venerdì 25 febbraio 2011

La trasmissione della fede nella famiglia di Julián Carrón

Risulta ogni volta più evidente che non si può dare per scontata la maturità del soggetto umano che si accosta al matrimonio. Indipendentemente dalla loro buona volontà, la realtà è che tanti giovani arrivano al matrimonio senza la coscienza adeguata della natura dell’avventura che stanno per intraprendere. Ciò non si può dare per scontato neanche per i giovani cristiani, che in non poche occasioni si avvicinano al matrimonio in condizioni non dissimili da quelle dei loro amici non cristiani, con l’unica differenza che si sposano in chiesa e hanno quanto meno un desiderio di sposarsi secondo la concezione del matrimonio che la Chiesa difende e testimonia. Questa carenza di coscienza non si può risolvere con i corsi prematrimoniali che conosciamo, i quali per loro propria natura non possono dare risposta alla situazione di quanti li frequentano. Grande è la sfida che si presenta all’intera comunità cristiana: è messa alla prova la sua capacità di generare personalità adulte, uomini e donne, in grado di accostarsi al matrimonio con una minima prospettiva di un esito positivo.

In un intervento come questo, è impossibile affrontare tutta la problematica del matrimonio e della famiglia. Mi concentrerò su una questione che mi sembra essenziale per mettere in luce quella relazione particolare che si stabilisce fra un uomo e una donna.
La crisi della famiglia è una conseguenza della crisi antropologica nella quale ci troviamo. Gli sposi infatti sono due soggetti umani, un io e un tu, un uomo e una donna, che decidono di camminare insieme verso il destino, verso la felicità. Come impostano il loro rapporto, come lo concepiscono, dipende dall’immagine che ciascuno si fa della propria vita, della realizzazione di sé.

Ciò implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. «La questione del giusto rapporto fra l’uomo e la donna – ha detto Benedetto XVI – affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?».1
Per questo il primo aiuto che si può offrire a quanti vogliono unirsi in matrimonio è l’aiuto a prendere coscienza del mistero del loro essere uomini. Solo in questo modo potranno mettere adeguatamente a fuoco la loro relazione, senza attendersi da essa qualcosa che per loro natura nessuno di loro può dare all’altro.
Quanta violenza, quanta delusione potrebbero essere evitate nel rapporto matrimoniale, se fosse compresa la natura propria della persona!
Questa mancanza di coscienza del destino dell’uomo conduce a fondare tutto il rapporto su un inganno, che si può formulare così: la convinzione che il tu può rendere felice l’io. Il rapporto di coppia, in questo modo, si trasforma in un rifugio, tanto desiderato quanto inutile, per risolvere il problema affettivo. E quando l’inganno si manifesta, è inevitabile la delusione perché l’altro non ha compiuto l’aspettativa. Il rapporto matrimoniale non può avere altro fondamento che la verità di ciascuno dei suoi protagonisti. È la stessa relazione amorosa che contribuisce in maniera particolare a scoprire la verità dell’io e del tu, e insieme con la verità dell’io e del tu si manifesta la natura della vocazione comune.

In effetti, «il mistero eterno del nostro essere» ci viene rivelato dalla relazione con la persona amata. Nulla ci risveglia, nulla ci rende tanto consapevoli del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto la persona amata. La sua presenza è un bene così grande che ci fa cogliere la profondità e la vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Ciò che il poeta Cesare Pavese dice del piacere si può applicare al rapporto amoroso: «Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito».2 Un io e un tu limitati suscitano l’uno nell’altro un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal loro amore verso un destino infinito. In questa
esperienza si rivela a entrambi la propria vocazione. Sentono la necessità l’uno dell’altro per non restare paralizzati nel proprio limite, senza altra prospettiva che la noia della solitudine.

Ma nello stesso momento in cui si rivelano a noi stessi le dimensioni senza limite del nostro desiderio, ci viene offerta una possibilità di compimento. Più ancora, intravedere nella persona amata la promessa del compimento accende in noi tutto il potenziale infinito del desiderio di felicità. Per questo non c’è nulla che ci faccia comprendere il mistero del nostro essere uomini meglio del rapporto fra un uomo e una donna, come ci ha ricordato Benedetto XVI nella Enciclica Deus caritas est: «l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente, […] all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, […] al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono».3
In questo rapporto l’uomo sembra incontrare la promessa che gli fa superare il proprio limite e gli permette di raggiungere una pienezza incomparabile.4 Per questo storicamente si è percepita una relazione fra l’amore e il divino: «l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere».5
È l’esperienza che testimonia il poeta italiano Giacomo Leopardi nel suo inno ad Aspasia:

«Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà».6

La bellezza della donna è percepita dal poeta come un “raggio divino”, come la presenza della divinità. Attraverso la sua bellezza, è Dio che bussa alla porta dell’uomo. Se l’uomo non comprende la natura di questa chiamata, e invece di assecondarla si ferma alla bellezza che vede davanti a sé, presto essa si manifesta incapace di compiere la sua promessa di felicità, di infinito.

«Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
la donna a torto».7

Vuol dire che la donna, con il suo limite, desta nell’uomo, anch’egli limitato, un desiderio di pienezza sproporzionato rispetto alla capacità che essa ha di rispondervi. Suscita una sete che non è in condizione di estinguere. Suscita una fame che non trova risposta in colei che l’ha destata. Da qui la rabbia, la violenza, che tante volte sorgono fra gli sposi, e la delusione nella quale vanno a cadere, se non comprendono la vera natura del loro rapporto.
La bellezza della donna è in realtà “raggio divino”, segno che rimanda oltre, ad altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto alla sua natura limitata.8 La sua bellezza grida davanti a noi: «Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?».9 Con queste parole il genio di C.S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, della quale il rapporto fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cade nell’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. Come se una donna che riceve un mazzo di fiori, rapita dalla loro bellezza, si dimenticasse del volto di chi glieli ha mandati, e del quale sono segno, perdendo il meglio che i fiori recavano. Non riconoscere all’altro il suo carattere di segno conduce inevitabilmente a ridurlo a ciò che appare ai nostri occhi. E prima o poi si manifesta incapace di rispondere al desiderio che ha suscitato.
Per questo, se ciascuno non incontra ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a liberarsi, e il loro desiderio di infinito, che nulla come la persona amata desta, è condannato a rimanere insoddisfatto. Di fronte a questa insoddisfazione, l’unica via d’uscita che oggi tanti vedono è cambiare la coppia, dando inizio a una spirale in cui il problema viene rinviato fino al momento della prossima delusione.
Il poeta tedesco Rainer Maria Rilke ha identificato con singolare efficacia il dramma del rapporto amoroso, intuendo che entrare in questa spirale non può essere l’unica via d’uscita: «Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno». Solo nell’orizzonte di un amore più grande si può evitare di consumarsi nella pretesa, carica di violenza, che l’altro, che è limitato, risponda al desiderio infinito che desta, rendendo così impossibile il compimento di sé e della persona amata. Per scoprirlo bisogna essere disposti ad assecondare la dinamica del segno, restando aperti alla sorpresa che questa possa riservarci. Leopardi ha avuto il coraggio di correre questo rischio. Con una intuizione penetrante del rapporto amoroso, il poeta italiano intravede che ciò che cercava nella bellezza delle donne di cui si innamorava era la Bellezza con la B maiuscola. Al vertice della sua intensità umana, l’inno Alla sua donna è un inno alla «cara beltà» che cerca in ogni bellezza; tutto il suo desiderio è che la Bellezza, l’idea eterna della Bellezza, assuma una forma sensibile.10 È ciò che è accaduto in Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo Luigi Giussani ha definito questa poesia come una profezia dell’Incarnazione.11
Questa è la pretesa di Gesù, che troviamo in alcuni testi che a prima vista possono risultarci paradossali. «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; […] Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 34-37; 39-40).

In questo testo Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà dell’uomo. Ponendo se stesso al cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera. In tal modo Gesù rivela la portata della promessa che la sua persona costituisce per quanti lo lasciano entrare. Non si tratta di una ingerenza di Gesù a livello dei sentimenti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo abbia potuto mai ricevere: senza amare Cristo, la Bellezza fatta carne, più della persona amata, quest’ultimo rapporto avvizzisce, perché è Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale l’un l’altro si rinviano e nella quale il loro rapporto si compie. Solo permettendogli di entrare in esso è possibile che il rapporto più bello che può accadere nella vita non si corrompa e con il tempo muoia. Tale è l’audacia della sua pretesa. In questo momento appare in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire un’esperienza del Cristianesimo come pienezza di vita per ogni uomo. Solo nell’orizzonte di questo rapporto più grande, come diceva Rilke, è possibile non consumarsi, perché ciascuno trova in esso il suo compimento umano, sorprendendo in sé una capacità di abbracciare l’altro nella sua diversità, di gratuità senza limiti, di perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura sarà difficile, se non impossibile, che essi la portino a compimento positivamente.
Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione di cui sono i protagonisti principali, limitandosi a pensare che l’appartenenza alla comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà.
In ciò si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro suscita costantemente in me, verso Cristo. Così si potrà non passare, come la Samaritana, di marito in marito (cfr. Gv 4, 18) senza riuscire a soddisfare la propria sete.

La coscienza della propria incapacità a risolvere da se stessa il proprio dramma, neppure cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile che non ha potuto evitare di gridare: «Signore, […] dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete». (Gv 4, 15).
Senza un’esperienza di Cristo come pienezza dell’uomo, l’ideale del Cristianesimo per il matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile a realizzarsi. L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. In realtà esse sono frutto di una tale intensità dell’esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la testimonianza che «per Dio nulla è impossibile». Solo un’esperienza così può mostrare la razionalità della fede cristiana, come totalmente corrispondente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto così costituisce la migliore proposta educativa per i figli, che attraverso la bellezza del rapporto fra i genitori sono introdotti, come per osmosi, nel significato dell’esistenza.
La loro ragione e la loro libertà sono costantemente sollecitate a non staccarsi da tale bellezza; la stessa bellezza risplendente nella testimonianza degli sposi cristiani che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare.

Valencia, 4-7 luglio 2006
Congresso teologico pastorale in occasione del V Incontro mondiale delle famiglie con Benedetto XVI

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