giovedì 26 aprile 2012

Una vita è cristiana quando dà testimonianza

Un cattolico tranquillo è un controsenso.
In questi giorni alcuni fatti pubblici e privati mi hanno riproposto un problema. Come si valuta la presenza della fede nella vita di una persona? Che cosa misura agli occhi di un’altra persona la mia fede? Da un lato è evidente il fatto che i comportamenti di ciascuno di noi creano spesso scandalo, opacità agli occhi di tanti. Tanto più se si tratta di comportamenti pubblici o privati ma di persone (poco o tanto) note in pubblico. Capita a me, credo di non essere il solo. E dall’altra parte capita pure di sentire persone che incontrandoti o vedendo qualcosa fatto da te - un gesto, una parola - abbiano fatto un piccolo o grande pezzo di strada nel riconoscimento di Gesù. Mi tremano i polsi a pensarci. Come se la riconoscibilità di Dio nel mondo dipendesse non solo dai segni che Lui ha disseminato, ma anche da quelli che compio io. Lo dice un grande poeta come Péguy: Dio si è messo nelle mani del peccatore. Come un amante, Lui attende da noi d’esser riconosciuto, e fatto conoscere. Dall’altro lato è chiaro che, in modo strumentale, un certo mondo culturale attizza o cavalca ciclicamente polemiche per ispirare diffidenza verso i cattolici. Per queste forze che manovrano mezzi di comunicazione, che si riconoscono in esplicite o occulte appartenenze, e che hanno interessi materiali e culturali cospicui, il cattolico è un ingovernabile, risponde a qualcosa che non coincide solo con le loro logiche di potere e appartenenza. Per queste forze, l’unico cattolico buono è quello che se ne sta tra sacrestia e opere di bene, che non dà fastidio, non sporca e, come diceva una pubblicità, pulisce anche il bagno. A un cattolico cosi non mancano encomi pubblici. Ma se un cristiano mostra in ambito culturale o sociale un criterio originale di giudizio e azione che non proviene da filantropie o ideologie approvate dal potere dominante, in un certo momento scatta il dissidio, la diffidenza, quando non la sottile persecuzione. La vicenda italiana - del passato e del presente - è piena di esempi. Molti santi hanno attraversato polemiche e discussioni feroci sulla loro persona e il loro operato. Per un cristiano la testimonianza in ambito personale e pubblico resta il dramma e la festa della vita intera, fino all’ultimo secondo. Fino all’ultimo respiro, come mostra Dante, ci si gioca l’anima. E anche un cattolico tranquillamente accettato in ambienti che - come appare evidente - sono modellati su una idea di mondo come se Dio non ci fosse, e come se di Cristo non ci fosse né bisogno né domanda, sarebbe forse un cattolico più tisana che sale. Ma allora, come valutare la fede e la sua "influenza" nella vita personale e pubblica? L’errore sta nel considerate il termine cattolico o cristiano aggettivi come un altro. Come se identificassero un tipo di appartenenza simile a quella che vengono indicate con un altro tipo di aggettivi. Come se esser cristiano fosse più o meno lo stesso genere di esperienza che essere, che so, italiano, o comunista o democristiano. Invece no, c’è una differenza sostanziale. Essere cristiani non significa avere un aggettivo. Si è cristiani in quanto si "indica" Gesù, lo si testimonia, non con la presunzione o subendo il ricatto d’essere perfetti Se no basteremmo noi, e di Lui che bisogno ci sarebbe? Si indica Gesù persino con la coscienza d’esser peccatori e come hanno mostrato con grandezza e passione gli ultimi Papi senza aver scandalo del male, cercando la correzione, e chiedendo perdono. Per questo la preghiera - come gesto e atteggiamento continuo, personale culturale e sociale - continua a scandalizzare. Perché altri (tra cui noi stessi) vorrebbero essere i Signori della vita. di Davide Rondoni, da Avvenire

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