Nel nostro Paese, per motivi mai sin mai del tutto chiariti, la storia dei tentativi di riforma del mercato del lavoro è macchiata di sangue.
In tempi diversi e situazioni politiche tra loro differenti tre esperti che avevano preparato o stavano preparando riforme in questo campo furono vittime di attentati terroristici: Ezio Tarantelli nel 1985, Massimo D’Antona nel 1999 e Marco Biagi nel 2002. E perciò stesso non si può escludere che altri loro colleghi abbiano salvato la vita rinunciando silenziosamente ad incarichi e uscendo da campi di ricerca rivelatisi ad alto rischio. Per parte nostra non sappiamo dire perché su un ambito che è certamente importante, ma non meno “strategico” di molti altri, si sia concentrata l’attenzione sanguinaria del terrorismo. Un fatto però non si può negare e nemmeno trascurare solo perché non se ne comprende la causa. Dunque occorre tenerne conto.
In questo così cupo orizzonte, il disegno di legge-delega noto col nome d’arte di “jobs act”, che lo scorso 8 ottobre ha avuto il voto favorevole del Senato, è innanzitutto un gesto di coraggio e un’abile iniziativa: di ciò si deve comunque rendere merito al governo Renzi. E’ un gesto di coraggio per le ragioni più sopra ricordate, ma è anche un’abile iniziativa. Giustamente Marco Ferraresi ha rilevato la genericità del suo contenuto, che in pratica rinvia ai decreti attuativi ogni elemento di sostanza. Tanto però è bastato perché a Roma in una manifestazione sindacale di grande peso simbolico si giocasse la carta dello scontro con la polizia come da anni non accadeva più. Mi domando pertanto se, tenuto conto della scia di sangue di cui si diceva, Renzi non abbia così anche voluto aprire ed allargare subito il dibattito in modo da renderlo meno rischioso per gli esperti che vi partecipano. A mio avviso più che continuare poi a rimestare nel calderone della prassi amministrativa e del diritto italiani, la cui bassa qualità è evidente, varrebbe piuttosto la pena di studiarsi bene le analoghe esperienze di paesi a noi vicini con una legislazione sul lavoro ben migliore della nostra; e partire da lì.
Sin qui il lato socio-politico della questione. C’è però un altro lato, che in fin dei conti è quello fondamentale: si tratta del significato del lavoro e del suo spazio nell’esperienza umana (qualcosa che quindi va ben oltre lo specifico caso italiano, pur se lo comprende). E’ una questione nient’affatto filosofica nel senso banale della parola se è vero come è vero che l’economia non si sta riprendendo pur in presenza di condizioni di base che in altre situazioni storiche bastarono a mettere in moto grandi processi di sviluppo. Prima di essere economica l’attuale crisi internazionale è antropologica. Perciò né i governi né gli economisti bastano da soli ad aiutarci a venirne fuori. Occorre una riflessione ben più ampia, che potrebbe positivamente partire dall’enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II (1981) per poi raggiungere molto altro magistero successivo sia dello stesso Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI. A parte ogni altra considerazione, non esiste oggi al mondo un altro centro di elaborazione di pensiero e di esperienze che abbia l’orizzonte effettivamente planetario e la memoria storica bimillenaria che sono propri della Santa Sede. Pertanto, anche per chi non ne condivida la visione del mondo, prendere le mosse dai documenti prodotti dai Papi, dalla Santa Sede è semplicemente una questione di buon senso. Poi si può giungere anche a giudizi e conclusioni diverse, ma almeno si è cominciato a lavorare sulle orme di gente che guarda davvero al mondo a tutto campo. E senza avere armi da vendere o petrolio da comprare. Robi Ronza
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