsegnarle e a cui domandare aiuto.

loreto casa maria




Lei perché vi partecipa?

Io, quando trentacinque anni fa ho iniziato il pellegrinaggio come semplice sacerdote e professore di religione al liceo classico di Macerata sotto il grande incoraggiamento del mio amico don Luigi Giussani, desideravo proprio invitare i miei alunni ad un gesto che li aiutasse a capire che la vita non si vive a “compartimenti stagni”, secondo uno schema dove da un lato c’è la scuola e dall’altro le vacanze e il tempo libero. Così ho pensato che il cammino verso la Madonna di Loreto potesse educarli a questo sguardo sulle cose. Oggi lo faccio per la stessa ragione. Per loro e per me.

Lo percorrerà tutto, fino in fondo?

Di più, si può dire che io faccio un pellegrinaggio doppio, anzi triplo! Percorrendo tutto il percorso avanti e indietro come è mio stile. Eppure riesco ancora a reggere fino alla fine; la Madonna mi sostiene come fosse la prima volta e così capisco che ad essere coinvolto in prima persona sono io e non altri. Partecipando all’offerta di questa mia piccola diocesi, di cui le intenzioni bruciate alla Casa sono segno. Pensi che solo qualche giorno fa una giovane mamma mi ha chiamato per dirmi che avrebbe percorso il cammino e chiedendomi di continuare a guidare e sostenere i pellegrini con le mie battute.

È la prima edizione del pellegrinaggio che si svolge sotto Papa Francesco. L’avete invitato?

Certo che l’abbiamo invitato, ma non ha ancora risposto. Nel colloquio, però, che abbiamo avuto il 3 maggio, quando mi sono recato in visita da lui insieme agli altri vescovi delle Marche, il Papa ha detto che è giusto ascoltare il disagio della gente, ma che è altrettanto importante e urgente dare risposte che ultimamente soddisfino l’uomo. È proprio questo il motivo per cui si fa un pellegrinaggio alla Madonna, come la Macerata-Loreto. L’ha ricordato recentemente anche Julian Carròn citando don Giussani: «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”». Il cammino può aiutare a scoprirlo.

Se, dunque, non ci sarà il Papa, però, il prefetto per la Congregazione dei Vescovi, Marc Ouellet, celebrerà la messa. È un segnale?

Si può dire che Ouellet sarà il rappresentante del Papa nel cammino. Sul sito del pellegrinaggio c’è una sua bellissima intervista dove dice che la visibilità del cammino è un segno di fede viva e speranza, oltre che dell’unità dei cristiani, a partire da tutti quelli che verranno alla Macerata-Loreto.
macerata loreto vecerrica

Novantamila presenze sono tante, riusciranno tutti a seguire il gesto?


Sì e quest’anno c’è anche una novità. Visto che l’arrivo a Loreto dura più di un’ora e non c’è possibilità di fermarsi tutti insieme, ma solo di passare e salutare la Madonna, con il rischio che gli ultimi vengano un po’ trascurati, abbiamo deciso che saranno proprio gli ultimi arrivati a portare la statua della Vergine dentro la Casa.

Cosa augura ai pellegrini?

Ho riletto tante belle testimonianze in questi giorni, ma una mi ha colpito più di tutte. Don Giussani ogni anno mandava un telegramma in occasione del pellegrinaggio e quello che ha inviato in occasione del trentennale della comunità di Cl (Comunione e Liberazione, ndr) a Macerata si concludeva così: «La vicina Santa Casa di Loreto dove tutto ebbe inizio ospiti la vostra gioia come la mia. Raccogliamo tutte le pene del mondo e vogliamo che la Madonna ci aiuti a trasformarle in gioia». È l’augurio che ripeterò quest’anno.
(Le foto sono tratte dall’Archivio del Pellegrinaggio Macerata-Loreto)

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domenica 2 giugno 2013

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 29 maggio 2013

Dalla copertina del libro ''All'origine della pretesa cristiana''

Testi di riferimento: J. Carrón, «Introduzione», in «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», suppl.
Tracce-Litterae communionis, n. 5, maggio 2013, pp. 4-12; J. Carrón, «Ubi fides, ibi libertas»,
Tracce-Litterae communionis, n. 4, aprile 2013; J. Carrón, «Anche in politica l’altro è un bene», la
Repubblica, 10 aprile 2013, p. 29.
• L’iniziativa
• Romaria
Gloria
Riprendiamo di nuovo la Scuola di comunità con il lavoro che ci siamo dati: l’Introduzione agli
Esercizi della Fraternità, il testo «Ubi fides, ibi libertas» nel Tracce di aprile, e la lettera che ho
scritto a la Repubblica il 10 aprile scorso. Sono tutti strumenti che hanno come scopo approfondire
quel che ci siamo detti a Rimini.
Del venerdì sera agli Esercizi c’è una cosa che mi ha colpito immediatamente, ed
è stata la prima affermazione che hai fatto: non basta il nostro fare per ridestare
la nostra umanità. Questa questione mi ha provocato molto perché, se da un lato
sono sicuro che questa affermazione io non la nego, d’altro canto, nella vita
quotidiana, accade spesso il contrario, accade spesso che prevalga l’organizzare,
il fare, il voler comunque sistemare la questione e la giornata, nel tentativo
illusorio  che questo serva alla mia umanità, che ridesti la mia umanità. E scopro
che il  Signore utilizza le circostanze più strane, anche più ordinarie, per
correggermi.
Mi è successa questa cosa: arrivo una mattina in ufficio, e mi avvisano che c’è un
cliente che chiede di parlarmi, un cliente che non aspettavo assolutamente; vado
a riceverlo a malincuore (perché comunque avevo già programmato cosa fare
quella mattina). È una persona che conosco da tempo, bravissimo, buono,
stimatissimo, che nell’ultimo anno è stato toccato drammaticamente dalla vita.
E mi chiede un parere che riguarda questioni di soldi. Io gli faccio un po’ di
domande per inquadrare la questione,e a un certo punto lui mi dice: «Guardi, io
so che quei soldi non mi spettano, però se appena appena ho la possibilità, per
qualche cavillo, di potermi rifare io lo voglio fare perché mi hanno trattato male».
Allora ho iniziato a dargli un parere. E sul finire di questo incontro, mentre lo
stavo salutando – io potevo chiudere la questione così, svogliatamente, perché
era comunque un imprevisto che mi stava facendo perder tempo quella mattina –,
è emersa in modo impressionante in me la necessità di non lasciar perdere il
nocciolo di quel che lui mi stava raccontando. E gli ho domandato: «Scusi, ma è
possibile che lei voglia rispondere a un torto subito con un altro torto? È
possibile vivere così, da questo punto di vista?». La questione è finita lì, così.
Mi ha colpito per il fatto che capisco che in me – in noi – c’è un qualcosa di
irriducibile, che io posso tentare di censurare e di nascondere, ma che
nell’impatto con la provocazione della realtà emerge, a un certo punto emerge.
Ed è la stessa questione, mi pare, che tu dicevi nella lettera a la Repubblica, che
mi aveva colpito perché, al contrario di tanti commenti che avevo letto e sentito
sulla situazione italiana – cito quelli più benevoli, dove si diceva: «Dobbiamo
rimetterci insieme, dobbiamo dimenticare gli odi per fare qualcosa per l’Italia» ,
tu non ti limitavi a questo, ma sei andato al fondo dell’origine che permette
questa convivenza, questa possibilità di stare insieme. E questa per me è una
 posizione che scaturisce dalla fede, cioè da un uomo che viene investito
dall’avvenimento di Cristo e che è capace di guardare così a fondo la realtà
e di giudicare così la realtà.
Ma perché, secondo te, questo c’entra con la fede?
Secondo me c’entra con la fede perché solo una posizione di fede così ha la
capacità di risvegliare l’umano che è in me.
2
Cioè: ciò che risveglia l’umano, come abbiamo sempre detto a partire dal 
capitolo decimo de Il senso religioso, è la realtà. Tu hai descritto dei 
fatti reali. Punto. Questi sono ciò che ridesta. La questione è che quanto 
più io vivo la fede tanto più questa mia umanità emerge proprio perché
ridestata nell’incontro con la Presenza eccezionale, proprio perché la 
convivenza con Gesù, come abbiamo detto in «Ubi fides, ibi libertas», 
ci rende sempre più in grado di sperimentare che le cose ci parlano. 
Infatti a te ha stupito il fatto che tu avresti potuto non fare caso a quel 
che ti accadeva quella mattina, durante quella visita inaspettata, come 
io avrei potuto non rendermi conto dell’origine del caos politico. 
C’entra con la fede perché, vivendo alla presenza di Cristo, vivendo in
un luogo dove Cristo accade, il Mistero ci educa a essere sempre più 
disponibili, quindi a lasciarci toccare da tutto; non perché siano diverse 
le cose (un altro impatta la medesima realtà che impatto io), ma perché 
è diversa la capacità di stupore di un io afferrato da Cristo. Per questo  
come ci siamo detti qualche anno fa – la fede non appiattisce l’umano;
al contrario, quel che fa la fede è esaltare l’umano, infatti il senso 
religioso è la verifica della fede, e in questo senso c’entra con la fede: 
essere sempre più stupito che la realtà mi parla (non che sia io in 
grado di fare qualcosa), per cui – come tu hai detto molto bene la 
costruzione della mia vita non comincia dal mio fare, ma comincia 
da questo lasciarmi  costantemente colpire da una Presenza che mi 
ridesta costantemente, tanto che tutto diventa segno, qualsiasi 
circostanza. Questo è il desiderio che abbiamo: che possiamo vivere 
tutto così! Perché l’alternativa è essere piatti davanti a qualsiasi cosa 
che accade.
O molto arrabbiati.
Come sappiamo bene… Grazie.
Io sono rimasto colpito e ricolpito quando ho ripreso l’Introduzione agli Esercizi,
ma già quellasera a Rimini lo ero stato in modo fisico, quasi, quando tu hai
concluso citando l’Apocalisse: «Sei costante e hai molto sopportato per il
mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il
tuo amore di prima».
E tu hai sottolineato: «Il nostro primo amore dov’è?». È stata come una
stilettata al cuore, da una parte, liberandomi (perché era come se toccassi
finalmente quel che mi interessa davvero) e, dall’altra, riaprendo la ferita.
Il mio primo amore è l’unica cosa che mi interessa, e rimetterlo a tema è ciò
che mi fa vivere, che mi rimette in moto. Ti racconto due fatti. Alla fine di
aprile è caduto l’anniversario della mia ordinazione, si è fatta una festa (anche
ben riuscita, direi) e c’era un po’di gente di varia provenienza, tra di loro molti
forse nemmeno si conoscevano. C’era da mangiare la porchetta, e poi
abbiamo fatto qualche canto. Il primo canto è stato dedicato a me; appena
è cominciato io sarei scappato, me ne sarei andato, non per imbarazzo, ma
perché c’era qualcosa che non andava. E subito ho pensato: beh, sarà per il
mio solito carattere da piemontese… E invece ho capito che il problema era
che guardare quella festa centrandola sul mio anniversario era spostarsi dal
primo amore, fino a rimanere senza fiato.
Perché? Perché al centro della festa, in realtà, era evidentissimo che c’era una
storia di amicizia che aveva fatto Lui, aveva intrecciato Lui, e Lui era la
ragione per cui valeva la pena fare la festa. Perché per me era chiarissimo che
Lui ha una fisionomia che, messa al centro, riempie i cuori, mentre appena
sposti lo sguardo tutto diventa pesante. Il secondo episodio riguarda un
incontro in cui tu eri intervenuto, rispetto a una difficoltà che avevamo trovato
e anche a una discussione cheera stata abbastanza dura, a dirimere un po’ la
situazione aiutandoci a fare un passo avanti. E mentre tu parlavi, mi
accorgevo che io avrei ribattuto, avrei detto: «Non è esattamente così»,
avrei messo i puntini sulle “i”. Ma lì, di nuovo, è come se fosse venuto fuori
benissimo che io dovevo scegliere se lasciarmi affascinare dalla Sua presenza
che tu descrivevi, facevi venir fuori, rimettevi al centro, e che creava un’unità
e che era bella da vedere, oppure se mettere i puntini sulle “i” e rimanere su
altro. Mi ha colpito perché è proprio quel che dice il Papa, cioè che l’unica
cosa che fa vivere è andare dietro a Lui così come si fa vedere, affascinante
com’è, altrimenti si rimane su delle strutture (per carità: del movimento,
cristiane, che parlano di Lui) che non fanno vivere.

In che cosa si vede il mio primo amore dov’è e cosa è successo del primo 
amore? Che uno si trova davanti a una festa e si sorprende che è 
bellissima, che è organizzata con tutta la buona intenzione; ma che 
Lui non è al centro. È come se cominciasse a diventare nostro  quel 
che ci testimoniava don
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Giussani nell’episodio di quella festa, che abbiamo citato a pagina 23 
del libretto degli Esercizi. E questo dice del cammino che stiamo facendo 
e aiuta a rispondere alle domande che a volte ci facciamo. Scrive una 
persona: «Da qualche mese il mio fidanzato è all’estero. Già dopo poco 
tempo che era là è rimasto colpito dal fatto che, nonostante fosse una 
città prevalentemente atea, o al massimo protestante, ci sono delle 
famiglie bellissime, coppie giovani che si sposano, tanti figli,lavorano 
un sacco in modo da poter tornare a casa verso le quattro del 
pomeriggio e dedicarsi alla famiglia. “Bellissimo!”, mi diceva. Ma 
allo stesso tempo, immediatamente, la sua domanda: “Ma se questi 
che sono atei hanno delle famiglie belle, così belle, che cosa aggiunge, 
qual è il di-più del cristianesimo?”. Sinceramente all’inizio mi sembrava 
una domanda non inutile, ma dalla risposta ovvia. Ero anche un po’ 
sconfortata dal fatto che lui fosse curioso e così attratto dalla possibilità 
che un mondo senza Cristo fosse possibile e bello. Poi gli Esercizi sono 
cominciati con quella stessa domanda che ho dovuto, a quel punto, 
prendere per forza in più seria considerazione. La settimana dopo sono 
andata a trovarlo e ho potuto vedere e toccare con mano che è il luogo 
perfetto dove è inutile essere buoni [la famosa immagine di Eliot], dove 
si può fare tutto, basta che si rispettino le regole, dove viene insegnata 
la possibilità delle cose. Ma non la loro verità. E quando sono tornata a
casa la domanda degli Esercizi era ancora più viva: “Che differenza 
c’è tra l’essere delle brave persone e un cristianesimo in carne e 
ossa?”». È questa domanda che urge sempre di più. Perché?
Perché tante persone sono brave, vivono così (uno può andare alla festa 
e accontentarsi di questo). Lo dice bene Giussani in L’attrattiva 
Gesù (a pagina 165) rispondendo a una persona che era tornata 
dall’Africa: «Se laggiù eri qualche cosa di ben di più, era perché avevi 
questo [la fede]: sta’attenta a non perderlo qui. È più facile perderlo 
qui [lo diceva in una casa dei Memores Domini, che sembrerebbe il 
luogo più adeguato per poter vivere la fede] che in Africa, è più facile 
perderlo in casa tua che neanche in Africa. […] Perché casa tua, 
creata per l’influsso di Cristo, è così piena di umanità, piena di colori 
e di sapori e di figure, è così diversa dalla vita solita, che ti appaga. 
Perciò,appagata dalla compagnia, dimentichi la radice della compagnia». 
Cioè: possiamo creare un mondo pieno di umanità, che ha la sua origine 
nella presenza di Cristo, e non sentire più il bisogno di dire il Suo nome, 
e non sentire più l’urgenza di quella sterminata tensione, di quella 
esasperata tensione a dire il Suo nome. Perché non ne sentiamo la 
mancanza. Ma se è così, allora uno si domanda: se degli atei hanno 
famiglie così belle, che cosa aggiunge, qual è il di-più del cristianesimo?
Per questo, se noi non capiamo che cosa è questo di-più, se noi, strada 
facendo nella vita, non cogliamo la differenza tra il fatto che tutto vada 
bene e l’urgenza di Cristo, prima o poi ci disinteresseremo della fede. 
E siccome abbiamo difficoltà a cogliere questo, poi quando uno ha 
una urgenza, quando uno ha una domanda, quando uno ha un desiderio, 
non sa che cosa fare: «Dopo trent’anni di movimento, venti di 
matrimonio e due figlie adolescenti, sono con le spalle al muro. 
Non sono felice. Ho tutto, ma non sono felice. Ho una moglie che mi 
vuole bene, due figlie che a scuola vanno bene, un lavoro ben retribuito 
anche in questi momenti di crisi, ma sono scontento, cioè non sono 
contento di me stesso. Dico di essere con le spalle al muro perché la 
domanda di essere felice è proprio grande, da crearmi disagio, da 
farmi venire il mal di testa. Riprenderò ad andare dallo psicologo per 
farmi aiutare, ma certo non risolverò il problema, ci sono già passato. 
Vedo che sposto il problema della mia insoddisfazione incolpando una 
volta il lavoro, una volta gli affetti. Credo proprio di essere con le 
spalle al muro, non posso più mentirmi. Ho cinquantaquattro anni.
Tu ci hai detto che è nei momenti di difficoltà che si vede a chi uno è 
attaccato, quanto è importante Cristo e quanto lo sono le proprie idee». 
Il fatto che noi sperimentiamo questa tensione, questa insoddisfazione, 
ci fa costantemente bisognosi di Cristo. Guardate che la grande 
tentazione del potere è quella di farci credere soddisfatti. La tentazione 
del Grande Inquisitore di Dostoevskij è questa, tanto è vero che Gesù 
appare come uno che viene a disturbare. Ma noi non vogliamo disturbi, 
noi vogliamo che ci lascino in pace! Vi chiedo: questo lasciarci in pace è 
la felicità, è la pienezza, è il compimento della vita? Qui ciascuno deve 
guardare in faccia questa domanda, devefarne esperienza, perché sono 
cose che non si capiscono spiegandole. Continuate a farmi delle 
domande cui dovete rispondere voi, come mi scrive uno: «Davanti 
alla domanda: “Ma io cosa mi aspetto da Cristo?”, che cosa vuol dire 
questo “tutto” di cui parli?». È quel che mi devi dire tu, non
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chiederlo a me! Perché questa è la verifica della fede. Oppure un altro:
 «Cosa vuol dire esattamente aspettarsi tutto dal fatto di Cristo? Che 
cosa vuol dire nel quotidiano vivere del fascino per Cristo?».
È ciò che occorre scoprire dall’interno della propria esperienza. 
Risposte… Ci sono troppe risposte, ma non ci sono esperienze che 
rispondano alle domande; non è che se io rispondo a parole, soddisfo
la vostra insoddisfazione, perché non è una spiegazione che soddisfa, 
è un’esperienza! Rendiamoci conto che il fatto di ridestarci la domanda 
è l’unica possibilità della verifica della fede, e che è lì, lì, davanti alle 
sfide del vivere che io posso vedere la differenza: che cosa introduce 
Cristo e qual è il di-più del cristianesimo. Altrimenti il di-più del 
cristianesimo per noi è una frase dipinta sul muro che abbiamo sentito 
tante volte, ma di cui non sappiamo che esperienza rappresenti; e 
questo dice fino a che punto non basta ripetere certe frasi come cosa 
ovvia, come presupposto ovvio, perché è proprio avendo fatto così, 
come tanti Paesi dell’Europa dimostrano, che abbiamo perso per 
strada la fede. O noi ci rendiamo conto di questo, oppure il primo 
amore è già sparito dall’orizzonte. Per questo la domanda di Cristo 
non è altro che questa: «Ma Io, quando ritornerò, troverò qualcuno a
cui manco, qualcuno per cui la vita sia l’attesa di Me?».

A me ha molto colpito quando il venerdì sera, agli Esercizi, hai fatto la domanda:
«Ma del fascino per il cristianesimo cosa rimane?». Ho avuto un dialogo con un
collega, un nuovo consulente che conosco anche poco, che ha qualche anno
più di me; eravamo a pranzo, due sposati e due non sposati, o meglio, due con
figli e due senza figli. A un certo momento, si parlava di bambini e matrimonio,
e questo dice: «In realtà io vorrei sposarmi, ma poi senti tutte quelle storie per
cui uno ha dei figli, e dopo le cose vanno male, e finisce che dormono in una
macchina perché non hanno più soldi». Un altro giustamente ha risposto:
«Guarda, sposato o non sposato è uguale, se ti devono togliere qualcosa…».
E io dico: «Ma, scusa, al di là delle questioni pratiche, il fatto che tu possa essere
sposato, cioè che tu possa essere con una persona tutta la vita, è una cosa
desiderabile o no?». «Certo che è desiderabile, però io mi rendo conto che una
frase come quella che si dice durante il matrimonio (“Prometto di esserti fedele
sempre”) non la posso dire, se io sono serio con me stesso non la posso dire».
 «Giusto, però è desiderabile o no?» «Desiderabile è desiderabile». E allora
gli ho detto: «Scusa, allora più che soffermarsi sul fatto che non ce la fai,
potrebbe essere interessante capire da chi ce la fa dove pesca questa forza».
Non sapevo se lui fosse di Chiesa, quindi andavo un po’ cauto perché mi
interessava evidentemente l’argomento, però non volevo forzare dicendo cose
che magari uno non capiva. Ho detto: «Guarda, dalla mia esperienza quello
che ho visto io è che nel matrimonio cristiano c’è proprio una forza in più che
viene dal Sacramento». E lui mi ha detto: «Però io questo percorso di fede
non l’ho fatto. Questo percorso capisco che è una cosa soggettiva che io
dovrei fare, però io non l’ho fatto». Io gli ho detto: «Guarda, non è tanto una
questione soggettiva nel senso che ci devi pensare su, è una questione
personale senza dubbio, però è una cosa che uno riconosce, è una cosa che
uno vede e allora desidera fare. Per me è stato così». Poi il discorso è andato
avanti. Io mi sono reso conto, parlando con lui e poi ripensandoci, che è vero
che uno a prescindere desidera voler bene alla moglie e ai figli, senza dubbio,
però quel che io ho visto nel matrimonio cristiano è proprio lo sguardo che tu
descrivevi di Zaccheo e Gesù: come deve essersi sentito guardato quando è
stato chiamato? Io ho fatto l’esperienza del perdono all’interno della famiglia
e questa cosa non ci può essere se uno è da solo, non c’è questa possibilità
di guardare l’altra persona a prescindere dagli errori. Dopo quel dialogo mi
sono detto: tutto viene da qui, viene proprio da questo sguardo capace di
accogliere la persona com’è. Conosco due amici che aspettano una
bambina che ha delle malformazioni, che forse sono collegate a qualche
sindrome eccetera, che dicono: «Questa bambina noi la vogliamo»; c’è la
classica possibilità di fare l’amniocentesi, ma io ho visto lo sguardo di
questa mamma che diceva: «Io questi esami non li voglio fare, non mi
interessano, io voglio vedere in faccia questa bambina». Questa cosa non può
stare se non con qualcuno che ti ha guardato così e di cui tu porti dentro la
memoria. Poi, magari, durante il giorno hai altri mille pensieri, ma questa
cosa ti segna e tiene in piedi il matrimonio, tiene in piedi la vita. Quindi il
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fascino del cristianesimo qui c’è; se non ci fosse, obiettivamente queste
circostanze non potrebbero stare in piedi.
Grazie.
Io parto da una cosa che hai detto tu agli Esercizi, cioè che l’alternativa è chiara: o riconoscere il
fatto oppure non riconoscerlo lasciando prevalere le nostre misure. Parto da questo e da quel che
hai spiegato dopo sulla sequela, cioè che don Giussani dice che la sequela è all’esperienza della
persona e non alla persona. Perché andando a Roma dal Papa mi è capitata questa cosa: sono
andata senza grandi pregiudizi, ma senza grandi aspettative, molto tranquilla anche sulla figura
del Papa, ma senza aspettarmi chissà che. In realtà, quando lui ha iniziato a parlare e mentre
parlava, io ho scoperto di essere “incollata”. È finito il discorso e io non avevo perso una parola.
Mai mi era capitato, tanto che l’unica cosa che ho potuto scrivere, anche a chi mi ha chiesto come
era andata, era questo: «Non ho perso una parola». Dopo, domandandomi che cosa era successo,
mi sono accorta che quando uno testimonia un fatto che è così vero per lui, come il Papa ci ha
raccontato con la sua modalità espressiva, il fatto va al di là della persona, è talmente vero che
ridesta in me tutta l’esperienza che ho fatto io, permettendomi di rileggere tante cose. Per esempio,
tanti discorsi che ho fatto con amici rispetto al movimento, alla guida del movimento, in cui mi
accorgevo di difendere sempre te, difendere un certo tipo di cosa…
Difendere il territorio.
Invece ho scoperto di difendere me! Cioè di difendere la mia esperienza e la mia fede. Quindi anche
quando il Papa diceva: «Accade Cristo», è questo che accade, accade questa esperienza per me.

Bello! Questo ci introduce già a quel che diremo della sequela: ciò che colpisce è che quando uno ci
testimonia un’esperienza, è questo che ci incolla. È questo che don Giussani ci invita a fare per non
perdere tutta la bellezza di quello che accade, cercando di non ridurre la sequela a una delle
riduzioni che abbiamo elencato agli Esercizi. La vera sequela, quella che ci colpisce, che ci trascina,
è partecipare all’esperienza di un altro.

Anche io sono rimasta molto colpita dalle domande con cui tu hai aperto gli Esercizi della
Fraternità: «Quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà la fede in me?», oppure quando, leggendo
la lettera dicevi – e questa è la domanda che mi aveva più inquietato – : «Del fascino per Cristo
cosa rimane?». E proprio quella sera, proprio la sera degli Esercizi della Fraternità, mentre
andavo a letto ho capito che del fascino di Cristo rimani tu, Julián, tu che me lo ridai, tu che mi fai
queste domande che io non mi farei più. Così tu che continui a parlarmi, a correggermi, sei la
misericordia che ricrea in me la fede. Forse dico una cosa eterodossa, però l’ho pensato molto in
questi mesi: se don Giussani mi avesse dato e detto tutto quel che mi ha dato e detto, ma non mi
avesse dato te, mi avrebbe imbrogliato, perché io questo fascino non lo avrei più. E questa è la
seconda osservazione che volevo fare: è una presenza che permette di sentire come una promessa e
non come una condanna queste domande, perché se no io queste domande non me le faccio perché
le sento come una condanna; e la vita diventa una serie di conseguenze tratte da una presenza che
è stata e non c’è più, cioè il primo amore diventa un presupposto ovvio. Questo mi ha fatto
impressione in una serie di fatti, l’ultimo dei quali una correzione che tu mi hai fatto ieri, che è
stato il fatto culminante per me di tutto questo periodo, giudicando un disagio che ho vissuto tutti
questi mesi (che ha avuto, in particolare, come epicentro la mia responsabilità in Gioventù
Studentesca), ritrovandomi addosso un risentimento, una delusione che mi sembra la traiettoria
inevitabile di un impeto generoso perché, come tu dicevi alcuni anni fa al Gruppo adulto: «La
generosità prima o poi passa la fattura», e io la fattura la passo presto! Dopo quest’ultima grande
correzione di ieri, io mi sono accorta d’improvviso che era tanto tempo che parlavo di Cristo, ma
che non parlavo più a Cristo. E questo per me segna la differenza tra la fede come presupposto
ovvio e il riconoscimento di una Presenza. Tant’è che non vedevo l’ora che arrivasse la sera per
fare l’ora di silenzio, cosa che non mi accadeva da non so più quanti mesi, non perché non facessi
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l’ora di silenzio, ma perché l’ora di silenzio era leggere cose su Cristo, leggere un discorso che mi
tornava, ma non più parlare a Cristo. Ed è qui che per me muore il fascino.

Questo introduce il tema della prossima Scuola di comunità sul fascino del cristianesimo come
avvenimento. Perché – approfittiamo di questo intervento per introdurci alla questione – io posso
parlare di Cristo senza sentire l’urgenza di andare a trovarLo. Si capisce? Mi diceva di recente una
persona una cosa simile a quella che raccontavi adesso tu, a proposito di un incontro in cui erano
successe un po’ di cose: «Di tutto quell’incontro mi è rimasto quel momento in cui ho visto una
persona vivere di Cristo, e da quel momento non ho potuto evitare che mi venisse tutta una
nostalgia del silenzio». Adesso me lo hai ricordato. Cioè: il cristianesimo rimane come avvenimento
e non come parola, e non come discorso, e non come istruzioni per l’uso. È come quando a uno non
basta sapere della persona amata, ma vuole andare a trovarla. E questo vuol dire che il fascino è per
Cristo, non per tutto il resto; il fascino è per Cristo. E anche se tutto andasse bene, uno sa comunque
rispondere che cosa è il di-più della vita. Non occorre che succeda un cataclisma, o qualche cosa di
triste; no, può non succedere niente di particolare, ma nella quotidianità si ridesta tutto il desiderio
di Lui, tutta l’esasperata tensione a cercarLo. E questo è un’altra cosa: è una cosa della stessa
natura, nella sua semplicità, dell’inizio del cristianesimo. Gesù non aveva detto a Giovanni e
Andrea dopo il loro primo incontro (non è riportato questo nel racconto del vangelo): «Venite a
trovarMi di nuovo domani». Non c’erano le istruzioni per l’uso, ma essi non hanno potuto resistere
ad andare a trovarlo, ad andare a cercarLo il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Non per un
moralismo, ma per il fascino di Cristo.

Io ho una domanda molto basilare, molto semplice, alla quale forse hai già anche iniziato a
rispondere, ma te la ripropongo così come mi è venuta rispetto al venerdì sera, che io ho percepito
proprio come un incalzare di domande sempre più intense, un crescendo, a partire da quella
iniziale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»; e poi: «Del fascino
per Cristo cosa rimane?», su, su: «Noi crediamo ancora che Cristo possa riempire la vita?», fino a
quella domanda che è stata più volte evocata, quella dell’Apocalisse: «“Sei costante e hai molto
sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo
amore di prima”. Il nostro primo amore dov’è?». Questo insistere su queste domande ha avuto su
di me l’effetto di mettermi in discussione rispetto proprio a quel che mi sono resa conto di vivere
come un presupposto ovvio, come una cosa scontata: la mia fede. E questo non soltanto quella sera
agli Esercizi; questo disorientamento e il vacillare di una certezza che pensavo di avere mi ha
accompagnato nelle settimane a seguire. Però questo mettere in discussione ciò che mi sembrava
scontato in queste settimane è risuonato in me, mi accorgo, proprio come un rimprovero, per usare
la parola che è citata nell’Apocalisse, come se mettesse in rilievo una mia infedeltà, un mio essere
appagata, soddisfatta di quello che ho, e di non arrivare al punto. Ma io mi domando: è proprio qui
che ci volevi portare? Perché mi tornano poco i conti rispetto al percorso fatto in questi anni in cui,
sempre, ti ho visto invece metterci in guardia dal misurarci sulle nostre prestazioni. Mentre questo
mettermi in discussione a me ha fatto un po’ questo effetto, come a dire: non ci sono quando
pensavo di esserci.

È bellissima questa domanda, perché ci aiuta a cogliere la differenza. Da noi tante volte queste
domande sono sentite come un rimprovero, come un misurare le nostre prestazioni, che può avere
un aspetto vero, ma non è quel che mi interessa ora. Perché io, preparando gli Esercizi e
scegliendone il titolo, avevo presente tutto ciò che avevamo attraversato quest’anno, in cui non c’è
stato risparmiato niente, e ciascuno sa bene la performance che ha fatto e le figure che abbiamo
fatto. Per questo, quel che dici era già palese prima di cominciare la partita. Qui la questione è,
invece, se noi siamo più scoraggiati o più entusiasti della nostra fede. Non è la nostra performance
quel che cerco di evidenziare, ma se qui, in tutto quel che non ci è stato risparmiato, noi abbiamo
colto la Sua presenza. Se essere stati spogliati di tutto, se sentire dire di tutto contro di noi, ci può
separare dall’amore di Cristo. Questa domanda vuol far venire a galla che niente, neanche tutto quel
che avevamo attraversato, avrebbe potuto strapparci di dosso questa evidenza. Ma questo non
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possiamo raggiungerlo – come tante volte pensiamo – a prescindere da quanto accade, ma soltanto
attraversando quel che accade. Non è che san Paolo non abbia dovuto affrontare enormi difficoltà,
ma queste lo hanno portato a una certezza: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?». Cioè, la
domanda non è per un esame sulla nostra prestazione, ma sul nostro sorprenderci afferrati da Cristo.
Il test non era su di noi, era su Cristo! Perché è lì, in quel momento, che Cristo mostra la Sua
diversità, che rende palese ai nostri occhi chi è Lui. Che cosa resiste? Non resiste la nostra
prestazione (lo sappiamo bene), non resiste la nostra energia, resiste Lui, la Sua presenza. Resiste
Colui che ci ha afferrati. Resiste il riconoscimento della Sua presenza, che non è lo sforzo
volontaristico di un riconoscimento, ma è lo stupefacente stupore dell’inizio moltiplicato
all’infinito. Infatti pensiamo: «Va bene che Lui mi voglia bene all’inizio»; il problema è che quando
conosce tutto di me, quando sa tutti i miei errori, ancora Lui abbia pietà di me, ancora Lui abbia
cura di me, ancora Lui si mostri così decisivo per la mia vita, tanto che niente e nessuno può
separarmi da Lui, questo mi fa dire: ma chi è Cristo? Lo scopo delle domande del venerdì sera è far
venir fuori tutta la novità di Cristo, perché è questo che ci consente di essere grati, che ci consente
di vivere la fede come riconoscimento di una presenza così eccezionale da rimanere sbalorditi.
Allora ciò che resiste non siamo noi, ciò che resiste è Lui, ciò che dura è Lui. La verità è quel che
dura nel tempo. Ciò che resiste è Lui. Lo abbiamo visto, il Dio di Israele può portare il suo popolo
all’esilio per mostrare che Lui è un Dio diverso; per tutti gli altri popoli, appena cade l’impero è
finito il loro dio, ma Lui può permettere l’esilio per mostrare che rimane per sempre. E questo è ciò
che ci dà tutta la certezza per fare la strada, è un punto di certezza incrollabile che si fonda non sulle
nostre prestazioni, ma su di Lui. Questo è il cammino della fede che noi vogliamo continuare a
percorrere. La strada – come vedete – non sono i commenti sul testo, ma vedere, accompagnati dal
testo, tutta l’esperienza che si svolge davanti ai nostri occhi nella realtà. Sta qui tutta la diversità. Da
questo punto di vista, è impressionante potere addirittura fare questo percorso con la compagnia di
quel che papa Francesco ci ha detto quando siamo andati a Roma. Nella sua semplicità disarmante
ci ha mostrato questo, ci ha testimoniato questo: davanti alla crisi dell’umano (che non si può
ridurre a sociologia, perché non basta una organizzazione per risolverla) occorre Gesù, Gesù! E
quindi la fede è un incontro con Gesù, è un riconoscimento della Sua presenza; e questo vuol dire
che la comunicazione della fede si può fare soltanto con la testimonianza, cioè col mettere davanti
agli altri un’esperienza. È proprio questo che ci consente di seguire il Papa in tutte le modalità con
cui ci sorprende: che esperienza ha di Cristo da aver bisogno della preghiera, da aver bisogno di
lasciarsi guardare da Gesù! Perché se uno come dice papa Francesco può vivere la vita lasciandosi
guidare da Gesù, è perché Gesù non è un personaggio o un discorso del passato, ma è
contemporaneo e sta agendo nella vita. È Lui che attraverso le circostanze più banali ci chiama a
rispondere, ci ridesta. Per questo se noi abbiamo presente, anche nel lavoro sugli Esercizi, tutto
quanto il Papa ci ha testimoniato nella sua semplicità, possiamo trovare un aiuto prezioso per poter
toccare con mano che cosa vuol dire la fede come un’esperienza vissuta, non semplicemente –
riprendo proprio l’immagine usata dal Papa – come riflessioni teologiche da fare a tavolino
prendendo il tè. Altroché! Per questo occorre uscire verso la realtà e verificarlo lì, non fare la
chioccia.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 19 giugno alle ore 21.30. Riprenderemo la Prima
lezione degli Esercizi della Fraternità, come già abbiamo introdotto oggi.
Il Movimento per la vita, come sapete, ha lanciato l’iniziativa “Uno di Noi”, a cui hanno aderito
tute le associazioni cattoliche. Si tratta di una raccolta firme a livello europeo per richiedere la
cessazione del finanziamento ad attività che favoriscono l’aborto e ricerche che presuppongono la
distruzione di embrioni umani. Troverete il modulo per la raccolta firme anche allegato a Tracce di
giugno. Raccomandiamo la raccolta firme nei propri ambiti di studio o lavoro, tra i vostri familiari,
amici e conoscenti, nelle parrocchie dove non fosse ancora stata fatta e, possibilmente, in
collaborazione con altre associazioni.
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È provvidenziale per ciascuno di noi sostenere questa iniziativa mentre stiamo leggendo come Libro
del mese Il potere dei senza potere, perché questo libro non pone questioni datate soltanto al
periodo dell’impero sovietico, ma ripropone con chiarezza che il vero potere che ogni uomo ha, che
l’io ha, è l’amore alla realtà e alla verità delle cose. È questo che permette di non essere omologati
alla mentalità dominante, che forse oggi è ancora più pervasiva di quella imposta dal regime
sovietico. L’esperienza cristiana rende più acuto questo amore alla realtà e alla verità delle cose e
l’affermazione di questo vale per la coscienza di sé e per la crescita della propria umanità più di
qualsiasi risultato nell’immediato.
Veni Sancte Spiritus

Il Papa: Dio piange per la pazzia della guerra, suicidio dell’umanità che uccide l’amore

“La guerra è il suicidio dell’umanità perché uccide il cuore e uccide l’amore”. E’ uno dei passaggi dell’omelia di Papa Francesco nella Messa celebrata, stamani, alla Casa Santa Marta. Alla celebrazione, informa una nota della Sala stampa vaticana, ha partecipato un gruppo di 80 persone, composto da parenti di militari italiani caduti nelle missioni di pace negli ultimi 4-5 anni, in particolare in Afghanistan, e da alcuni militari feriti nel corso delle stesse missioni. I parenti dei caduti erano 55, in memoria di 24 militari; i feriti 13, accompagnati da alcuni loro parenti. Oggi, 2 giugno, in Italia si celebra la Festa della Repubblica, “un giorno significativo” - ha ricordato nel suo saluto mons. Vincenzo Pelvi, Ordinario Militare per l’Italia, che ha concelebrato con il Papa – nel quale il Paese esprime “un debito d’amore verso la famiglia militare”. Il servizio di Benedetta Capelli:RealAudioMP3 

“Il Signore sente la preghiera di tutti!”, quella di Salomone nel giorno della consacrazione del Tempio, ma anche la preghiera di ognuno di noi. Papa Francesco lo mette in luce, citando anche l’episodio evangelico del centurione che va da Gesù a chiedere la guarigione del suo servo. “Il nostro Dio è così - aggiunge - sente la preghiera di tutti”, tutti non come se fossero “anonimi” ma la preghiera “di tutti e di ciascuno”. “Il nostro Dio è il Dio del grande e il Dio del piccolo; il nostro Dio è personale”, ascolta tutti con il cuore e “ama con il cuore”:

“Noi oggi siamo venuti a pregare per i nostri morti, per i nostri feriti, per le vittime di quella pazzia che è la guerra! E’ il suicidio dell’umanità, perché uccide il cuore, uccide proprio dov’è il messaggio del Signore: uccide l’amore! Perché la guerra viene dall’odio, dall’invidia, dalla voglia di potere, anche - tante volte lo vediamo - da quell’affanno di più potere”.
E anche nella storia, constata Papa Francesco, "tante volte, abbiamo visto che i problemi locali, i problemi economici, le crisi economiche”, “i grandi della terra vogliono risolverli con una guerra”:

“Perché? Perché i soldi sono più importanti delle persone per loro! E la guerra è proprio questo: è un atto di fede ai soldi, agli idoli, agli idoli dell’odio, all’idolo che ti porta ad uccidere il fratello, che porta ad uccidere l’amore. Mi viene in mente quella parola del nostro Padre Dio a Caino che, per invidia, aveva ucciso suo fratello: ‘Caino, dov’è tuo fratello?’. Oggi possiamo sentire questa voce: è il nostro Padre Dio che piange, che piange per questa nostra pazzia, che ci dice a tutti noi ‘Dov’è tuo fratello?’; che dice a tutti i potenti della Terra: ‘Dov’è vostro fratello? Cosa avete fatto!’”.
Di qui l’esortazione del Pontefice a pregare il Signore perché “allontani da noi ogni male”, ripetendo questa preghiera “anche con le lacrime, con quelle lacrime del cuore”:

“‘Volgiti a noi, Signore, e abbi misericordia di noi, perché siamo tristi, siamo angosciati. Vedi la nostra miseria e la nostra pena e perdona tutti i peccati’, perché dietro una guerra sempre ci sono i peccati: c’è il peccato dell’idolatria, il peccato di sfruttare gli uomini nell’altare del potere, sacrificarli. ‘Volgiti a noi, Signore, e abbi misericordia, perché siamo tristi e angosciati. Vedi la nostra miseria e la nostra pena’. Siamo sicuri che il Signore ci ascolterà e farà qualche cosa per darci lo spirito di consolazione. Così sia”.

Al termine della Messa è stata recitata la “Preghiera per l’Italia”, composta dal Beato Giovanni Paolo II. Al Papa la comunità ecclesiale dell’Ordinariato militare ha offerto in dono un’opera di artigianato napoletano in terracotta realizzata dai maestri artigiani di Napoli, Raffaele, Salvatore ed Emanuele Scuotto. La composizione rappresenta San Giuseppe lavoratore che mostra gli strumenti da falegname al piccolo Gesù, il quale sorregge una cesta dove sono contenuti gli oggetti simbolo della Crocifissione: chiodi, martello, tenaglia.
 http://it.radiovaticana.va

Condividiamo il poco che siamo ed abbiamo senza chiuderci in noi stessi. Angelus 2 Giugno 2013.

“La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci”, affinché condividiamo il poco che abbiamo senza chiuderci in noi stessi. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco all’Angelus, in Piazza San Pietro, gremita di fedeli. Il Papa ha, quindi, rivolto un accorato appello per la liberazione delle persone sequestrate in Siria, assicurando la sua preghiera per la pace nel martoriato Paese. Infine, il Pontefice ha chiesto di pregare per la pace e la riconciliazione in America Latina e per i soldati italiani caduti in missioni di pace all'estero.


PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 2 giugno 2013

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Giovedì scorso abbiamo celebrato la festa del Corpus Domini, che in Italia e in altri Paesi è spostata a questa domenica. E’ la festa dell’Eucaristia, Sacramento del Corpo e Sangue di Cristo.
Il Vangelo ci propone il racconto del miracolo dei pani (Lc 9,11-17); vorrei soffermarmi su un aspetto che sempre mi colpisce e mi fa riflettere. Siamo sulla riva del lago di Galilea, la sera si avvicina; Gesù si preoccupa per la gente che da tante ore sta con Lui: sono migliaia, e hanno fame. Che fare? Anche i discepoli si pongono il problema, e dicono a Gesù: «Congeda la folla» perché vada nei villaggi vicini per trovare da mangiare. Gesù invece dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). I discepoli rimangono sconcertati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci», come dire: appena il necessario per noi.
Gesù sa bene che cosa fare, ma vuole coinvolgere i suoi discepoli, vuole educarli. Quello dei discepoli è l’atteggiamento umano, che cerca la soluzione più realistica, che non crei troppi problemi: Congeda la folla - dicono -, ciascuno si arrangi come può, del resto hai fatto già tanto per loro: hai predicato, hai guarito i malati… Congeda la folla!
L’atteggiamento di Gesù è nettamente diverso, ed è dettato dalla sua unione con il Padre e dalla compassione per la gente, quella pietà di Gesù verso tutti noi: Gesù sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni. Di fronte a quei cinque pani, Gesù pensa: ecco la provvidenza! Da questo poco, Dio può tirar fuori il necessario per tutti. Gesù si fida totalmente del Padre celeste, sa che a Lui tutto è possibile. Perciò dice ai discepoli di far sedere la gente a gruppi di cinquanta – non è casuale questo, perché questo significa che non sono più una folla, ma diventano comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono, non finiscono! Ecco il miracolo: più che una moltiplicazione è una condivisione, animata dalla fede e dalla preghiera. Mangiarono tutti e ne avanzò: è il segno di Gesù, pane di Dio per l’umanità.
I discepoli videro, ma non colsero bene il messaggio. Furono presi, come la folla, dall’entusiasmo del successo. Ancora una volta seguirono la logica umana e non quella di Dio, che è quella del servizio, dell’amore, della fede. La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci alla fede nella Provvidenza, di saper condividere il poco che siamo e che abbiamo, e non chiuderci mai in noi stessi. Chiediamo alla nostra Madre Maria di aiutarci in questa conversione, per seguire veramente di più quel Gesù che adoriamo nell’Eucaristia. Così sia.

Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle,
sempre viva e sofferta è la mia preoccupazione per il persistere del conflitto che ormai da più di due anni infiamma la Siria e colpisce specialmente la popolazione inerme, che aspira ad una pace nella giustizia e nella comprensione. Questa tormentata situazione di guerra porta con sé tragiche conseguenze: morte, distruzione, ingenti danni economici e ambientali, come anche la piaga dei sequestri di persona. Nel deplorare questi fatti, desidero assicurare la mia preghiera e la mia solidarietà per le persone rapite e per i loro familiari, e faccio appello all’umanità dei sequestratori affinché liberino le vittime. Preghiamo sempre per la nostra amata Siria.
Nel mondo ci sono tante situazioni di conflitto, ma ci sono anche tanti segni di speranza. Vorrei incoraggiare i recenti passi compiuti in vari Paesi dell’America Latina verso la riconciliazione e la pace. Accompagniamoli con la nostra preghiera.
Questa mattina, ho celebrato la Santa Messa con alcuni militari e con i parenti di alcuni caduti nelle missioni di pace, che cercano di promuovere la riconciliazione e la pace in Paesi in cui si sparge ancora tanto sangue fraterno in guerre che sono sempre una follia. “Tutto si perde con la guerra. Tutto si guadagna con la pace”. Chiedo una preghiera per i caduti, i feriti e i loro familiari.
Facciamo insieme, adesso, in silenzio, nel nostro cuore - tutti insieme - una preghiera per i caduti, i feriti e i loro familiari. In silenzio.
Saluto con affetto tutti i pellegrini presenti oggi: le famiglie, i fedeli di tante parrocchie italiane e di altri Paesi, le associazioni, i movimenti.
Saluto i fedeli provenienti dal Canada e quelli di Croazia e Bosnia ed Erzegovina, come pure il gruppo del Piccolo Cottolengo di Genova, dell’Opera di Don Orione.
Saluto tutti. A tutti buona domenica e buon pranzo!

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