domenica 3 maggio 2015

Rileggere la “Vita nuova” e scoprire un amore robusto come la realtà

Celebrare Dante rileggendo l’opera con cui si conclude la sua giovinezza. Un passaggio illuminato dall’incontro straordinario con Beatrice. E da quello «spirito soave che va dicendo a l’anima: Sospira»
Per celebrare i 750 anni dalla nascita di Dante la cosa più bella è tornare alla sua prima opera compiuta, La vita nuova. È il libro, in prosa e in versi con cui si conclude la sua giovinezza. L’opera, difficile, può essere letta a diversi livelli: come raccolta e sintesi della produzione giovanile del poeta, come racconto del suo amore per Beatrice, come riflessione sulla sua poesia lirica, come congedo da essa in attesa di altri modi di espressione.
È dunque un’opera feconda per la critica, che su di essa si è ampiamente esercitata. Di certo una lettura ingenua è impossibile: troppa è la distanza dal forte apparato di simboli, dai numeri ai colori, che la caratterizza, troppi i riferimenti biblici e stilnovisti che la corredano, troppa la ricerca di un significato che oltrepassi il dato biografico per poterla paragonare, anche da lontano, a una sorta di romanzo di formazione.

«In quella parte del libro della mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia». Questo l’avvio, con l’immagine tutta medievale della memoria come di un libro in cui sono scritti i ricordi e, dopo poche pagine, il titolo scritto in rosso di un capitolo che segna l’inizio della vita nuova, della vita rinnovata da Amore. Dante manifesta l’intento di trascrivere le parole della sua giovinezza e, se non di raccontare tutto, almeno di trarne il significato. Ha trent’anni allora: il libro della memoria gli offre esperienze non remote, ma trascorse tanto da poter essere guardate col necessario distacco per coglierne il valore.
Beatitudo, Beatrice, il Salvatore
L’incontro con Beatrice, quando entrambi avevano nove anni, è per Dante l’inizio della vita nuova. Nove anni più tardi il nuovo incontro con lei, sempre a Firenze, in una città non descritta, ma riconoscibile nonostante l’atmosfera rarefatta. L’insistenza sul nove conduce al mondo complesso della simbologia dei numeri. Simbolo di perfezione (3×3) il nove rimanda a Dio. L’amore è dunque subito posto in relazione con il Creatore, ha la sua stessa cifra. E anche questo è molto medievale, non scade in un gusto vagamente mistico o letterario, ha la robustezza della vita.
Occorre del resto fare i conti anche con la componente stilnovista dell’esperienza poetica giovanile di Dante e dei suoi amici, prima di tutti Guido Cavalcanti. Un sonetto di quest’ultimo iniziava così:

Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre…
In Dante il tremore viene trasformato in esperienza umana compiuta all’apparizione della donna, diventa in lui non solo moto dell’aria, ma del cosmo e dell’anima: «Lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi”». Qui si intrecciano due componenti dell’anima dantesca: quella stilnovista e quella biblica: lo spirito vitale infatti pronuncia parole nelle quali riecheggia il saluto di Giovanni Battista a Gesù giunto sul fiume Giordano. Beatrice non è più solo posta in relazione a Dio, ma diventa figura del Salvatore, tanto che poco oltre Dante racconta come la sua ragione induca gli occhi a guardarla con le parole che nella Lettera a Tito designano il Signore: «Apparuit iam beatitudo vestra». Beatitudo, Beatrice, il Salvatore.
Il primo saluto della donna a Dante avviene nove giorni dopo, all’ora nona, «tanto che a me parve allora – annota il poeta – vedere tutti li termini della beatitudine». Ma l’amore è anche dolore e quello tra Dante e Beatrice è così vero che non sfugge a questa legge della vita. Il poeta soffre molto per gli errori compiuti, in seguito ai quali Beatrice lo priva del saluto e sembra ignorarlo e chiama la città intera a condividere e a compatire la sua pena:

O voi che per la via d’Amor passate,
attendete e guardate
s’elli è dolore alcun, quanto ‘l mio grave;

È la traduzione di un passo delle Lamentazioni di Geremia applicato dalla pietà cristiana alla passione di Cristo.
Il sonetto più famosoMa poi, con il passare del tempo, la tristezza si muta nell’iniziale maturità di un sentimento che non chiede più di essere corrisposto, ma che trova il suo compimento solo «in quelle parole che lodano la donna mia». Dante giunge a percepire la bellezza dell’amore gratuito e ciò ha come esito una poesia più pura. Beatrice rivela dunque a Dante anche la sua vocazione di poeta. Nascono allora le rime della loda, tra le quali spicca come un gioiello dell’intera letteratura italiana il sonetto del capitolo XXVI:

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Tutti avvertono l’influsso buono che promana dal passaggio di Beatrice per le vie di Firenze, tanto che quasi c’è timore a guardarla; il cuore però avverte una dolcezza che si muta nel desiderio anche fisico, il sospiro, di qualcosa di ancora più grande. È l’attrattiva di «una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare».
Beatrice muore e Dante non descrive espressamente la sua fine per varie ragioni, tra le quali il fatto che non troverebbe parole adatte e soprattutto perché il suo amore non è destinato a finire con la nascita al cielo della sua donna. Ritorna in questo frangente la simbologia del numero nove e la citazione di Geremia, di tono quasi liturgico, all’inizio del racconto: «Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium»: «Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopraddetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade». Ancora una volta l’amore e il dolore non sono fatti privati, ma hanno una valenza civile.
Passa un anno e torna il tempo in cui i pellegrini si mettono in viaggio per andare a Roma a vedere «quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente». Dante si rivolge a loro con un sonetto nel quale unisce al dolore del popolo cristiano quello di Firenze, che «ha perduta la sua beatrice». Già lo sguardo si volge altrove, più in su. Nasce l’ultimo sonetto:
Oltre la spera che più larga gira
passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.

Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ’l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

Siamo alla fine del libello di Dante, ma non della sua storia d’amore, né della giovinezza della sua vita nuova, né della poesia. Anzi. In questi versi e ancor più nella breve prosa che li commenta c’è la promessa «di non dire più cose di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei».
La promessa della Commedia
È la promessa della Commedia, che a partire da qui può essere veramente chiamata viaggio a Beatrice, non solo nel senso che approderà all’incontro con lei nel paradiso terrestre e alla loro comunione nel regno dei cieli, ma soprattutto perché costituisce l’itinerario della mente e della poesia di un uomo, e con lui di tutti gli uomini che vorranno seguirne, anche se in modo diverso, le orme.
Sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve:
Ancora il verbo dell’inizio della Vita nuova con il suo significato cristologico. E Dante vorrebbe dire al maestro, con voce virgiliana: «Conosco i segni dell’antica fiamma», ma la sua guida è svanita alla venuta del Vero. Ancora una volta la poesia, anche la più alta, si arrende all’ineffabile.
Laura Cioni

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