sabato 25 maggio 2013

Il Papa: chi si avvicina alla Chiesa trovi porte aperte e non controllori della fede

Quanti si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte e non dei controllori della fede: è quanto ha affermato il Papa stamani durante la Messa a Santa Marta. Ha concelebrato il cardinale Agostino Cacciavillan, presidente emerito dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Era presente un gruppo di sacerdoti. 


Il Vangelo del giorno ci parla di Gesù che rimprovera i discepoli che vogliono allontanare i bambini che la gente porta al Signore perché li benedica. “Gesù li abbraccia, li baciava, li toccava, tutti. Ma si stancava tanto Gesù e i discepoli” volevano impedirlo. E Gesù s’indigna: “Gesù si arrabbiava, alcune volte”. E dice: “Lasciate che vengano a me, non glielo impedite. A chi è come loro, infatti, appartiene il Regno di Dio”. “La fede del Popolo di Dio – osserva il Papa - è una fede semplice, è una fede forse senza tanta teologia, ma con una teologia dentro che non sbaglia, perché c’è lo Spirito dietro”. Il Papa cita il Concilio Vaticano I e il Vaticano II, laddove si dice che “il popolo santo di Dio … non può sbagliarsi nel credere” (Lumen Gentium). E per spiegare questa formulazione teologica aggiunge: “Se tu vuoi sapere chi è Maria vai dal teologo e ti spiegherà bene chi è Maria. Ma se tu vuoi sapere come si ama Maria vai dal Popolo di Dio che lo insegnerà meglio”. Il popolo di Dio – prosegue il Papa – “sempre si avvicina per chiedere qualcosa a Gesù: alcune volte è un po’ insistente in questo. Ma è l’insistenza di chi che crede”: 

“Ricordo una volta, uscendo nella città di Salta, la Festa patronale, c’era una signora umile che chiedeva a un prete la benedizione. Il sacerdote le diceva: ‘Bene, ma signora lei è stata alla Messa!’ e le ha spiegato tutta la teologia della benedizione nella Messa. Lo ha fatto bene ... ‘Ah, grazie padre; sì padre’, diceva la signora. Quando il prete se ne è andato, la signora si rivolge ad un altro prete: ‘Mi dia la benedizione!’. E tutte queste parole non sono entrate, perché lei aveva un’altra necessità: la necessità di essere toccata dal Signore. Quella è la fede che troviamo sempre e questa fede la suscita lo Spirito Santo. Noi dobbiamo facilitarla, farla crescere, aiutarla a crescere”. 

Il Papa cita poi l’episodio del cieco di Gerico, rimproverato dai discepoli perché gridava verso il Signore: “Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!”:

“Il Vangelo dice che volevano che non gridasse, volevano che non gridasse e lui gridava di più, perché? Perché aveva fede in Gesù! Lo Spirito Santo aveva messo la fede nel suo cuore. E loro dicevano: ‘No, non si può! Al Signore non si grida. Il protocollo non lo permette. E’ la seconda Persona della Trinità! Guarda cosa fai…’ come se dicessero quello, no?”.

E pensa all’atteggiamento di tanti cristiani: 

“Pensiamo ai cristiani buoni, con buona volontà; pensiamo al segretario della parrocchia, una segretaria della parrocchia… ‘Buonasera, buongiorno, noi due – fidanzato e fidanzata – vogliamo sposarci’. E invece di dire: ‘Ma che bello!’. Dicono: ‘Ah, benissimo, accomodatevi. Se voi volete la Messa, costa tanto…’. Questi, invece di ricevere una accoglienza buona – ‘E’ cosa buona sposarsi!’ – ricevono questo: ‘Avete il certificato di Battesimo, tutto a posto…’. E trovano una porta chiusa. Quando questo cristiano e questa cristiana ha la possibilità di aprire una porta, ringraziando Dio per questo fatto di un nuovo matrimonio… Siamo tante volte controllori della fede, invece di diventare facilitatori della fede della gente”. 

E’ una tentazione che c’è da sempre – spiega il Papa – che è quella “di impadronirci, di appropriarci un po’ del Signore”. E racconta un altro episodio: 

“Pensate a una ragazza madre, che va in chiesa, in parrocchia e al segretario: ‘Voglio battezzare il bambino’. E poi questo cristiano, questa cristiana le dice: ‘No, tu non puoi perché non sei sposata!’. Ma guardi, che questa ragazza che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza e non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa! Questo non è un buon zelo! Allontana dal Signore! Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento, noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale!”.

“Gesù si indigna quando vede queste cose” – sottolinea il Papa - perché chi soffre è “il suo popolo fedele, la gente che Lui ama tanto”: 

“Pensiamo oggi a Gesù, che sempre vuole che tutti ci avviciniamo a Lui; pensiamo al Santo Popolo di Dio, un popolo semplice, che vuole avvicinarsi a Gesù; e pensiamo a tanti cristiani di buona volontà che sbagliano e che invece di aprire una porta la chiudono … E chiediamo al Signore che tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte, trovino le porte aperte, aperte per incontrare questo amore di Gesù. Chiediamo questa grazia”.
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venerdì 24 maggio 2013

DON PUGLISI «Trasparente di Cristo»





Ucciso dalla mafia nel 1993 e dichiarato martire "in odium fidei", sarà beatificato il 25 maggio nella sua città. Il cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, racconta la testimonianza di un parroco che «è uscito e ha bussato ad ogni porta


Si è dovuto spostare il luogo della celebrazione al Foro Italico. Lo stadio Renzo Barbera con i suoi 36mila posti non sarebbe stato sufficiente a contenere tutti i fedeli che hanno chiesto di poter partecipare al rito di beatificazione di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia vent’anni fa, per aver testimoniato e annunciato il Vangelo fino al martirio. «Ha bussato a ogni porta», dice l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo.

Eminenza, il 25 maggio sarà una giornata importante per la Chiesa palermitana. 
È un evento importante sotto un duplice aspetto. Per la Chiesa palermitana è un appello alla responsabilità della testimonianza, ma per la Chiesa universale la figura di don Puglisi va vista e capita all’interno del contesto del rinnovamento post-conciliare. Don Pino ha vissuto gli anni del Concilio e in questo ha rinnovato il suo ministero. Ha saputo coniugare evangelizzazione e promozione umana. Cioè un Vangelo che non si traduce in servizio all’uomo non è vero Vangelo, ma il servizio all’uomo deve aprire agli orizzonti della fede. Ad incontrare Cristo. È quello che ha detto papa Francesco nella Cappella Sistina quando ha usato il verbo “confessare”. Se non confessiamo Cristo non possiamo essere Papa, vescovo, prete. La nostra vita deve essere trasparente di Cristo. Questo deve vedere la gente. Questo è stato don Puglisi. Ha dedicato tutta la sua vita alla predicazione, andando da tutti. Bussando a ogni porta.

Quello che ha sottolineato proprio papa Francesco: uscire e andare nelle periferie. 
E non solo geografiche, ma soprattutto umane. Per don Puglisi l’uomo che vive nelle periferie è colui che, non vivendo il Vangelo, ha una vita degradata e per questo genera degrado attorno a sé. È necessario formare le coscienze perché cambino i rapporti sociali ed è possibile solo annunciando la parola di Dio. E questo, mi preme sottolinearlo, lo ha fatto in tutti i suoi 33 anni di sacerdozio. Ovunque è stato. Da Godrano, piccolo paese dell’interno dilaniato da una faida tra famiglie dove è stato parroco per otto anni, fino a Brancaccio. Sempre la sua opera è stata quella di cambiare i cuori degli uomini annunciando Cristo.

A Brancaccio, quartiere degradato della periferia di Palermo, la sua opera di annuncio gli è costata la vita.
Quando arriva a Brancaccio, che lui conosce bene perché nato e vissuto lì vicino, trova solo la chiesa. Non c’è la casa per lui, non c’è un luogo dove poter accogliere i ragazzi che incontra in strada e sa che sono facili prede della mafia. Non c’è un posto per la catechesi con gli adulti, le famiglie le giovani coppie. Si mette subito all’opera. Vuole creare un posto dove la vita pastorale possa svolgersi.

Il centro di accoglienza Padre Nostro.
Sì. Ma l’accoglienza più che nelle mura è nelle persone. Don Pino è uno che ha accolto. Con il suo modo naturale di parlare alle persone, con il suo sorriso, con il suo modo di fare. Ecco la trasparenza di Cristo. Quando acquista l’edificio, dice: «Questo è un segno, la parrocchia deve accogliere, ai cristiani va dato un segno di speranza».

Quell’edificio era costato il doppio rispetto al valore. La mafia non voleva che lui lo acquistasse. Era già il primo segno di quell’odium fidei per cui è stato dichiarato martire.
La mafia ha talmente perduto il senso della fede, da odiare il cristianesimo, la sua è una religione pagana. L’azione ministeriale di don Pino è stata quella di incarnare la fede nel territorio perché solo così poteva avvenire la promozione umana. La sua azione si è improntata nel far vivere coerentemente il proprio Battesimo e quindi il rispetto dei doni che Dio ha dato a ciascuno. Il Vangelo dice: «Perdona», la mafia: «Ammazza». Nella Bibbia c’è scritto: «Non avrai altro Dio fuori di me». Per i boss, «il potere è dio». Un prete che annunciava questo poteva solo dare fastidio. Fino al punto di ucciderlo.

Il Papa ai vescovi italiani: camminate in mezzo al gregge, attenti a rialzare e a infondere speranza

Il Santo Padre Francesco dopo l’indirizzo di saluto del Cardiale Bagnasco, ha pronunciato le seguenti parole:Ringrazio Vostra Eminenza per questo saluto e complimenti anche per il lavoro di questa Assemblea. Grazie tante a tutti voi. Io sono sicuro che il lavoro è stato forte perché voi avete tanti compiti. Primo: la Chiesa in Italia – tutti - il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche, che è un compito vostro e non è facile. Anche il lavoro di fare forte le Conferenze regionali, perché siano la voce di tutte le regioni, tanto diverse; e questo è bello. Anche il lavoro, io so che c’è una Commissione per ridurre un po’ il numero delle diocesi tanto pesanti. Non è facile, ma c’è una Commissione per questo. Andate avanti con fratellanza, la Conferenza episcopale vada avanti con questo dialogo, come ho detto, con le istituzioni culturali, sociali, politiche. E’ cosa vostra. Avanti!

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cari Fratelli nell'Episcopato,
Le Letture bibliche che abbiamo sentito ci fanno riflettere. A me hanno fatto riflettere tanto. Ho fatto come una meditazione per noi Vescovi, prima per me, Vescovo come voi, e la condivido con voi.
è significativo - e ne sono particolarmente contento - che il nostro primo incontro avvenga proprio qui, sul luogo che custodisce non solo la tomba di Pietro, ma la memoria viva della sua testimonianza di fede, del suo servizio alla verità, del suo donarsi fino al martirio per il Vangelo e per la Chiesa.
Questa sera questo altare della Confessione diventa così il nostro lago di Tiberiade, sulle cui rive riascoltiamo lo stupendo dialogo tra Gesù e Pietro, con l’interrogativo indirizzato all’Apostolo, ma che deve risuonare anche nel nostro cuore di Vescovi.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?» (cfr Gv 21,15ss).
La domanda è rivolta a un uomo che, nonostante solenni dichiarazioni, si era lasciato prendere dalla paura e aveva rinnegato.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?».
La domanda è rivolta a me e a ciascuno di noi, a tutti noi: se evitiamo di rispondere in maniera troppo affrettata e superficiale, essa ci spinge a guardarci dentro, a rientrare in noi stessi.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?».
Colui che scruta i cuori (cfr Rm 8,27) si fa mendicante d'amore e ci interroga sull'unica questione veramente essenziale, premessa e condizione per pascere le sue pecore, i suoi agnelli, la sua Chiesa. Ogni ministero si fonda su questa intimità con il Signore; vivere di Lui è la misura del nostro servizio ecclesiale, che si esprime nella disponibilità all'obbedienza, all'abbassamento, come abbiamo sentito nella Lettera ai Flippesi, e alla donazione totale (cfr 2,6-11).
Del resto, la conseguenza dell'amare il Signore è dare tutto - proprio tutto, fino alla stessa vita - per Lui: questo è ciò che deve distinguere il nostro ministero pastorale; è la cartina di tornasole che dice con quale profondità abbiamo abbracciato il dono ricevuto rispondendo alla chiamata di Gesù e quanto ci siamo legati alle persone e alle comunità che ci sono state affidate. Non siamo espressione di una struttura o di una necessità organizzativa: anche con il servizio della nostra autorità siamo chiamati a essere segno della presenza e dell'azione del Signore risorto, a edificare, quindi, la comunità nella carità fraterna.
Non che questo sia scontato: anche l'amore più grande, infatti, quando non è continuamente alimentato, si affievolisce e si spegne. Non per nulla l'Apostolo Paolo ammonisce: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28).
La mancata vigilanza - lo sappiamo - rende tiepido il Pastore; lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell'organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’Apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda.
Chi siamo, Fratelli, davanti a Dio? Quali sono le nostre prove? Ne abbiamo tante; ognuno di noi sa le sue. Che cosa ci sta dicendo Dio attraverso di esse? Su che cosa ci stiamo appoggiando per superarle?
Come per Pietro, la domanda insistente e accorata di Gesù può lasciarci addolorati e maggiormente consapevoli della debolezza della nostra libertà, insidiata com'è da mille condizionamenti interni ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità.
Non sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare; piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell'amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento.
Gesù, buon Pastore, non umilia né abbandona al rimorso: in Lui parla la tenerezza del Padre, che consola e rilancia; fa passare dalla disgregazione della vergogna – perché davvero la vergogna ci disgrega - al tessuto della fiducia; ridona coraggio, riaffida responsabilità, consegna alla missione.
Pietro, che purificato al fuoco del perdono può dire umilmente «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Sono sicuro che tutti noi possiamo dirlo di cuore. E Pietro purificato,nella sua prima Lettera ci esorta a pascere «il gregge di Dio [...], sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri [...], non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a noi affidate, ma facendoci modelli del gregge» (1Pt 5,2-3).
Sì, essere Pastori significa credere ogni giorno nella grazia e nella forza che ci viene dal Signore, nonostante la nostra debolezza, e assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge, sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato la fede, sia da coloro che ancora «non sono di questo ovile» (Gv 10,16): siamo chiamati a far nostro il sogno di Dio, la cui casa non conosce esclusione di persone o di popoli, come annunciava profeticamente Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 2,2-5).
Per questo, essere Pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge: capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine. Fra questi, un posto particolare, ben particolare, riserviamolo ai nostri sacerdoti: soprattutto per loro, il nostro cuore, la nostra mano e la nostra porta restino aperte in ogni circostanza. Loro sono i primi fedeli che abbiamo noi Vescovi: i nostri sacerdoti. Amiamoli! Amiamoli di cuore! sono i nostri figli e i nostri fratelli!
Cari fratelli, la professione di fede che ora rinnoviamo insieme non è un atto formale, ma è rinnovare la nostra risposta al “Seguimi” con cui si conclude il Vangelo di Giovanni (21,19): porta a dispiegare la propria vita secondo il progetto di Dio, impegnando tutto di sé per il Signore Gesù. Da qui sgorga quel discernimento che conosce e si fa carico dei pensieri, delle attese e delle necessità degli uomini del nostro tempo.
Con questo spirito, ringrazio di cuore ciascuno di voi per il vostro servizio, per il vostro amore alla Chiesa.
E la Madre è qui! Vi pongo, e anche io mi pongo, sotto il manto di Maria, Nostra Signora.
Madre del silenzio, che custodisce il mistero di Dio,
liberaci dall'idolatria del presente, a cui si condanna chi dimentica.
Purifica gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria:
torneremo alla freschezza delle origini, per una Chiesa orante e penitente.
Madre della bellezza, che fiorisce dalla fedeltà al lavoro quotidiano,
destaci dal torpore della pigrizia, della meschinità e del disfattismo.
Rivesti i Pastori di quella compassione che unifica e integra: scopriremo la gioia di una Chiesa serva, umile e fraterna.
Madre della tenerezza, che avvolge di pazienza e di misericordia,
aiutaci a bruciare tristezze, impazienze e rigidità di chi non conosce appartenenza.
Intercedi presso tuo Figlio perché siano agili le nostre mani, i nostri piedi e i nostri cuori:
edificheremo la Chiesa con la verità nella carità.
Madre, saremo il Popolo di Dio, pellegrinante verso il Regno. Amen.

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La dismisura e i buoni avanzi.LO SPRECO DI CIBO NELLE NOSTRE CASE

 È in corso un dibattito sullo spreco di cibo nelle nostre case. Grande tema. Ma non riguarda solo le case, le tavole, i pranzi, le cene. Riguarda la nostra vita, l’educazione che abbiamo ricevuto, l’educazione che impartiamo ai nostri figli, ai nostri studenti, ai nostri lettori, a tutti. Adesso c’è la crisi, e la crisi ci obbliga a rifare i conti delle nostre spese, dobbiamo ridurre il superfluo, e molti purtroppo devono ridurre il necessario. È a loro che prima di tutto dovremmo pensare. Mi capita di citare spesso, perché mi piace molto, il modo in cui un grande sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, traduceva il detto evangelico quod superest, date pauperibus :la nostra tradizione ce lo faceva tradurre con «quel che avanza, datelo ai poveri», e cioè: «mangiate per primi, quando avrete finito, quel che resta regalatelo ai poveri». L’antico predecessore di Matteo Renzi si fermava su quel quod superest , e diceva che non significa «ciò che è in più, che avanza», ma «ciò che sta sopra», sopra la tavola: preparate da mangiare, e cedete il posto ad altri, voi mangerete per ultimi.
  Mangiare ci piace. Non mangiamo per stare in vita, lavorare, studiare, non mangiamo per vivere: il mangiare non è un mezzo, ma un fine. Non prendiamo medicine per stare bene, ma per stare meglio. Non viaggiamo per conoscere, ma per vedere. Non leggiamo per imparare, ma per divertirci. Non usiamo l’acqua che ci serve, ma 4-5 volte di più. Non compriamo l’auto che ci serve di più, ma quella che ci fa fare più bella figura. Il limite massimo di velocità è 130 sulle autostrade, ma produciamo auto che vanno a 250, e formano un settore che tira. Pensiamo: «I nostri figli mangiano come i figli di Elisabetta», regina d’Inghilterra, e non è vero, perché mangiano meglio. Illustri personaggi che sono stati a tavola con la regina dicono che si mangia male, i piatti vengono cotti a molta distanza, attraversano lunghi corridoi per venire nella sala da pranzo, e quando arrivano sono tiepidini o freddi. In casa nel frigo o nel freezer teniamo cibi che stan lì finché scadono, e allora ci poniamo il problema: buttarli via?
  Qualcuno definisce il frigo «la discarica domestica». Se apriamo l’armadietto delle medicine, vi troviamo farmaci scaduti da anni. Quando stavamo male, ne abbiamo comprato il doppio o il triplo del necessario, poi li abbiamo tenuti lì, come rimedio già pronto per un malanno che poteva tornare. Vorremmo cacciar via tutti i problemi di salute che abbiamo e quelli che ancora non abbiamo. Adesso, con la crisi, riprendiamo a notare la povertà, che per decenni non vedevamo. Notiamo le visite notturne ai cassonetti, anche dei nostri vicini. Non lo sospettavamo. Ci spaventa. Ma quando vedevamo gli indiani, in India, camminare lungo le strade con le costole sporgenti come una fisarmonica, vedevamo la bellezza, la Storia, lo Spirito, e non la miseria. Abbiamo la biblioteca piena dei libri di viaggiatori europei e italiani, che tornando dall’India scrivevano nel diario: «Ho visto gli dèi». Da qualche parte ho risposto che reagiscono come un formichiere che veda un nido di formiche: cibo per la sua golosità. Così l’India per le nostre Nikon o Canon e i nostri iPhone. Siamo ingordi. L’ingordigia è una nevrosi. L’ingordigia ingrassa. In questi mesi i grassi cercano di rimettersi in linea, perché arriva l’estate e andranno al mare. Se ingrassare è frutto di una nevrosi, come si fa a dimagrire? Guardate le persone che ci riescono: oppongono nevrosi a nevrosi, combattono la nevrosi del 'mangio tutto' con la nevrosi del 'non tocco cibo'. Dismisura contro dismisura.
  Dobbiamo comprare il giusto, e il giusto è quello che consumiamo in tempo. Ma non è che un cibo scaduto da un giorno ci uccide: cento sindaci di tutta Italia si son trovati insieme l’altro ieri nella mia città, Padova, per un «banchetto degli avanzi»: han mangiato tutto, e stanno benissimo
.   FERDINANDO CAMON 

giovedì 23 maggio 2013

Il Papa: senza il sale di Gesù siamo insipidi, diventiamo cristiani da museo.

I cristiani diffondano il sale della fede, della speranza e della carità: è questa l'esortazione di Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che l’originalità cristiana “non è una uniformità” e ha messo in guardia dal rischio di diventare insipidi, “cristiani da museo”. Alla Messa - concelebrata con i cardinali Angelo Sodano e Leonardo Sandri e con l’arcivescovo di La Paz, Edmundo Abastoflor Montero - hanno preso parte un gruppo di sacerdoti e collaboratori laici della Congregazione per le Chiese Orientali.

Che cos’è il sale nella vita di un cristiano, quale sale ci ha donato Gesù? Nella sua omelia, Papa Francesco si è soffermato sul sapore che i cristiani sono chiamati a dare alla propria vita e a quella degli altri. Il sale che ci dà il Signore, ha osservato, è il sale della fede, della speranza e della carità. Ma, ha avvertito, dobbiamo stare attenti che questo sale, che ci è dato dalla certezza che Gesù è morto e risorto per salvarci, “non divenga insipido, che non perda la sua forza”. Questo sale, ha proseguito, “non è per conservarlo, perché se il sale si conserva in una bottiglietta non fa niente, non serve”:

“Il sale ha senso quando si dà per insaporire le cose. Anche penso che il sale conservato nella bottiglietta, con l’umidità, perde forza e non serve. Il sale che noi abbiamo ricevuto è per darlo, è per insaporire, è per offrirlo. Al contrario diventa insipido e non serve. Dobbiamo chiedere al Signore di non diventare cristiani col sale insipido, col sale chiuso nella bottiglietta. Ma il sale ha anche un’altra particolarità: quando il sale si usa bene, non si sente il gusto del sale, il sapore del sale… Non si sente! Si sente il sapore di ogni pasto: il sale aiuta che il sapore di quel pasto sia più buono, sia più conservato ma più buono, più saporito. Questa è la originalità cristiana!”.

E ha aggiunto che “quando noi annunziamo la fede, con questo sale”, quelli che “ricevono l’annunzio, lo ricevono secondo la propria peculiarità, come per i pasti”. E così “ciascuno con la propria peculiarità riceve il sale e diventa più buono”:

“La originalità cristiana non è una uniformità! Prende ciascuno come è, con la sua personalità, con le sue caratteristiche, con la sua cultura e lo lascia con quello, perché è una ricchezza. Ma gli dà qualcosa di più: gli dà il sapore! Questa originalità cristiana è tanto bella, perché quando noi vogliamo fare una uniformità - tutti siano salati allo stesso modo - le cose saranno come quando la donna butta troppo sale e si sente soltanto il gusto del sale e non il gusto di quel pasto saporito con il sale. L’originalità cristiana è proprio questo: ciascuno è come è, con i doni che il Signore gli ha dato”.
Questo, ha proseguito il Papa, “è il sale che dobbiamo dare”. Un sale che “non è per conservarlo, è per darlo”. E questo, ha detto, “significa un po’ di trascendenza”: “uscire col messaggio, uscire con questa ricchezza che noi abbiamo del sale e darlo agli altri”. D’altro canto, ha sottolineato, ci sono due “uscite” affinché questo sale non si rovini. Primo: dare il sale “al servizio dei pasti, al servizio degli altri, al servizio delle persone”. Secondo: la “trascendenza verso l’autore del sale, il creatore”. Il sale, ha ribadito, “non si conserva soltanto dandolo nella predicazione” ma “ha bisogno anche dell’altra trascendenza, della preghiera, della adorazione”:

“E così il sale si conserva, non perde il suo sapore. Con l’adorazione del Signore io trascendo da me stesso al Signore e con l’annunzio evangelico io vado fuori da me stesso per dare il messaggio. Ma se noi non facciamo questo - queste due cose, queste due trascendenze per dare il sale - il sale rimarrà nella bottiglietta e noi diventeremo cristiani da museo. Possiamo far vedere il sale: questo è il mio sale. Ma che bello che è! Questo è il sale che ho ricevuto nel Battesimo, questo è quello che ho ricevuto nella Cresima, questo è quello che ho ricevuto nella catechesi… Ma guardate: cristiani da museo! Un sale senza sapore, un sale che non fa niente!”.
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mercoledì 22 maggio 2013

Il Papa: lo Spirito dà il coraggio di annunciare il Vangelo "a voce alta"




UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 22 maggio 2013
[Video]  

    
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Nel Credo, subito dopo aver professato la fede nello Spirito Santo, diciamo: «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». C’è un profondo legame tra queste due realtà di fede: è lo Spirito Santo, infatti, che dà vita alla Chiesa, guida i suoi passi. Senza la presenza e l’azione incessante dello Spirito Santo, la Chiesa non potrebbe vivere e non potrebbe realizzare il compito che Gesù risorto le ha affidato di andare e fare discepoli tutti i popoli (cfr Mt 28,18). Evangelizzare è la missione della Chiesa, non solo di alcuni, ma la mia, la tua, la nostra missione. L’Apostolo Paolo esclamava: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Ognuno deve essere evangelizzatore, soprattutto con la vita! Paolo VI sottolineava che «evangelizzare… è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14).
Chi è il vero motore dell’evangelizzazione nella nostra vita e nella Chiesa? Paolo VI scriveva con chiarezza: «È lui, lo Spirito Santo che, oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da Lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché sia aperto ad accogliere la Buona Novella e il Regno annunziato» (ibid., 75). Per evangelizzare, allora, è necessario ancora una volta aprirsi all'orizzonte dello Spirito di Dio, senza avere timore di che cosa ci chieda e dove ci guidi. Affidiamoci a Lui! Lui ci renderà capaci di vivere e testimoniare la nostra fede, e illuminerà il cuore di chi incontriamo. Questa è stata l’esperienza di Pentecoste: agli Apostoli, riuniti con Maria nel Cenacolo, «apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4). Lo Spirito Santo, scendendo sugli Apostoli, li fa uscire dalla stanza in cui erano chiusi per timore, li fa uscire da se stessi, e li trasforma in annunciatori e testimoni delle «grandi opere di Dio» (v. 11). E questa trasformazione operata dallo Spirito Santo si riflette sulla folla accorsa sul luogo e proveniente «da ogni nazione che è sotto il cielo» (v. 5), perché ciascuno ascolta le parole degli Apostoli come se fossero pronunciate nella propria lingua (v. 6).
Qui c’è un primo effetto importante dell’azione dello Spirito Santo che guida e anima l’annuncio del Vangelo: l’unità, la comunione. A Babele, secondo il racconto biblico, era iniziata la dispersione dei popoli e la confusione delle lingue, frutto del gesto di superbia e di orgoglio dell’uomo che voleva costruire, con le sole proprie forze, senza Dio, «una città e una torre la cui cima tocchi il cielo» (Gen11,4). A Pentecoste queste divisioni sono superate. Non c’è più l’orgoglio verso Dio, né la chiusura degli uni verso gli altri, ma c’è l’apertura a Dio, c’è l’uscire per annunciare la sua Parola: una lingua nuova, quella dell’amore che lo Spirito Santo riversa nei cuori (cfr Rm 5,5); una lingua che tutti possono comprendere e che, accolta, può essere espressa in ogni esistenza e in ogni cultura. La lingua dello Spirito, la lingua del Vangelo è la lingua della comunione, che invita a superare chiusure e indifferenza, divisioni e contrapposizioni. Dovremmo chiederci tutti: come mi lascio guidare dallo Spirito Santo in modo che la mia vita e la mia testimonianza di fede sia di unità e di comunione? Porto la parola di riconciliazione e di amore che è il Vangelo negli ambienti in cui vivo? A volte sembra che si ripeta oggi quello che è accaduto a Babele: divisioni, incapacità di comprendersi, rivalità, invidie, egoismo. Io che cosa faccio con la mia vita? Faccio unità attorno a me? O divido, con le chiacchiere, le critiche, le invidie? Che cosa faccio? Pensiamo a questo.  Portare il Vangelo è annunciare e vivere noi per primi la riconciliazione, il perdono, la pace, l’unità e l’amore che lo Spirito Santo ci dona. Ricordiamo le parole di Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Un secondo elemento: il giorno di Pentecoste, Pietro, colmo di Spirito Santo, si alza in piedi «con gli undici» e «a voce alta» (At 2,14) e «con franchezza» (v. 29) annuncia la buona notizia di Gesù, che ha dato la sua vita per la nostra salvezza e che Dio ha risuscitato dai morti. Ecco un altro effetto dell’azione dello Spirito Santo: il coraggio, di annunciare la novità del Vangelo di Gesù a tutti, con franchezza (parresia), a voce alta, in ogni tempo e in ogni luogo. E questo avviene anche oggi per la Chiesa e per ognuno di noi: dal fuoco della Pentecoste, dall’azione dello Spirito Santo, si sprigionano sempre nuove energie di missione, nuove vie in cui annunciare il messaggio di salvezza, nuovo coraggio per evangelizzare. Non chiudiamoci mai a questa azione! Viviamo con umiltà e coraggio il Vangelo! Testimoniamo la novità, la speranza, la gioia che il Signore porta nella vita. Sentiamo in noi «la dolce e confortante gioia di evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Perché evangelizzare, annunciare Gesù, ci dà gioia; invece, l'egoismo ci dà amarezza, tristezza, ci porta giù; evangelizzare ci porta su.
Accenno solamente ad un terzo elemento, che però è particolarmente importante: una nuova evangelizzazione, una Chiesa che evangelizza deve partire sempre dalla preghiera, dal chiedere, come gli Apostoli nel Cenacolo, il fuoco dello Spirito Santo. Solo il rapporto fedele e intenso con Dio permette di uscire dalle proprie chiusure e annunciare con parresia il Vangelo. Senza la preghiera il nostro agire diventa vuoto e il nostro annunciare non ha anima, e non è animato dallo Spirito.
Cari amici, come ha affermato Benedetto XVI, oggi la Chiesa «sente soprattutto il vento dello Spirito Santo che ci aiuta, ci mostra la strada giusta; e così, con nuovo entusiasmo, siamo in cammino e ringraziamo il Signore» (Parole all’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 27 ottobre 2012). Rinnoviamo ogni giorno la fiducia nell’azione dello Spirito Santo, la fiducia che Lui agisce in noi, Lui è dentro di noi, ci dà il fervore apostolico, ci dà la pace, ci dà la gioia. Lasciamoci guidare da Lui, siamo uomini e donne di preghiera, che testimoniano con coraggio il Vangelo, diventando nel nostro mondo strumenti dell’unità e della comunione con Dio. Grazie.

martedì 21 maggio 2013

Il Papa: nella Chiesa l'unica strada per andare avanti è il servizio non il potere

Per un cristiano, progredire significa abbassarsi come ha fatto Gesù. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha inoltre ribadito che il vero potere è il servizio e che non deve esistere la lotta per il potere nella Chiesa. Alla Messa - concelebrata dal direttore dei programmi della Radio Vaticana, padre Andrzej Koprowski - hanno preso parte un gruppo di dipendenti della nostra emittente e un gruppo di dipendenti dell’Ufficio pellegrini e turisti del Governatorato vaticano. Erano inoltre presenti il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, e Maria Voce e Giancarlo Faletti, presidente e vicepresidente del Movimento dei Focolari.

Gesù parla della sua Passione e i discepoli, invece, sono presi a discutere su chi sia il più grande tra loro. E’ l’amaro episodio narrato dal Vangelo odierno, che offre a Papa Francesco lo spunto per una meditazione sul potere e il servizio. “La lotta per il potere nella Chiesa – ha osservato – non è cosa di questi giorni”, è “cominciata là proprio con Gesù”. E ha sottolineato che “nella chiave evangelica di Gesù, la lotta per il potere nella Chiesa non deve esistere”, perché il vero potere, quello che il Signore “con il suo esempio ci ha insegnato”, è “il potere del servizio”:

“Il vero potere è il servizio. Come lo ha fatto Lui, che è venuto non a farsi servire, ma a servire, e il suo servizio è stato proprio un servizio della Croce. Lui si è abbassato fino alla morte, alla morte di Croce, per noi, per servire noi, per salvare noi. E non c’è nella Chiesa nessun’altra strada per andare avanti. Per il cristiano, andare avanti, progredire significa abbassarsi. Se noi non impariamo questa regola cristiana, mai, mai potremo capire il vero messaggio di Gesù sul potere”.

Progredire, ha aggiunto, "significa abbassarsi", “essere al servizio sempre”. E nella Chiesa, ha soggiunto, “il più grande è quello che più serve, che più è al servizio degli altri”. Questa “è la regola”. E tuttavia, ha affermato Papa Francesco, dalle origini fino ad adesso ci sono state “lotte di potere nella Chiesa”, anche “nella nostra maniera di parlare”:

“Quando a una persona danno una carica che secondo gli occhi del mondo è una carica superiore, si dice: ‘Ah, questa donna è stata promossa a presidente di quell’associazione e questo uomo è stato promosso …’. Questo verbo, promuovere: sì, è un verbo bello, si deve usare nella Chiesa. Sì: questo è stato promosso alla Croce, questo è stato promossoalla umiliazione. Quella è la vera promozione, quella che ci ‘assomiglia meglio’ a Gesù!”

Il Papa ha dunque ricordato che Sant’Ignazio di Loyola, negli Esercizi spirituali, chiedeva al Signore Crocifisso “la grazia delle umiliazioni”. Questo, ha riaffermato, è “il vero potere del servizio della Chiesa”. Questa è la vera strada di Gesù, la vera promozione e non quelle mondane:

“La strada del Signore è il Suo servizio: come Lui ha fatto il Suo servizio, noi dobbiamo andare dietro a Lui, il cammino del servizio. Quello è il vero potere nella Chiesa. Io vorrei oggi pregare per tutti noi, perché il Signore ci dia la grazia di capire quello: che il vero potere nella Chiesa è il servizio. E anche per capire quella regola d’oro che Lui ci ha insegnato con il Suo esempio: per un cristiano, progredire, andare avanti significa abbassarsi, abbassarsi. Chiediamo questa grazia”.

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