sabato 29 novembre 2014

L'Avvento sta tutto in questo quadro di Bosch di Maria Gloria Riva


Giovanni Battista nella tesa di Hieronymus Bosch
Nel tempo di Avvento la figura del Battista appare sulla scena gridando l’urgenza di preparare una via. Egli grida dal deserto, secondo l’oracolo di Isaia, ma grida anche nel deserto, secondo una possibile traduzione del testo evangelico. E forse questa seconda versione ben si addice ai tempi nostri dove la vita religiosa (e il monachesimo in particolare di cui il Battista è simbolo e patrono) grida nel deserto di un mondo che del Messia non sa che farsene.
In questo Avvento, che segna l’inizio di un anno dedicato alla vitaconsacrata, mi piace rievocare una tela di Hieronymus Bosch. Una tela che ci offre un Battista del tutto diverso dall’iconografia tradizionale. Non l’ascetico consumatore di locuste che veste pelo di cammello, ma il filosofo “in carne”, mollemente adagiato sul terreno mentre declina le virtù di un agnello che sta davanti a lui. 
Il paesaggio è paradisiaco eppure la minaccia incombe. L’elementoche nasconde parzialmente il profeta è una pianta. La radiografia del dipinto ha dimostrato che qui Bosch aveva inizialmente collocato il donatore, in ginocchio profondamente devoto al suo patrono. Non sappiamo il perché di questo repentino cambio d’idea, sappiamo però che la sostituzione non fu casuale. Bosch, nella sua bravura e nel suo nutrito repertorio, avrebbe potuto scegliere una infinita gamma di piante e invece no: egli sceglie proprio una pianta carnivora.
Nell’immaginario dell’artista la pianta carnivora è simbolo di quelle passioni umane voraci edevastatrici che corrompono fede e costumi. Possiamo a ben ragione vedere in essa la nostra attuale società dove il deserto culturale appare come la conseguenza normale di una vita spesa gozzovigliando e divorando tutto il divorabile. È strano, però, come un uomo del XV secolo, qual è Bosch, abbia opposto a questa voracità epicurea non un modello ascetico, ma un modello filosofico. Il motivo si trova nascosto nella committenza dell’opera che, sia pure incerta, pare essere riferita alla Confraternita di Nostra Signora, una corporazione che si occupava della difesa della vera fede contro le sette emergenti, specie quelle di stampo esoterico. Così sorprende la modernità dell’invito che scaturisce dall’opera di Bosch: di fronte a una cultura dominata dall’egoismo e dal culto del corpo, occorre un’altra cultura, dominata piuttosto dalla passione per la storia letta alla luce della verità della fede e della verità cristiana.
La pianta carnivora sembra inghiottire tutto persino la roccia sulla quale si appoggia il Battista,eppure nella sua ingordigia non s’avvede che dietro la roccia c’è un Agnello accovacciato, come in attesa della sua ora, e che il frutto della pianta sta per essere divorato da un picchio dalle sfumature verdi. Il picchio, come molti altri animali, ha un duplice valore simbolico di male e di bene. Nel male il picchio è segno dell’eresia che svuota i contenuti della fede con insistenza, ma nel bene, e specie quando ha sfumature verdi, simbolo di rinascita, il volatile è segno di Cristo stesso che ricerca pazientemente la presenza del Maligno per sradicarla. 
L’agnello che sta dietro la roccia è segno, invece, della mitezza che vince sulla forza. Se la pietra che sta per essere divorata è la Chiesa e, nello specifico, la roccia di Pietro, cioè il Papato, Bosch avverte con discrezione che essa è fondata non sul volere di uomini, ma sul volere di Dio e sulla carta vincente del sacrificio.
L’agnello sacrificale indica, infatti che proprio mentre l’uccisore esulta per il raggiungimento della preda, si celebra la vittoria finale. Proprio nel momento della crocifissione e perciò stesso della sconfitta, Cristo celebra la vittoria sul male e sulla morte. Per questo mentre la pianta carnivora è nel suo massimo rigoglio un picchio, la verità di Cristo difesa dal Battista, la divora. Che la vita religiosa possa in questo anno ritrovare il suo vigore missionario, che possa ritrovare la sua forza di attrazione proprio nella difesa della verità della fede e nella diffusione di una cultura capace di minare dall’interno le moderne filosofie anticattoliche e antiumane.

Con nel cuore una "santa tristezza"

 A Kampala 350 persone attendevano don Carrón per la Giornata d'inizio anno. Ma l'emergenza Ebola ha cambiato le carte in tavola. Eppure per Manolita e Sara, l'evento mancato è stato l'opportunità per capire Chi fa nuove tutte le cose.

«La preferenza di Dio è il metodo. L’ho scoperto una volta, quando don Giussani mi disse che se anche io fossi l’unico essere umano nell’universo, Dio sarebbe venuto solo per me, perché il mio nulla non andasse perduto». Rose, la responsabile del movimento in Uganda, è visibilmente commossa quando pronuncia queste parole durante l’introduzione alla Giornata di inizio d’anno a Kampala, il 19 ottobre scorso. Sono presenti circa 350 persone che ascoltano attentamente. Alcuni di loro hanno nel cuore una “santa tristezza” come direbbe Dostoevskij, perché accanto a Rose avrebbero voluto vedere don Carrón, che aveva programmato una visita a Kampala proprio per quel giorno. Invece hanno dovuto accontentarsi del video in inglese trasmesso dall’Italia. In effetti, secondo i programmi stabiliti, dopo aver trascorso due giorni a Nairobi con 100 responsabili del movimento di Comunione e Liberazione in Africa, avrebbe dovuto tenere la Giornata di inizio d’anno a Kampala; ma l’emergenza Ebola ci ha obbligato a cambiare tutti i piani da un momento all’altro, e Carrón è stato costretto a cancellare il viaggio.

Ma il Mistero ha in tasca una sorpresa per tutti noi. E sebbene l’assenza di Carrón possa apparire agli occhi di molti come un evento mancato, per alcuni di noi è stata una possibilità di riscoprire l’Evento con la “E” maiuscola. È stata l’occasione per guardare al significato reale delle nostre aspettative, perché, come dice Carrón, «Dio non ci ha abbandonato».

Manolita, un’italiana che vive in Uganda con il marito e i cinque figli, l’ha scoperto nella propria esperienza
. La loro è una famiglia che deve affrontare i normali problemi della vita in comune, e in cui il marito ha appena cambiato lavoro per avviare un’attività in proprio. Ciò li ha posti di fronte a molte sfide, e ora devono stare particolarmente attenti a come spendono i soldi. Quando è stata invitata a partecipare all’Assemblea dei Responsabili in Africa (ARA), era molto riconoscente. Ma questo invito implicava anche delle spese impreviste. Tutto questo non era un’obiezione per lei e suo marito; avrebbero fatto un sacrificio pur di non perdere questa grande opportunità. Ma qualche giorno più tardi si è trovata ad affrontare altre spese impreviste, non era tranquilla. Un amico, leggendo chiaramente sul suo volto tutte queste preoccupazioni, le ricorda le parole di Carrón alla Giornata di inizio: «Il reale è fatto di circostanze attraverso cui il Mistero ci chiama, ci risveglia, ci viene incontro affinché noi non veniamo mai meno, non soccombiamo al nulla». Questa provocazione l’ha costretta a fare un passo: «Io sono ora perché Uno mi chiama a essere ora, Uno mi ama e tutto è per me». La fatica di allevare i figli, il rapporto col marito non sono eliminati; le sfide a gestire coscienziosamente le finanze domestiche, alla creatività sul lavoro, tutto questo non scompare, ma diventa una opportunità per conoscere Colui che la ama. E la vita incomincia a diventare gustosa.

Quando, alcuni giorni prima di lasciare Kampala per andare all’ARA, l’hanno informata che il gesto era stato cancellato, lei e suo marito hanno deciso di devolvere al fondo comune della Comunità l’importo che avrebbero speso per il soggiorno a Nairobi: «Questa decisione è dettata semplicemente dalla gratitudine verso il movimento, dal quale ci sentiamo aiutati a guardare in modo diverso tutti i singoli aspetti della nostra vita, il nostro lavoro, il modo in cui usiamo il denaro, il rapporto con gli amici e con i nostri figli. Con la mia figlia maggiore, per esempio, sto imparando a non lasciarmi definire dal suo “rifiuto”. Non ho fretta che lei cambi, ma mi ritrovo a fiduciosa a scommettere sul suo cuore, senza applicare a lei la mia idea di perfezione. E proprio per questo lei sta diventando una vera grazia per me».

Come Carrón diceva nel suo saluto alla comunità dell’Uganda, citando una canzone del cantautore italiano Giorgio Gaber: «Chiunque può comprendere che un frammento di realtà, per quanto piccolo sia, può cambiare la vita. Perché ogni frammento della realtà è il segno che esiste Qualcuno che sta facendo questo piccolo, minuscolo pezzo».

Tutto questo era verissimo anche per Sara, una donna italiana che vive in Uganda con la sua famiglia dal 2008. Quando suo marito Francesco era stato invitato a Nairobi per conoscere don Carrón, nel suo cuore aveva sentito crescere uno strano disagio: lui era quello fortunato, mentre a lei restavano solo poche briciole da raccogliere. Questo malessere le pesava nel cuore. Mentre stava stirando la biancheria dei suoi bambini o stava dietro alla sua scrivania in ufficio, si sentiva come se fosse al posto sbagliato e nel momento sbagliato. Un giorno, mentre stava riordinando il salotto, il suo cuore ha incominciato a ribellarsi a questa sensazione. Allora si è messa a leggere il testo della Giornata di inizio, già disponibile sulla rivista Traces, e il suo cuore ha avuto un sobbalzo leggendo la testimonianza del medico con la figlia nata con la sindrome di Down: «La differenza sta nel gusto, che viene dalla coscienza che il Signore mi chiama qui e non dove pensavo io». Era triste perché era cieca: non vedeva la bellezza della circostanza in cui era chiamata a vivere. «La Ragione per cui io vivo non se ne va via con Francesco. È qui con me, proprio ora!». Questo giudizio è stata una vera liberazione per lei. Questa scoperta è stata il volano grazie al quale è andata con curiosità alla Giornata di inizio. Che sorpresa svegliarsi il giorno seguente e andare in ufficio con nel cuore il giudizio sentito il giorno precedente: «Non sono quando non ci sei». Sara si rende conto che ogni cosa è diventata preziosa, il suo lavoro, il suo ufficio, i colleghi, persino John, l’addetto alle pulizie dell’ufficio, che fa il suo lavoro con gioia.

Esperienza è la parola con cui Carrón ha ridestato il cuore di tutti noi. Tutti i nostri progetti non sono nulla paragonati all’esperienza di sorpresa che il Mistero ci dona incessantemente. Quello che apparentemente poteva sembrare un evento mancato, si è dimostrato una opportunità fondamentale per capire la preferenza del Mistero che fa nuove tutte le cose, e lo fa meglio di noi, ci ricrea di nuovo. Questa è una delle grandi sorprese che si scoprono nel rapporto con Lui ed è la fonte di un’illogica allegria.

Istanbul. Papa alla Messa: Spirito supera le divisioni e fa l'unità


La celebrazione di carattere inter-rituale di oggi pomeriggio nella cattedrale dello Spirito Santo a Istanbul ha aperto la pagina cristiana del viaggio di Francesco in Turchia. In chiesa, ad assistere alla Messa, i fedeli della piccola comunità cattolica turca e i rappresentanti delle Chiese cristiane. Tra loro, il Patriarca ortodosso ecumenico Bartolomeo I, con il quale il Papa nel tardo pomeriggio, dopo la preghiera ecumenica al “Phanar”, si ritroverà per un incontro privato. Ai presenti alla celebrazione, il Papa ha chiesto di difendere la ricchezza dell’unità. 
I credenti  vivano nella pienezza dell’unità. E’ il popolo dei cattolici di Turchia quello che accoglie il messaggio dell’omelia di Francesco in cattedrale dello Spirito Santo a Istanbul. Ci sono i fedeli dei quattro riti e a loro il Papa spiega la ricchezza donata dai differenti carismi, suscitati dallo Spirito Santo, anima della Chiesa che soprattutto “crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il corpo di Cristo. Tutta la vita e la missione della Chiesa dipendono dallo Spirito Santo”:
“Quando noi preghiamo, è perché lo Spirito Santo suscita la preghiera nel cuore. Quando spezziamo il cerchio del nostro egoismo, usciamo da noi stessi e ci accostiamo agli altri per incontrarli, ascoltarli, aiutarli, è lo Spirito di Dio che ci ha spinti. Quando scopriamo in noi una sconosciuta capacità di perdonare, di amare chi non ci vuole bene, è lo Spirito che ci ha afferrati. Quando andiamo oltre le parole di convenienza e ci rivolgiamo ai fratelli con quella tenerezza che riscalda il cuore, siamo stati certamente toccati dallo Spirito Santo”.
I differenti carismi nella Chiesa non sono disordine come potrebbe sembrare, quanto “un’immensa ricchezza, perché lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità”:
“Solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità. Quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi ed esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità e l’omologazione. Se invece ci lasciamo guidare dallo Spirito, la ricchezza, la varietà, la diversità non diventano mai conflitto, perché Egli ci spinge a vivere la varietà nella comunione della Chiesa”.
Lo Spirito Santo armonizza la moltitudine di carismi, fa l’unità della Chiesa, nella fede, nella carità, nella coesione interiore. “La Chiesa e le Chiese sono chiamate a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, ponendosi in un atteggiamento di apertura, di docilità e di obbedienza”. Il rischio è la tentazione di fare resistenza allo  Spirito Santo, “perché scombussola, perché smuove, fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti”, ed è “più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate”:
“In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo. E la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo anche quando lascia da parte la tentazione di guardare sé stessa. E noi cristiani diventiamo autentici discepoli missionari, capaci di interpellare le coscienze, se abbandoniamo uno stile difensivo per lasciarci condurre dallo Spirito. Egli è freschezza, fantasia, novità”.
Arroccarsi eccessivamente sulle proprie idee, sulle proprie forze, scivolando così nel pelagianesimo, adottare un atteggiamento di ambizione e di vanità, “questi meccanismi difensivi” impediscono di comprendere gli altri e di aprirci al dialogo con loro. La Chiesa riceve in consegna il fuoco dello Spirito Santo che incendia il cuore, è investita dal vento dello Spirito che abilita ad un servizio di amore, un linguaggio che ciascuno è in grado di comprendere:
“Nel nostro cammino di fede e di vita fraterna, più ci lasceremo guidare con umiltà dallo Spirito del Signore, più supereremo le incomprensioni, le divisioni e le controversie e saremo segno credibile di unità e di pace. Segno credibile che il nostro Signore è risorto, è vivo”.

Abbraccio fraterno tra Francesco e Bartolomeo nella preghiera ecumenica


La nostra gioia è nel “comune affidamento alla fedeltà di Dio, che pone il fondamento  per la ricostruzione del suo tempio che è la Chiesa”. E’ uno dei passaggi forti del discorso di Papa Francesco durante la preghiera ecumenica tenutasi nel pomeriggio nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, che si trova nella zona del Phanar ad Istanbul. Al termine del rito, il Papa ha chiesto al Patriarca di benedirlo chinando il capo e Bartolomeo lo ha baciato e abbracciato. 
Il Papa con un animo colmo di gratitudine a Dio prega assieme al Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Al centro della preghiera ecumenica, le parole tratte dal libro del profeta Zaccaria: “Ecco, io salvo il mio popolo dall’oriente e dall’occidente”. Parole che per il Papa ricordano che il fondamento “su cui possiamo muovere insieme i nostri passi con gioia e con speranza” è proprio questa promessa di salvezza del Signore: 
“Sì, venerato e caro Fratello Bartolomeo, mentre Le esprimo il mio sentito ‘grazie’ per la Sua fraterna accoglienza, sento che la nostra gioia è più grande perché la sorgente è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi, che pure doverosamente ci sono, ma è nel comune affidamento alla fedeltà di Dio, che pone il fondamento per la ricostruzione del suo tempio che è la Chiesa”.
Si tratta, infatti, di una gioia e di una pace che il mondo non può dare ma che Gesù ha donato ai discepoli da Risorto. Andrea e Pietro hanno ricevuto questo dono e da fratelli di carne, sottolinea il Papa, l’incontro con Cristo li ha trasformati in “fratelli nella fede e nella carità” ma soprattutto in “fratelli nella speranza”:
“Quale grazia, Santità, poter essere fratelli nella speranza del Signore Risorto! Quale grazia – e quale responsabilità – poter camminare insieme in questa speranza, sorretti dall’intercessione dei santi fratelli Apostoli Andrea e Pietro! E sapere che questa comune speranza non delude, perché è fondata non su di noi e sulle nostre povere forze, ma sulla fedeltà di Dio”.
In conclusione il Papa ha aggiunto:  
"E vi chiedo un favore: di benedire me e la Chiesa di Roma".
Dopo aver rivolto queste parole al Patriarca ecumenico, Francesco ha chinato il capo e Bartolomeo I lo ha baciato sulla testa e abbracciato con grande spontaneità e fraternità. Prima, nel suo discorso, il Patriarca ha ricordato l’importanza della visita di Papa Francesco, che segue quelle dei suoi predecessori Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: una visita che  testimonia “la volontà Vostra e della Santissima Chiesa di Roma –  ha detto  - di proseguire il fraterno costante cammino con la nostra Chiesa Ortodossa, per il ristabilimento della completa comunione tra le nostre Chiese”. Per il Patriarca Ecumenico si tratta dunque di “un fatto storico e ricco di buoni auspici per il futuro”. Precedentemente in un incontro con i giornalisti,Bartolomeo I aveva espresso la sua gioia per la visita del Papa:
“Siamo felicissimi di poter accogliere Sua Santità Papa Francesco, con cui eravamo a Gerusalemme pochi mesi fa e abbiamo pregato per l’unità delle nostre Chiese, per la pace nel Medio Oriente, del mondo intero … E’ un grande onore per noi tutti avere come ospite Sua Santità Papa Francesco”.
Al termine della Preghiera ecumenica, il Papa e il Patriarca Ecumenico hanno avuto un colloquio privato, seguito da uno scambio di regali. A ciascun membro del Sinodo del Patriarcato ecumenico è stata donata una riproduzione incorniciata in perspex delle pagine del Salterio.

martedì 25 novembre 2014

CONDIVIDERE I BISOGNI, PER CONDIVIDERE IL SENSO DELLA VITA.



CONDIVIDERE I BISOGNI, PER CONDIVIDERE IL SENSO DELLA VITA.
Il povero è un uomo solo. Condividere gratuitamente
questo dramma risveglia il vero desiderio che è nel
cuore di ciascuno: essere amato. “La Carità è il dono
più grande che Dio ha fatto agli uomini … perché è
amore ricevuto e amore donato (Caritas in Veritate)"
Per questo invito tutti a partecipare alla
Giornata Nazionale della Colletta Alimentare,
perché anche fare la spesa e donarla a chi è più
povero è occasione di un immediato e positivo
cambiamento per sé e quindi per la società.
Far del bene agli altri fa bene a se stessi.
Sabato 29 Novembre insieme a diversi amici parteciperò come volontario 
presso il supermercato UNES di via C.Battisti a Paderno Dugnano.



Un'Europa che contempli il cielo e persegua degli ideali



 



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL PARLAMENTO EUROPEO
Strasburgo, Francia
Martedì, 25 novembre 2014


Signor Presidente, Signore e Signori Vice Presidenti,
Onorevoli Eurodeputati,
Persone che lavorano a titoli diversi in quest’emiciclo,
Cari amici,
vi ringrazio per l'invito a prendere la parola dinanzi a questa istituzione fondamentale della vita dell'Unione Europea e per l'opportunità che mi offrite di rivolgermi, attraverso di voi, agli oltre cinquecento milioni di cittadini che rappresentate nei 28 Stati membri. Particolare gratitudine, desidero esprimere a Lei, Signor Presidente del Parlamento, per le cordiali parole di benvenuto che mi ha rivolto, a nome di tutti i componenti dell'Assemblea.
La mia visita avviene dopo oltre un quarto di secolo da quella compiuta da Papa Giovanni Paolo II. Molto è cambiato da quei giorni in Europa e in tutto il mondo. Non esistono più i blocchi contrapposti che allora dividevano il continente in due e si sta lentamente compiendo il desiderio che «l'Europa, dandosi sovranamente libere istituzioni, possa un giorno estendersi alle dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia»[1].
Accanto a un'Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò sempre meno "eurocentrico". A un'Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l'immagine di un'Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto.
Nel rivolgermi a voi quest'oggi, a partire dalla mia vocazione di pastore, desidero indirizzare a tutti i cittadini europei un messaggio di speranza e di incoraggiamento.
Un messaggio di speranza basato sulla fiducia che le difficoltà possano diventare promotrici potenti di unità, per vincere tutte le paure che l’Europa - insieme a tutto il mondo - sta attraversando. Speranza nel Signore che trasforma il male in bene e la morte in vita.
Incoraggiamento di tornare alla ferma convinzione dei Padri fondatori dell'Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente. Al centro di questo ambizioso progetto politico vi era la fiducia nell'uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente.
Mi preme anzitutto sottolineare lo stretto legame che esiste fra queste due parole: "dignità" e "trascendente".
La “dignità” è una parola-chiave che ha caratterizzato la ripresa del secondo dopo guerra. La nostra storia recente si contraddistingue per l'indubbia centralità della promozione della dignità umana contro le molteplici violenze e discriminazioni, che neppure in Europa sono mancate nel corso dei secoli. La percezione dell'importanza dei diritti umani nasce proprio come esito di un lungo cammino, fatto anche di molteplici sofferenze e sacrifici, che ha contribuito a formare la coscienza della preziosità, unicità e irripetibilità di ogni singola persona umana. Tale consapevolezza culturale trova fondamento non solo negli avvenimenti della storia, ma soprattutto nel pensiero europeo, contraddistinto da un ricco incontro, le cui numerose fonti lontane provengono «dalla Grecia e da Roma, da substrati celtici, germanici e slavi, e dal cristianesimo che li ha plasmati profondamente»[2], dando luogo proprio al concetto di “persona”.
Oggi, la promozione dei diritti umani occupa un ruolo centrale nell'impegno dell'Unione Europea in ordine a favorire la dignità della persona, sia al suo interno che nei rapporti con gli altri Paesi. Si tratta di un impegno importante e ammirevole, poiché persistono fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi.
Effettivamente quale dignità esiste quando manca la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero o di professare senza costrizione la propria fede religiosa? Quale dignità è possibile senza una cornice giuridica chiara, che limiti il dominio della forza e faccia prevalere la legge sulla tirannia del potere? Quale dignità può mai avere un uomo o una donna fatto oggetto di ogni genere di discriminazione? Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, che non ha il lavoro che lo unge di dignità?
Promuovere la dignità della persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata ad arbitrio di alcuno e tanto meno a beneficio di interessi economici.
Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali - sono tentato di dire individualistici -, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa.
Ritengo perciò che sia quanto mai vitale approfondire oggi una cultura dei diritti umani che possa sapientemente legare la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale [3]. Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze.
Parlare della dignità trascendente dell'uomo, significa dunque fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato [4]; soprattutto significa guardare all'uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale. Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami. La si vede particolarmente negli anziani, spesso abbandonati al loro destino, come pure nei giovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; la si vede nei numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vede negli occhi smarriti dei migranti che sono venuti qui in cerca di un futuro migliore.
Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal punto di vista sociale. Si può poi constatare che, nel corso degli ultimi anni, accanto al processo di allargamento dell'Unione Europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un'impressione generale di stanchezza, d'invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l'Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni.
A ciò si associano alcuni stili di vita un po' egoisti, caratterizzati da un'opulenza ormai insostenibile e spesso indifferente nei confronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri. Si constata con rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico [5]. L'essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che - lo notiamo purtroppo spesso - quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere.
È il grande equivoco che avviene «quando prevale l'assolutizzazione della tecnica»[6], che finisce per realizzare «una confusione fra fini e mezzi»[7]. Risultato inevitabile della “cultura dello scarto” e del “consumismo esasperato”. Al contrario, affermare la dignità della persona significa riconoscere la preziosità della vita umana, che ci è donata gratuitamente e non può perciò essere oggetto di scambio o di smercio. Voi, nella vostra vocazione di parlamentari, siete chiamati anche a una missione grande benché possa sembrare inutile: prendervi cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. Prendersi cura della fragilità delle persone e dei popoli significa custodire la memoria e la speranza; significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità [8].
Come dunque ridare speranza al futuro, così che, a partire dalle giovani generazioni, si ritrovi la fiducia per perseguire il grande ideale di un'Europa unita e in pace, creativa e intraprendente, rispettosa dei diritti e consapevole dei propri doveri?
Per rispondere a questa domanda, permettetemi di ricorrere a un'immagine. Uno dei più celebri affreschi di Raffaello che si trovano in Vaticano raffigura la cosiddetta Scuola di Atene. Al suo centro vi sono Platone e Aristotele. Il primo con il dito che punta verso l'alto, verso il mondo delle idee, potremmo dire verso il cielo; il secondo tende la mano in avanti, verso chi guarda, verso la terra, la realtà concreta. Mi pare un'immagine che ben descrive l'Europa e la sua storia, fatta del continuo incontro tra cielo e terra, dove il cielo indica l'apertura al trascendente, a Dio, che ha da sempre contraddistinto l'uomo europeo, e la terra rappresenta la sua capacità pratica e concreta di affrontare le situazioni e i problemi.
Il futuro dell'Europa dipende dalla riscoperta del nesso vitale e inseparabile fra questi due elementi. Un'Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un'Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello "spirito umanistico" che pure ama e difende.
Proprio a partire dalla necessità di un'apertura al trascendente, intendo affermare la centralità della persona umana, altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento. In questo senso ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l'indipendenza delle istituzioni dell'Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l'hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca, un umanesimo incentrato sul rispetto della dignità della persona.
Desidero, perciò, rinnovare la disponibilità della Santa Sede e della Chiesa cattolica, attraverso la Commissione delle Conferenze Episcopali Europee (COMECE), a intrattenere un dialogo proficuo, aperto e trasparente con le istituzioni dell'Unione Europea. Parimenti sono convinto che un'Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e lepotenzialità, possa essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché «è proprio l'oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza»[9].
Non possiamo qui non ricordare le numerose ingiustizie e persecuzioni che colpiscono quotidianamente le minoranze religiose, e particolarmente cristiane, in diverse parti del mondo. Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocefisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti.
Il motto dell'Unione Europea è Unità nella diversità, ma l'unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero. In realtà ogni autentica unità vive della ricchezza delle diversità che la compongono: come una famiglia, che è tanto più unita quanto più ciascuno dei suoi componenti può essere fino in fondo sé stesso senza timore. In tal senso, ritengo che l'Europa sia una famiglia di popoli, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell'Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l'ideale dell'unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni; prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; liberandosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie. Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività, sia a livello di singolo che di popolo.
D'altra parte le peculiarità di ciascuno costituiscono un'autentica ricchezza nella misura in cui sono messe al servizio di tutti. Occorre ricordare sempre l'architettura propria dell'Unione Europea, basata sui principi di solidarietà e sussidiarietà, così che prevalga l'aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia.
In questa dinamica di unità-particolarità, si pone a voi, Signori e Signore Eurodeputati, anche l’esigenza di farvi carico di mantenere viva la democrazia, la democrazia dei popoli dell’Europa. Non ci è nascosto che una concezione omologante della globalità colpisce la vitalità del sistema democratico depotenziando il ricco contrasto, fecondo e costruttivo, delle organizzazioni e dei partiti politici tra di loro. Così si corre il rischio di vivere nel regno dell’idea, della sola parola, dell’immagine, del sofisma… e di finire per confondere la realtà della democrazia con un nuovo nominalismo politico. Mantenere viva la democrazia in Europa richiede di evitare tante “maniere globalizzanti” di diluire la realtà: i purismi angelici, i totalitarismi del relativo, i fondamentalismi astorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza sapienza [10].
Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.
Dare speranza all'Europa non significa solo riconoscere la centralità della persona umana, ma implica anche favorirne le doti. Si tratta perciò di investire su di essa e sugli ambiti in cui i suoi talenti si formano e portano frutto. Il primo ambito è sicuramente quello dell'educazione, a partire dalla famiglia, cellula fondamentale ed elemento prezioso di ogni società. La famiglia unita, fertile e indissolubile porta con sé gli elementi fondamentali per dare speranza al futuro. Senza tale solidità si finisce per costruire sulla sabbia, con gravi conseguenze sociali. D'altra parte, sottolineare l'importanza della famiglia non solo aiuta a dare prospettive e speranza alle nuove generazioni, ma anche ai numerosi anziani, spesso costretti a vivere in condizioni di solitudine e di abbandono perché non c'è più il calore di un focolare domestico in grado di accompagnarli e di sostenerli.
Accanto alla famiglia vi sono le istituzioni educative: scuole e università. L'educazione non può limitarsi a fornire un insieme di conoscenze tecniche, bensì deve favorire il più complesso processo di crescita della persona umana nella sua totalità. I giovani di oggi chiedono di poter avere una formazione adeguata e completa per guardare al futuro con speranza, piuttosto che con disillusione. Numerose sono, poi, le potenzialità creative dell'Europa in vari campi della ricerca scientifica, alcuni dei quali non ancora del tutto esplorati. Basti pensare ad esempio alle fonti alternative di energia, il cui sviluppo gioverebbe molto alla difesa dell'ambiente.
L’Europa è sempre stata in prima linea in un lodevole impegno a favore dell’ecologia. Questa nostra terra ha infatti bisogno di continue cure e attenzioni e ciascuno ha una personale responsabilità nel custodire il creato, prezioso dono che Dio ha messo nelle mani degli uomini. Ciò significa da un lato che la natura è a nostra disposizione, ne possiamo godere e fare buon uso; dall’altro però significa che non ne siamo i padroni. Custodi, ma non padroni. La dobbiamo perciò amare e rispettare, mentre «invece siamo spesso guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non la “custodiamo”, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura»[11]. Rispettare l’ambiente significa però non solo limitarsi ad evitare di deturparlo, ma anche di utilizzarlo per il bene. Penso soprattutto al settore agricolo, chiamato a dare sostegno e nutrimento all’uomo. Non si può tollerare che milioni di persone nel mondo muoiano di fame, mentre tonnellate di derrate alimentari vengono scartate ogni giorno dalle nostre tavole. Inoltre, rispettare la natura, ci ricorda che l’uomo stesso è parte fondamentale di essa. Accanto ad un’ecologia ambientale, serve perciò quell’ecologia umana, fatta del rispetto della persona, che ho inteso richiamare quest’oggi rivolgendomi a voi.
Il secondo ambito in cui fioriscono i talenti della persona umana è il lavoro. E’ tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento. Ciò implica, da un lato, reperire nuovi modi per coniugare la flessibilità del mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori; d'altra parte, significa favorire un adeguato contesto sociale, che non punti allo sfruttamento delle persone, ma a garantire, attraverso il lavoro, la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli.
Parimenti, è necessario affrontare insieme la questione migratoria. Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero! Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto. L'assenza di un sostegno reciproco all'interno dell'Unione Europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema, che non tengono conto della dignità umana degli immigrati, favorendo il lavoro schiavo e continue tensioni sociali. L'Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all'immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l'accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti.
Signor Presidente, Eccellenze, Signore e Signori Deputati,
La coscienza della propria identità è necessaria anche per dialogare in modo propositivo con gli Stati che hanno chiesto di entrare a far parte dell'Unione in futuro. Penso soprattutto a quelli dell'area balcanica per i quali l'ingresso nell'Unione Europea potrà rispondere all'ideale della pace in una regione che ha grandemente sofferto per i conflitti del passato. Infine, la coscienza della propria identità è indispensabile nei rapporti con gli altri Paesi vicini, particolarmente con quelli che si affacciano sul Mediterraneo, molti dei quali soffrono a causa di conflitti interni e per la pressione del fondamentalismo religioso e del terrorismo internazionale.
A voi legislatori spetta il compito di custodire e far crescere l'identità europea, affinché i cittadini ritrovino fiducia nelle istituzioni dell'Unione e nel progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento. Sapendo che «quanto più cresce la potenza degli uomini tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità personale e collettiva»[12], vi esorto [perciò] a lavorare perché l'Europa riscopra la sua anima buona.
Un anonimo autore del II secolo scrisse che «i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l'anima è nel corpo»[13]. Il compito dell'anima è quello di sostenere il corpo, di esserne la coscienza e la memoria storica. E una storia bimillenaria lega l'Europa e il cristianesimo. Una storia non priva di conflitti e di errori, anche di peccati, ma sempre animata dal desiderio di costruire per il bene. Lo vediamo nella bellezza delle nostre città, e più ancora in quella delle molteplici opere di carità e di edificazione umana comune che costellano il continente. Questa storia, in gran parte, è ancora da scrivere. Essa è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. E l'Europa ha fortemente bisogno di riscoprire il suo volto per crescere, secondo lo spirito dei suoi Padri fondatori, nella pace e nella concordia, poiché essa stessa non ancora esente dai conflitti.
Cari Eurodeputati, è giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l'umanità!
Grazie.

lunedì 24 novembre 2014

Papa: nuovi Santi insegnano dedizione a Dio e agli altri


Per Gesù regnare non è comandare, “alla maniera di questo mondo”, ma “obbedire al Padre”, perché si compia il suo disegno d’amore e di salvezza. È la riflessione di Papa Francesco che, nella solennità di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, ha celebrato in Piazza San Pietro la Santa Messa con rito di canonizzazione degli italiani Giovanni Antonio Farina, Ludovico da Casoria, Nicola da Longobardi, Amato Ronconi e degli indiani Kuriakose Elias Chavara della Sacra Famiglia ed Eufrasia Eluvathingal del Sacro Cuore. Al termine, la recita dell'Angelus. Il servizio di Giada Aquilino:
La salvezza comincia “dall’imitazione delle opere di misericordia” mediante le quali Cristo ha realizzato il suo regno, di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace. Papa Francesco lo ha ricordato ai circa 50 mila fedeli che, nonostante il cielo su Piazza San Pietro minacciasse a tratti pioggia, hanno assistito commossi al rito di canonizzazione dei sei Beati, unendo in un’unica scenografia i colori e la spiritualità dell’India e dell’Italia. Dopo la richiesta pronunciata dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, la formula recitata in latino dal Pontefice:
“Beatos Ioannem Antonium Farina, Cyriacum Eliam Chavara a Sacra Familia, Ludovicum a Casaurea, Nicolaum Laongobardis, Euphrasiam a Sacro Corde et Amatum Ronconi Sanctos esse decernimus et definimus”…
Oggi la Chiesa, ha detto il Papa, ci pone dinanzi come modelli i nuovi Santi che, “proprio mediante le opere di una generosa dedizione a Dio e ai fratelli, hanno servito, ognuno nel proprio ambito, il regno di Dio e - ha proseguito - ne sono diventati eredi”:
“Ciascuno di essi ha risposto con straordinaria creatività al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Si sono dedicati senza risparmio al servizio degli ultimi, assistendo indigenti, ammalati, anziani, pellegrini. La loro predilezione per i piccoli e i poveri era il riflesso e la misura dell’amore incondizionato a Dio. Infatti, hanno cercato e scoperto la carità nella relazione forte e personale con Dio, dalla quale si sprigiona il vero amore per il prossimo”.
Riflettendo su come Gesù abbia realizzato il suo regno, il Papa - rifacendosi all’odierna prima Lettura del profeta Ezechiele sull’amore e la premura del Pastore “verso il suo gregge” - ha spiegato come Cristo sia davvero “il Pastore grande delle pecore e custode delle nostre anime”:
“E quanti nella Chiesa siamo chiamati ad essere pastori, non possiamo discostarci da questo modello, se non vogliamo diventare dei mercenari. A questo riguardo, il popolo di Dio possiede un fiuto infallibile nel riconoscere i buoni pastori e distinguerli dai mercenari”.
Dopo la Risurrezione, che segna “la sua vittoria”, Gesù porta avanti il regno preparato “fin dalla fondazione del mondo”. E’ il Padre, ha aggiunto Papa Francesco, “che a poco a poco sottomette tutto al Figlio, e al tempo stesso il Figlio sottomette tutto al Padre”:
“Gesù non è un re alla maniera di questo mondo: per Lui regnare non è comandare, ma obbedire al Padre, consegnarsi a Lui, perché si compia il suo disegno d’amore e di salvezza. Così c’è piena reciprocità tra il Padre e il Figlio. Dunque il tempo del regno di Cristo è il lungo tempo della sottomissione di tutto al Figlio e della consegna di tutto al Padre”.
L’ultimo nemico ad essere annientato, ha proseguito il Pontefice, sarà la morte. E alla fine, “quando tutto sarà stato posto sotto la regalità di Gesù”, e tutto, anche Cristo stesso, sarà stato sottomesso al Padre, “Dio sarà tutto in tutti”. Il Vangelo, ha affermato, “ci ricorda che la vicinanza e la tenerezza sono la regola di vita anche per noi”, e su questo saremo giudicati: questo - ha notato il Santo Padre - “sarà il protocollo del nostro giudizio”:
“Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore, sulla prossimità e sulla tenerezza verso i fratelli. Da questo dipenderà il nostro ingresso o meno nel regno di Dio, la nostra collocazione dall’una o dall’altra parte. Gesù, con la sua vittoria, ci ha aperto il suo regno, ma sta a ciascuno di noi entrarvi, già a partire da questa vita - il regno incomincia adesso - facendoci concretamente prossimo al fratello che chiede pane, vestito, accoglienza, solidarietà, catechesi. E se veramente ameremo quel fratello o quella sorella, saremo spinti a condividere con lui o con lei ciò che abbiamo di più prezioso, cioè Gesù stesso e il suo Vangelo”.
L’auspicio del Pontefice è stato quindi “che i nuovi Santi, col loro esempio e la loro intercessione, facciano crescere in noi la gioia di camminare nella via del Vangelo, la decisione di assumerlo come la bussola della nostra vita”.
“Seguiamo le loro orme, imitiamo la loro fede e la loro carità, perché anche la nostra speranza si rivesta di immortalità. Non lasciamoci distrarre da altri interessi terreni e passeggeri. E ci guidi nel cammino verso il regno dei Cieli la Madre, Maria, Regina di tutti i Santi”.
Al termine della celebrazione, l’Angelus recitato in Piazza. Il Papa si è soffermato sull’esempio dei quattro Santi italiani, nati in provincia di Vicenza, Napoli, Cosenza e Rimini:
“Aiuti il caro popolo italiano a ravvivare lo spirito di collaborazione e di concordia per il bene comune e a guardare con speranza al futuro, in unità, confidando nella vicinanza di Dio che mai abbandona, anche nei momenti difficili”.
Quindi, l’auspicio del Pontefice per l’intercessione dei due Santi indiani, provenienti dal Kerala, “grande terra - ha ricordato - di fede e di vocazioni sacerdotali e religiose”:
“Il Signore conceda un nuovo impulso missionario alla Chiesa che è in India - che è tanto brava - affinché ispirandosi al loro esempio di concordia e di riconciliazione, i cristiani dell’India proseguano nel cammino della solidarietà e della convivenza fraterna”.

Francesco: Chiesa sia povera e si vanti di Dio non di se stessa



Quando la Chiesa è umile e povera, allora “è fedele” a Cristo, altrimenti è tentata di brillare di “luce propria” anziché donare al mondo quella di Dio. Lo ha affermato Papa Francesco durante l’omelia della Messa del mattino, celebrata nella cappella di Casa S. Marta. Dare tanto e pubblicamente, perché c’è una ricchezza che si nutre di ostentazione e gode della vanità. E dare il poco che si ha, senza attirare l’attenzione se non di Dio, perché è Lui il tutto in cui si confida. Nell’episodio evangelico della vedova che sotto gli occhi di Gesù mette i suoi unici due spiccioli nel tesoro del tempio – mentre i ricchi vi avevano gettato atteggiandosi grosse cifre per loro superflue – Papa Francesco coglie due tendenze sempre presenti nella storia della Chiesa. La Chiesa tentata dalla vanità e la “Chiesa povera”, che – afferma – “non deve avere altre ricchezze che il suo Sposo”, come l’umile donna del tempio:
“A me piace vedere in questa figura la Chiesa che è in certo senso un po’ vedova, perché aspetta il suo Sposo che tornerà… Ma ha il suo Sposo nell’Eucaristia, nella Parola di Dio, nei poveri, sì: ma aspetta che torni, no? Questo atteggiamento della Chiesa… Questa vedova non era importante, il nome di questa vedova non appariva nei giornali. Nessuno la conosceva. Non aveva lauree… niente. Niente. Non brillava di luce propria. E’ quello che a me dice di vedere in questa donna la figura della Chiesa. La grande virtù della Chiesa dev’essere di non brillare di luce propria, ma di brillare della luce che viene dal suo Sposo. Che viene proprio dal suo Sposo. E nei secoli, quando la Chiesa ha voluto avere luce propria, ha sbagliato”.
“È vero – riconosce Papa Francesco – che alcune volte il Signore può chiedere alla sua Chiesa di avere, di prendersi un po’ di luce propria”, ma ciò si intende, ha spiegato, che se la missione della Chiesa è di illuminare l’umanità, la luce che viene donata deve essere unicamente quella ricevuta da Cristo in atteggiamento di umiltà:
“Tutti i servizi che noi facciamo nella Chiesa sono per aiutarci in questo, a ricevere quella luce. E un servizio senza questa luce non va bene: fa che la Chiesa diventi o ricca, o potente, o che cerchi il potere, o che sbagli strada, come è accaduto tante volte nella storia e come accade nelle nostre vite, quando noi vogliamo avere un’altra luce, che non è proprio quella del Signore: una luce propria”.
Quando la Chiesa “è fedele alla speranza e al suo Sposo – ripete ancora Papa Francesco – è gioiosa di ricevere la luce da Lui, di essere in questo senso ‘vedova’”, in attesa, come la luna, del “sole che verrà”:
“Quando la Chiesa è umile, quando la Chiesa è povera, anche quando la Chiesa confessa le sue miserie – poi tutti ne abbiamo – la Chiesa è fedele. La Chiesa dice: ‘Ma, io sono oscura, ma la luce mi viene da lì!’ e questo ci fa tanto bene. Ma preghiamo questa vedova che è in Cielo, sicuro, preghiamo questa vedova che ci insegni a essere Chiesa così, gettando dalla vita tutto quello che abbiamo: niente per noi. Tutto per il Signore e per il prossimo. Umili. Senza vantarci di avere luce propria, cercando sempre la luce che viene dal Signore”.

La strada, il «primo amore» e la freschezza del carisma


Discorso di papa Francesco ai partecipanti al III Convegno mondiale dei Movimenti ecclesiali e delle Nuove Comunità (Sala Clementina, sabato, 22 novembre 2014)


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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL
 III CONVEGNO MONDIALE DEI MOVIMENTI ECCLESIALI
E DELLE NUOVE COMUNITÀ
Sala Clementina
Sabato, 22 novembre 2014




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi accolgo con piacere in occasione del Congresso che state celebrando con il sostegno del Pontificio Consiglio per i Laici. Ringrazio il Cardinale Ryłko, anche per le sue parole, e Mons. Clemens. Al centro della vostra attenzione in questi giorni ci sono due elementi essenziali della vita cristiana: la conversione e la missione. Essi sono intimamente legati. Infatti, senza un’autentica conversione del cuore e della mente non si annuncia il Vangelo, ma se non ci apriamo alla missione non è possibile la conversione e la fede diventa sterile. I Movimenti e le Nuove Comunità che voi rappresentate sono ormai proiettati alla fase della maturità ecclesiale, che richiede un atteggiamento vigile di conversione permanente, al fine di rendere sempre più viva e feconda la spinta evangelizzatrice. Desidero, pertanto, offrirvi alcuni suggerimenti per il vostro cammino di fede e di vita ecclesiale.
1. Anzitutto è necessario preservare la freschezza del carisma: che non si rovini quella freschezza! Freschezza del carisma! Rinnovando sempre il «primo amore» (cfr Ap 2,4). Con il tempo infatti cresce la tentazione di accontentarsi, di irrigidirsi in schemi rassicuranti, ma sterili. La tentazione di ingabbiare lo Spirito: questa è una tentazione! Tuttavia, «la realtà è più importante dell’idea» (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 231-233); se una certa istituzionalizzazione del carisma è necessaria per la sua stessa sopravvivenza, non bisogna illudersi che le strutture esterne possano garantire l’azione dello Spirito Santo. La novità delle vostre esperienze non consiste nei metodi e nelle forme, la novità, che pure sono importanti, ma nella disposizione a rispondere con rinnovato entusiasmo alla chiamata del Signore: è questo coraggio evangelico che ha permesso la nascita dei vostri movimenti e nuove comunità. Se forme e metodi sono difesi per sé stessi diventano ideologici, lontani dalla realtà che è in continua evoluzione; chiusi alla novità dello Spirito, finiranno per soffocare il carisma stesso che li ha generati. Occorre tornare sempre alle sorgenti dei carismi e ritroverete lo slancio per affrontare le sfide. Voi non avete fatto una scuola di spiritualità così; non avete fatto una istituzione di spiritualità così;  non avete un gruppetto… No! Movimento! Sempre sulla strada, sempre in movimento, sempre aperto alle sorprese di Dio, che vengono in sintonia con la prima chiamata del movimento, quel carisma fondamentale.
2. Un’altra questione riguarda il modo di accogliere e accompagnare gli uomini del nostro tempo, in particolare i giovani (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 105-106). Facciamo parte di un’umanità ferita, - dobbiamo dirci questo! - dove tutte le agenzie educative, specialmente la più importante, la famiglia, hanno gravi difficoltà un po’ ovunque nel mondo. L’uomo di oggi vive seri problemi di identità e ha difficoltà a fare le proprie scelte; perciò ha una disposizione a farsi condizionare, a delegare ad altri le decisioni importanti della vita. Bisogna resistere alla tentazione di sostituirsi alla libertà delle persone e a dirigerle senza attendere che maturino realmente. Ogni persona ha il suo tempo, cammina a modo suo e dobbiamo accompagnare questo cammino. Un progresso morale o spirituale ottenuto facendo leva sull’immaturità della gente è un successo apparente, destinato a naufragare. Meglio pochi, ma andando sempre senza cercare lo spettacolo! L’educazione cristiana invece richiede un accompagnamento paziente che sa attendere i tempi di ciascuno, come fa con ognuno di noi il Signore: il Signore ha pazienza con noi! la pazienza è la sola via per amare davvero e portare le persone a una relazione sincera col Signore.
3. Un’altra indicazione è quella di non dimenticare che il bene più prezioso, il sigillo dello Spirito Santo, è la comunione. Si tratta della grazia suprema che Gesù ci ha conquistato sulla croce, la grazia che da risorto chiede per noi incessantemente, mostrando le sue piaghe gloriose al Padre: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Perché il mondo creda che Gesù è il Signore bisogna che veda la comunione tra i cristiani, ma se si vedono divisioni, rivalità e maldicenza, il terrorismo delle chiacchiere, per favore…  se si vedono queste cose, qualunque sia la causa, come si può evangelizzare? Ricordate quest’altro principio: «L’unità prevale sul conflitto» (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 226-230), perché il fratello vale molto di più delle nostre personali posizioni: per lui Cristo ha versato il suo sangue (cfr 1 Pt 1,18-19), per le mie idee non ha versato niente! La vera comunione, poi, non può esistere in un movimento o in una nuova comunità, se non si integra nella comunione più grande che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica. Il tutto è superiore alla parte (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 234-237) e la parte ha senso in relazione al tutto. Inoltre, la comunione consiste anche nell’affrontare insieme e uniti le questioni più importanti, come la vita, la famiglia, la pace, la lotta alla povertà in tutte le sue forme, la libertà religiosa e di educazione. In particolare, i movimenti e le comunità sono chiamati a collaborare per contribuire a curare le ferite prodotte da una mentalità globalizzata che mette al centro il consumo, dimenticando Dio e i valori essenziali dell’esistenza.
Per raggiungere la maturità ecclesiale, dunque, mantenete – lo ripeto - la freschezza del carisma, rispettate la libertà delle personee cercate sempre la comunione. Non dimenticate però che, per raggiungere questo traguardo, la conversione deve essere missionaria: la forza di superare tentazioni e insufficienze viene dalla gioia profonda dell’annuncio del Vangelo, che è alla base di tutti i vostri carismi. Infatti, «quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 10), la vera motivazione per rinnovare la propria vita, perché la missione è partecipazione alla missione di Cristo che ci precede sempre e ci accompagna sempre nell’evangelizzazione.
Cari fratelli e sorelle, voi avete portato già molti frutti alla Chiesa e al mondo intero, ma ne porterete altri ancora più grandi con l’aiuto dello Spirito Santo, che sempre suscita e rinnova doni e carismi, e con l’intercessione di Maria, che non cessa di soccorrere e accompagnare i suoi figli. Andate avanti: sempre in movimento … Non fermatevi mai! Sempre in movimento! Vi assicuro la mia preghiera e vi chiedo di pregare per me - ne ho bisogno davvero - mentre di cuore vi benedico.
(Applausi)
Adesso vi chiedo, tutti insieme, di pregare la Madonna, che ha provato questa esperienza di conservare sempre la freschezza del primo incontro con Dio, di andare avanti con umiltà, ma sempre in cammino, rispettando il tempo delle persone. E poi anche di non stancarsi mai di avere questo cuore missionario.
(Ave Maria)
Benedizione


© Copyright - Libreria Editrice Vaticana

Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 19 novembre 20


Testo di riferimento: J. Carrón e D. Prosperi, «NON SONO QUANDO NON CI SEI», Tracce-Litterae
communionis, ottobre 2014, pp. I-XVI.
• Barco Negro
• L’iniziativa
Gloria
«Mi svegliai tremando gettata sulla sabbia. Ma subito i tuoi occhi dissero che non ero brutta, e il
sole penetrò nel mio cuore», abbiamo appena ascoltato. È il primo contraccolpo della realtà che
penetra nel profondo del nostro io. Possiamo svegliarci tremando, sentendoci brutti, ma sono altri
occhi che mi dicono chi sono, e allora il sole penetra nel cuore. E quando qualcuno viene e dice che
se ne è andato, la certezza, solo la certezza di quello sguardo può fare dire: «Sono pazze!», ma
pazze, pazze, perché «io so, amore mio, che non sei mai neanche partito. Perché tutto intorno a me
mi dice che sei sempre con me» («Barco Negro», fado portoghese, testo di D. Mourão-Ferreira).
Perché? Perché possiamo dire che è sempre con me, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi pensiero
venga, qualsiasi impressione abbia di me? Perché «io non c’ero e Lui mi ha creato / io non esistevo
e Lui mi ha amato / […] ha preso Lui l’iniziativa / e allora che paura abbiamo?» («L’iniziativa» di
C. Chieffo e M. Neri). Tutto il problema, tutto il dramma del vivere è qui. Allora il cammino da fare
è perché diventi sempre più mio questo sguardo, che è la verità di me, l’unica verità di me, e non
l’impressione che ho io, non l’immagine che ho io, non il sentimento che ho, perché tutto questo è
conseguenza di una modalità con cui mi guardo, è l’esito di un giudizio su di me che è sbagliato,
radicalmente sbagliato, radicalmente falso, perché «io non esistevo e Lui mi ha amato».
Ma non basta ripetere questo, occorre che diventi mio. Sappiamo bene che tra il dire e il fare c’è di
mezzo il mare, perché è questo sguardo, questo desiderio, che si offusca e viene meno. Per questo la
volta scorsa avevamo finito con una domanda pervenuta via mail: «Cosa ci ridesta il desiderio,
l’attesa, la vivezza nella routine spesso offuscata da questi punti morti, da questi momenti bui? Il
reale lo viviamo, volenti o nolenti, ma cosa ci fa vivere intensamente il reale giorno per giorno? A
volte io vorrei avere un desiderio più grande, ma non me lo so dare». Tante volte noi decidiamo
prima ancora di entrare nella realtà che cosa dovrebbe risvegliarci. E ciascuno di noi, appena si
sveglia, ha un’idea di che cosa dovrebbe risvegliarlo, per cui abbiamo già deciso che la stragrande
maggioranza delle cose che ci capitano non ci risveglieranno; il nostro è un punto di partenza quasi
by default, perché abbiamo già deciso che certe cose mai e poi mai potranno risvegliarci. Invece don
Giussani ci introduce alla realtà senza consentirci di decidere in anticipo, perché non sappiamo
come il Mistero, che ci tocca attraverso la realtà, può raggiungerci lungo la giornata.
A questa domanda: «Cosa ci ridesta il desiderio, l’attesa, la vivezza nella routine spesso offuscata
da questi punti morti, da questi momenti bui?», io non avrei saputo cosa risponderti, finché due
settimane fa è successo che…
Questo è il punto: noi non sapremmo rispondere; ma il Mistero, invece di farci una lezione, fa
accadere qualcosa davanti a noi. «Non avrei saputo cosa risponderti, finché due settimane fa è
successo che…». Cosa è successo?
È successo che, cominciando a vivere e a rispondere alle provocazioni che la vita mi poneva, il mio
desiderio è riesploso, rompendo tutti i limiti e le misure che io gli avevo costruito intorno. Infatti
due settimane fa, mentre ero presa dalla definizione che io stessa davo di me (cioè, piena di limiti e
incapace), una ragazza del mio corso, in maniera sorprendente, ha chiesto a me e a un’altra amica
se fossimo di CL. Noi siamo rimaste sorprese, perché non ci spiegavamo da dove nascesse una
simile domanda, e le siamo andate dietro. Le abbiamo raccontato di noi, della nostra appartenenza 2
al movimento, del fatto che se lei davvero aveva a cuore di conoscerci, avremmo visto insieme il
video dei sessant’anni di CL, voluto apposta per rispondere alla domanda che le era venuta. Con
grande ironia Dio ci ha usato come Suo strumento. Questa ragazza, infatti, ci ha rivelato che aveva
desiderato conoscerci in quanto sorpresa della nostra pace e gioia di vivere. Il suo desiderio è
continuato e l’ha portata a leggere e sottolineare il testo della Giornata d’inizio anno passo passo,
a venire all’Angelus in università, a venire con noi alla Scuola di comunità. La sua insaziabile
domanda e la sua insistente necessità di capire di più la sua storia di cristiana ha completamente
rotto le mie misure, e il suo sguardo assetato e curioso è entrato anche in me, in me che ho letto
molte volte il testo della Giornata d’inizio anno, ma che mi ero dimenticata che la più grande
possibilità della vita è cominciare a stupirsi delle cose semplici e apparentemente piccole.
L’incontro con questa ragazza ha messo in moto di nuovo il mio desiderio di conoscere, di vivere
con Cristo, che così potentemente ha calamitato per tutta la vita questa ragazza. L’avere solamente
accettato di rispondere alla domanda così apparentemente scomoda di questa compagna, senza
difendermi o scappare, mi ha fatto ritornare finalmente viva e rinata nel desiderio di potermi
stupire ogni istante e non di rintanarmi nel mio “già saputo”. Sono strabiliata che Dio mi abbia
ridonato la sete di Lui, abbia ricominciato a parlarmi, solo per averle detto di sì.
«Il suo sguardo assetato e curioso è entrato anche in me». Lo sguardo di questa ragazza, incontrata
inaspettatamente, ha messo in moto il desiderio fino al punto che ha calamitato tutta la vita di questa
ragazza e ha fatto rinascere il desiderio in lei. E dici: «Sono strabiliata che Dio mi abbia ridonato la
sete di Lui». Come te l’ha ridonata? Attraverso questo imprevisto, un particolare della realtà che
può essere, come in questo caso, una cosa stupenda o che può essere una circostanza non così
stupenda. Alcuni dicono che queste cose succedono solo se si guardano le montagne e se si guarda
una cosa bella, mentre l’accadere di una cosa brutta non parla, non ridesta. E invece…
L’1 marzo 2013 ho fatto un incidente in macchina, in cui è morta mia mamma e io mi sono
praticamente rotto tutto. Sono stato operato d’urgenza e sono stato alcuni mesi in ospedale. Fin dai
primi istanti in cui i miei amici venivano a trovarmi, già fin dalla terapia intensiva, l’unica cosa
che chiedevo loro era: «Non venite qui per consolarmi, per cancellare il dramma che io ho, perché
io ho bisogno di tenere vivo questo dramma per accorgermi di Cristo fatto carne». Io, tra l’altro,
all’inizio vivevo facendo di tutto per uscire il prima possibile dall’ospedale: ero convinto che
dovevo vivere la realtà che avevo di fronte, però per me la realtà con Cristo era fuori dall’ospedale
dove stavo da solo per cinque ore al giorno (e all’inizio, soprattutto, le visite erano sporadiche).
Non era lì dentro la realtà che volevo io. Mi ricordo, per esempio, la fatica incredibile che facevo
nei tentativi di mettermi seduto sul letto: non ci riuscivo ed esausto mi riaccasciavo sul letto. Una
volta c’era un mio amico che mi guardava fare tutti questi tentativi, e io gli ho detto: «Vedi? Io
faccio di tutto per impormi in quel che posso alla realtà che ho di fronte, ma invece capisco che è
proprio lì che Cristo mi chiama, con quelle cinque ore al giorno in cui sto da solo immobile. È con
questo, con la realtà che ho di fronte adesso, che Dio dice di me». Parlandone con un amico mesi
dopo, mi diceva: «Stai imparando un metodo, un metodo per la vita: è la realtà a dettarti il metodo,
non sei tu a imporlo a essa». E in questo per me è stato fondamentale seguire quel luogo dove era
avvenuto l’incontro che io per primo avevo riconosciuto come vero ed essenziale per ripartire dal
niente che avevo in quel momento. Fondamentale per me è stato il mio dramma, ovvero il dramma
del mio cuore, il dramma che nasce dal fatto che la vita o è vocazione o è niente, o è rapporto
costante con l’iniziativa che Cristo prende con te, con cui dice di te attraverso la realtà, o è niente.
Un esempio è che una mattina, qualche mese fa, mi sono svegliato e finalmente mi sentivo
tranquillo. Ho pensato: «Non ho più quell’inquietudine che mi prende tutte le mattine». Allora ho
fatto colazione con calma, mi sono avviato per andare a messa, e dopo dieci minuti non ce la
facevo già più, e, con mia grande sorpresa, mi sono messo a chiedere di poter tornare ad avere
quell’urgenza del cuore, l’urgenza del vivere, la mia urgenza originale (in quanto io sono uomo) di
compimento della mia vita. Perché io avevo affermato, avevo incontrato Colui che aveva risposto e
rispondeva a essa. Mi commuovo accorgendomi del mio seguire. È stata commovente per me la 3
proposta della vendita di Tracce, perché mi dicevo: che grazia che qualcuno ci provochi a prendere
coscienza, ad affermare insieme, accompagnandoci, davanti al mondo cosa ha preso la nostra vita,
per cosa vale la pena vivere, per cosa noi viviamo! E come è commovente per me partecipare nella
comunità a tutti i gesti che vengono proposti, perché, indipendentemente dalla coscienza di chi è lì,
io mi accorgo di essere in compagnia di qualcuno che brama Cristo come me, con cui poter
scoprire Cristo. Come è commovente per me la mattina cominciare la giornata, a volte
sorprendendomi nel mio nulla, proprio leggendo la Scuola di comunità, e riaccorgermi che sono
messo di fronte al fatto che Cristo, nella circostanza che ho di fronte, mi chiede di essere oggetto e
strumento del Suo amore per il mondo. Penso a un mio compagno di corso conosciuto a settembre,
a cui ho dato Tracce: ci siamo fatti compagnia fino al punto che prima ha desiderato condividere
con me il gesto della caritativa, poi ha cominciato a venire anche ad altri gesti. Un mio amico
quest’estate mi chiedeva: «Ma perché vivi così? Quando mai sarai tranquillo, così, nella tua
vita?». E io gli ho risposto: «Vedi? Fino a due anni fa avrei lottato per la mia indipendenza anche
nella fede, oggi non posso fare a meno di vivere nella mia dipendenza totale da Cristo». Non so
quante volte non ho fatto ciò a cui ero chiamato, di sicuro tante, e quante volte lo faccio, e quante
volte lo farò, ma non posso più vivere se non col desiderio di poterLo affermare in ogni istante e
circostanza e di accorgermi come mi preferisce in ogni istante e in ogni circostanza. Il mio «sì» è
tuttora un «sì» imperfetto, istante per istante, ma so di Chi consisto e so che valore ha la mia
sequela.
Attraverso ciò che ci capita il Signore ci fa imparare un metodo. Perché è la realtà a dettarci il
metodo, come ci ha detto don Giussani sin dal primo capitolo de Il senso religioso. Ma tutto questo
per noi è come una premessa, poi lo dimentichiamo e decidiamo da noi stessi che cos’è la realtà e
qual è il metodo per viverla. Ma quando capita una cosa come quella che ci ha raccontato il nostro
amico, misteriosamente è proprio lì che cominciamo a imparare davvero il metodo per la vita. Un
momento prima uno cercava l’indipendenza, cercava la realtà dove pensava che fosse (Cristo
doveva essere fuori dell’ospedale, non dentro), cioè accanto alla vita vera. E invece un momento
dopo scopre che Cristo è proprio dove Lui ci ha messo.
In reparto una nostra paziente, a cui io ero molto affezionata, è stata male, e questo ha determinato
un po’ il clima di tutti quanti, è stato un fatto che si è imposto anche proprio per la drammaticità
della cosa. In questa vicenda io mi sono sentita chiamata in causa dentro al rapporto con lei. E
tutto questo l’ho vissuto in turno con un mio collega, un po’ stufo del nostro lavoro, stufo in
generale della vita e arrabbiato, recriminoso, contro il cristianesimo. Un giorno abbiamo finito il
turno, stavamo fumando l’ultima sigaretta prima di andare a casa, mi guarda e mi dice: «Io ti devo
chiedere una cosa». «Dimmi». «Ma tu perché ami così? Io voglio che tu mi insegni ad amare come
ami tu». A me questo ha impressionato, perché mi sono resa conto che io tantissime volte mi sono
posta la domanda sul rapporto con i miei colleghi (anche rispetto al video su CL e a tante altre
cose), ma questo episodio ha illuminato il fatto che il legame, il ponte, che esiste tra ciò che è
accaduto a me e chi ho di fronte sono io! Io, io come bisogno. Io non so perché lui mi abbia fatto
quella domanda proprio in quel momento, non lo so, tanto che sono rimasta senza parole, e poi
siamo andati avanti a lavorare insieme nei giorni successivi e non so a che cosa questo porterà.
Però per me è stato un contraccolpo innanzitutto l’accorgermi di poter rinascere lì dentro, perché
una domanda così ha a che fare con ciò di cui ho bisogno io.
È un altro che a volte, come in questo caso, ci ridesta a noi stessi in questo modo assolutamente
imprevisto, vedendo la modalità nostra di stare nel reale. Ci diciamo questo non per accontentarci o
per lodarci, ma per accorgerci che già il fatto che ci sia stata fatta una domanda così ci ridesta.
Anch’io nel lavoro sulla Scuola di comunità sono partita dalla domanda che tu ci avevi fatto: come
si fa a vivere intensamente il reale giorno per giorno? Cosa ci ridesta il desiderio? E, guardandomi
in azione, ho potuto vedere che tutto è più vero quando affronto le cose partendo da Cristo, cioè
con la coscienza di non essere sola perché Cristo è con me. Cristo: quella bellezza che è entrata 4
nella mia vita più di trent’anni fa e che ancora adesso riaccade seguendo te. Il desiderio è proprio
ridestato nella sequela, nel seguire ciò che la Chiesa e il movimento mi indicano. Cristo mi chiama
qui e ora attraverso la nostra compagnia, e così, in modi quasi sempre imprevisti e imprevedibili, il
mio rapporto con Lui diventa più solido, cementifica, così che ora posso dire di non sentirmi – mai!
– abbandonata da Lui. Solo in Lui e da Lui posso ripartire, perché i momenti bui nella giornata ci
sono sempre, ma la luce a cui guardare c’è. È proprio la memoria di Cristo che mi dà un respiro
diverso nell’affrontare le cose. Se penso alla mia storia, dire ora queste parole mi fa venire la pelle
d’oca, perché cinque anni fa, quando è morta tragicamente mia sorella, ero solo arrabbiata con
Cristo perché aveva permesso la sua morte, me l’aveva tolta. Ma proprio quel fatto così doloroso
mi ha messo alle strette e costretta a verificare se veramente Cristo aiuta a vivere, cioè se mi aiuta
a vivere soprattutto un dolore così forte e lacerante. Ora può accadermi di tutto, come in questi
ultimi anni mi è proprio accaduto, ma Cristo è così certo per me che non temo più alcuna cosa,
possono anche togliermi tutto, ma Cristo no, non può più essere tolto dalla mia vita perché vive in
me, nel mio io reso nuovo e certo dalla Sua presenza. Come dice sempre anche don Giussani: la
compagnia è nell’io, non esiste una sola cosa che facciamo da soli. Sto sperimentando proprio quel
che mia sorella scrisse nella sua ultima lettera prima di affrontare un’operazione che poi è finita
male: «Gesù abita la mia vita». Io per mesi mi sono chiesta: ma è così anche per me? Gesù abita la
mia vita? Ora dico di sì, perché tutto ciò che vivo è proprio per rendere gloria a Lui, riconosciuto
come significato del mio vivere. E io sto su questa strada, questa «strada bella», perché nella
sequela imparo a convivere con Cristo, e questo mi fa crescere, certa che tutto diventa sempre più
mio, certa che Cristo riaccade seguendo, cioè standoci.
Come vediamo, la risposta che viene fuori dalle esperienze che abbiamo ascoltato raccontare è che
ciò che ridesta il desiderio è la modalità imprevista e imprevedibile attraverso cui pian piano cresce
la certezza di Cristo. Così noi possiamo partire sempre da questa memoria, che non è un fatto del
passato, perché non possiamo più staccarlo da noi stessi. Questo è l’esito che Cristo porta nella vita:
non ci viene risparmiato niente, ma che l’io cristiano è un io diverso, è un io dove tutto è abitato da
quella Presenza che nessuno ci può più togliere di dosso. È questo che portiamo al mondo, che
mettiamo davanti a tutti nel modo di stare nel reale. Allora, quel che ci ridesta può essere la realtà in
tanti modi o la memoria di Cristo. Ma uno mi domanda attraverso una mail: «Riprendendo il testo e
soprattutto vivendo la vita di ogni giorno, colgo il valore delle circostanze come guida
all’esperienza concreta e stabile di Cristo, ma nello stesso tempo mi sembra che le circostanze da
sole non bastino. Cristo c’è, le circostanze ci sono, ma io mi perdo. Ho famiglia, lavoro, amici,
circostanze e problemi normali, ma l’illogica o forse logica allegria va spesso a farsi friggere. E
allora cosa manca?». Cosa manca?
Sono rimasto molto colpito nell’ultima Scuola di comunità dall’osservazione che tu hai fatto sul
«mitico però» e sul «ma poi», perché io in fondo ho sempre seguito la Scuola di comunità e sono
sempre stato convito di essere d’accordo e capire. Poi uscivo dalla porta e il «mitico però» e il «ma
poi»…
…Entravano dalla finestra!
Eh, sì. Quindi ho provato a rispondere alle domande che tu ci hai lasciato alla fine della scorsa
volta. E questa è la mia esperienza degli ultimi anni di tentativi nel cammino. Fin dalla prima
elementare, mi ricordo che prendevo a calci i sassi in strada chiedendomi perché non potevo essere
come loro: senza pensieri e senza problemi. Tanti fatti, anche drammatici e dolorosi, poi sono
accaduti negli anni: la morte di mia madre quando ero poco più che fanciullo, il dolore di mia
sorella che non può avere figli, la frustrazione di mio fratello per un tumore, le cure di mio padre
per un cancro che non promette bene. Se dovessi tirare la riga, come ho sempre fatto, è evidente
che i conti non tornerebbero, e mi resterebbe, come sempre, una pietistica consolazione religiosa,
buona ma formale. Il fatto, però, di avere sempre avuto i conti che non tornano mi ha
costantemente riempito di tante domande su tutto, e ho sempre avuto paura di non riuscire a 5
trovare una risposta, finendo così per eliminare e tacitare le domande, pensando che o ero io che
non funzionavo o le mie circostanze erano troppo cattive.
Capite? «O ero io che non funzionavo o le mie circostanze erano troppo cattive». La conseguenza di
questo è che i conti non tornano, e alla fine resta soltanto «una pietistica consolazione religiosa,
buona ma formale». Come diceva la domanda che ho appena citato: «Cristo c’è, le circostanze ci
sono, ma io mi perdo». Abbiamo tutto, ma io mi perdo. E quindi?
Poi…
«Poi»! Non: «Ma poi»… «Poi»!
Poi ho visto te. E ho notato – questa è la cosa che più mi ha colpito – che non solo tu hai più
domande di me su tutto, ma soprattutto non ne hai paura. Ma come? Sei il responsabile eccetera
eccetera. Dovresti avere risposte! Così per me vivere intensamente il reale è diventato un lasciare
esplodere tutti i giorni queste domande che sono più me di me stesso, sono la mia natura di cui ho
sempre avuto paura. La nostalgia, la tristezza e la solitudine sono compagne tutti i giorni, e non
solo non si spengono, ma aumentano nel tempo, e così mi sono diventate care. Non passa giorno
senza che almeno una parola sentita o un pensiero accolto o una frase letta o uno sguardo
incrociato entri nelle mie domande, mi scuota e mi faccia desiderare di essere di nuovo. Io non
sono un eroe del desiderio che non mi posso dare, ma me ne accorgo quando mi viene riacceso.
Dunque, che cosa manca? Che cosa manca alla fede, tante volte? Manca l’io. Perché non basta dire:
«Cristo c’è». Non basta dire: «Le circostanze ci sono». Io mi posso comunque perdere. Lo
dicevamo in un passaggio degli Esercizi della Fraternità del 2009: «Ma come mai – se è così palese
questa testimonianza, se siamo circondati da una così grande quantità di testimoni –, come mai
dopo un po’ siamo di nuovo smarriti, incastrati nel nostro sentimento, soffocati nella circostanza?
Ciò che manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da testimoni!); manca
l’umano. Se l’umanità non è in gioco, il cammino della conoscenza si ferma» (J. Carrón, «Dalla
fede il metodo», suppl. a Tracce, n. 5/2009, p. 21). Allora che cosa fa Cristo? In che cosa si
documenta che Cristo c’è e che Cristo sta veramente dando un contributo a ciò che mi manca? Ci
rende consapevoli che così i conti non tornano. Perché neanche a me tornavano i conti; e io di
consolazione religiosa, essendo entrato in seminario a dieci anni, ne avevo tanta quanta ne volevo.
Ma i conti non tornavano. Lo capisco benissimo, per questo so perfettamente che cosa mancava, e
vi ho detto sempre che io ringrazio don Giussani perché, da quando l’ho conosciuto, mi ha
consentito di fare un cammino umano che coinvolge il mio io nel mio cammino, facendomi
prendere sul serio le domande (perché la domanda è una parte fondamentale della strada). E per
questo adesso ho meno paura delle domande, anzi, veramente le considero amiche. Vengano da
dove vengano, escano da dove escano, sorgano da dove sorgano, una domanda è sempre qualcosa
che mi mette in moto alla ricerca di una risposta. Senza le domande Cristo rimarrebbe un «puro
nome», dice Giussani. Ma noi tante volte vogliamo risparmiarci proprio questo! Il risultato è una
fede formale, che poi davanti alle cose ci fa rimanere senza parole. Non è un accanimento del
Mistero contro noi. Tutto quanto ci accade – ci siamo sempre sentiti dire da don Giussani – è per la
nostra maturazione, cioè perché venga sempre più fuori un io consistente. E proprio questa
consistenza è la cosa che veramente sorprende oggi nel reale, come testimonia la domanda che è
stata fatta all’amica che è intervenuta prima: «Ma tu perché ami così?». Perché è possibile stare nel
reale così? Di discorsi religiosi ne hanno tutti da vendere, come anche noi. Ma ciò di cui abbiamo
bisogno noi e di cui hanno bisogno gli altri è di incontrare qualcuno in cui accade qualcosa che
ridesti ancora il desiderio. Questo è possibile.
Vorrei condividere con tutti voi la mia esperienza e il mio incontro con il movimento. Era un
qualunque martedì, mi trovavo a camminare lungo la strada che mi avrebbe condotta fino a casa. A
un certo punto, subito dopo aver attraversato una strada, un ragazzo mi ha fermata chiedendomi di
ascoltarlo per qualche minuto. Cosa voleva quel ragazzo da me? Semplicemente che gli dedicassi
qualche istante, e mi sono detta: perché negarglielo? Ha iniziato a raccontarmi di quanto
Comunione e Liberazione gli avesse cambiato la vita, di quanto il cristianesimo e la presenza di 6
Dio fossero importanti per vivere fino in fondo la sua quotidianità. Attraverso l’intensità delle sue
frasi, più mi parlava, più mi guardava negli occhi e più mi rendevo conto di quanto avessi tolto
linfa vitale alla mia esistenza, negli ultimi tempi. Quel giorno quel ragazzo mi ha dato Tracce, un
giornale come un altro, apparentemente. Ma da quando ho iniziato a leggere le testimonianze della
gente, il mio cuore ha nuovamente compreso cosa siano lo stupore, la pienezza e la meraviglia. Mi
dicevo: sono solo parole, semplici parole, ma come fanno a colpirmi così tanto? In allegato al
giornale c’era il video dei sessant’anni del movimento. Guardandolo, ho iniziato a capire in cosa
consistesse Comunione e Liberazione; un qualcosa che mi colpiva nel profondo, ma non mi era
ancora del tutto chiaro. Qualche giorno dopo ho riferito i miei dubbi e posto le mie numerose
domande a quel ragazzo, il quale, cercando di portarmi dinanzi all’esperienza vera e concreta, mi
ha invitato a partecipare alla Scuola di comunità. Non nego che, dal momento in cui ho sentito
quelle meravigliose persone raccontare della propria vita e della loro quotidianità, con immensa
spontaneità mi sono resa conto di quanto il mio mondo fosse stato immobile fino a quel momento. È
stato molto emozionante anche sentire dire a quel ragazzo di quanto il nostro incontro avesse
provocato lui stesso, poiché gli aveva permesso di riscoprire la bellezza di ciò che gli era stato
donato. Dal giorno in cui ho incontrato quel ragazzo e tutti i suoi splendidi amici, che adesso
considero anche miei, ho ricominciato a sentire la presenza di Dio nella mia vita più forte che mai,
ho ripreso a incontrarLo da sola e insieme a loro. Posso solo dirgli grazie per avermi permesso di
far parte di questo mondo, grazie per avermi permesso di stare in prima fila all’inizio di questo
nuovo percorso che è la mia vita insieme a tutti voi. Adesso mi sveglio al mattino con uno scopo,
con la voglia di godere della presenza di Dio in ogni momento della mia giornata e con l’immensa
energia che mi porta a volere incontrare tutti loro ogni giorno per poter raccontare ogni singola
cosa che mi stupisce e mi provoca in ogni istante della mia vita.
Grazie, carissima. La proposta di un gesto come la vendita di Tracce con il dvd allegato ha
provocato in questo ragazzo la riscoperta della bellezza per sé vedendo quel che succedeva in lei.
Una cosa simile mi raccontava un universitario, che ha incontrato e invitato un ragazzo musulmano
a vedere il video, il quale alla fine ha detto: «Io non sapevo ci fosse una cosa così, non mi ero reso
conto che potesse esistere. Bisognerebbe che il mondo lo sapesse!». Abbiamo la testimonianza di
tanti ringraziamenti come questi, e non perché siamo bravi, ma perché condividiamo con gli altri
l’Avvenimento che ci ha preso. È questo il cammino che abbiamo fatto lungo questo mese grazie
alla vendita di Tracce, un’esperienza nella quale ciascuno che vi ha partecipato ha potuto
sperimentare un’enorme possibilità di testimoniare agli altri cosa ci è capitato. Per esempio, una
persona mi raccontava di avere visto il video con un suo collega che era sempre stato avverso al
movimento per un’esperienza avuta con qualcuno di noi nel passato; ma dopo il video, ha dovuto
ammettere: «Non mi tornano i conti. Ho visto un’altra cosa che non immaginavo». La novità che si
è introdotta in questa persona, che aveva e avrebbe tante cose da rimproverarci, non è stata il frutto
di una dialettica, ma del trovarsi davanti la vita di tanti di noi che, con tutti i limiti che sappiamo di
avere, hanno cercato di condividere l’Avvenimento con altri. Perciò, alla fine di questo periodo di
impegno per il Tracce con allegato il video, dobbiamo veramente renderci consapevoli di che cosa è
capitato, affinché non resti un gesto non giudicato, cioè un’esperienza di cui non facciamo tesoro. In
questo anno tante volte ci siamo domandati: che cos’è la presenza? Come possiamo essere presenti
in una situazione storica come questa? Ecco, abbiamo visto che è non così complicato, perché tante
e tante persone sono rimaste colpite e “spiazzate” dalla bellezza di ciò che hanno visto come strada
possibile per loro, trovandosi davanti un’umanità che vorrebbero anche per se stesse. È successo
qualcosa di imprevisto anche per noi, che tante volte ci domandavamo: come possiamo comunicare
quel che ci è capitato? È stato facile, esattamente come lo ha sempre descritto don Giussani: è
qualcosa che viene prima di qualsiasi altra spiegazione. Tutto si può riassumere in quella frase di
Qualcosa che viene prima: «L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di
umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che
aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere e lo muove a
seguire» (L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», Tracce, n.10/2008, p. 1). È semplice. Perché, 7
come emerge dal video, il linguaggio del fatto è la testimonianza, una novità di vita che si vede,
un’esperienza umana desiderabile. E per questo, comunicandolo agli altri, ci siamo ritrovati anche
noi sorpresi di che cosa portiamo, di quale grazia ci è capitata. Lo diceva adesso la nostra nuova
amica: è lei stessa stupita che il ragazzo che ha incontrato si sia reso consapevole di che cosa
portava nel comunicarlo a lei. La fede cresce donandola, cresce testimoniandola. Siamo noi i primi
a trarre frutto dai gesti che ci proponiamo. Quanti di voi lo hanno testimoniato in tante lettere che
sono arrivate a proposito del lavoro per la vendita di Tracce e la diffusione del video, del radunarsi
a vederlo insieme con i vicini, con la gente del condominio, con i colleghi, con gli amici. I primi a
guadagnarci siamo stati noi, come consapevolezza di ciò che ci è capitato. E come il Mistero ce lo
ha ridonato di nuovo? Non facendoci un discorso, ma in carne e ossa attraverso il cambiamento
accaduto agli altri, attraverso lo stupore di parole nuove piene di significato. Avevamo delle ragioni
per impegnarci in questo gesto per ciò che ci è capitato, e abbiamo visto che questo impegnarci ha
dato come frutto il guadagnare ancora più ragioni! «Avevo deciso, per molti validissimi motivi, di
non dare la mia disponibilità alla vendita di Tracce. Il parroco però si è avvicinato e ha chiesto di
presentare noi il gesto al termine della messa. Io ho pensato: perché proprio io, non può farlo
qualcun altro? La sera precedente questo invito del parroco, a Scuola di comunità ci era proprio
stato richiamato di vivere quel gesto testimoniando cosa significava per noi essere del movimento:
il movimento sono io, Tracce sono io. Io me l’ero lasciato scivolare sopra, tanto non mi riguardava.
Ma a quel punto ho dovuto lasciare uno spiraglio al Mistero perché potesse entrare nel mio cuore;
così ho detto di sì e ho cominciato per la prima volta a domandarmi perché io tengo alla Scuola di
comunità, al movimento, a essere cristiana. Ho riscoperto di essere dentro questa strada nella Chiesa
perché sono stata chiamata, scelta, mi sento preferita e sono contenta di essere cristiana. Così ho
chiesto all’assemblea dei fedeli in chiesa di condividere con me questa gioia acquistando, appunto,
Tracce. Il metodo è proprio lo stare davanti alla realtà prima di difenderci da essa, con lo stupore
del bambino che davanti a una cosa che non si aspetta dice: “Oooh!”». Perché questo non è un
tentativo in alcun modo autocelebrativo, a nessuno il video ha consentito questa autocelebrazione.
Come diceva Davide Prosperi durante una riunione: «Vederlo è stato stare davanti a una Presenza
che in qualche modo ti giudica, in senso positivo. Non ci ha lasciato indifferenti [uno si sente messo
in discussione rispetto a quel che vive]. In che senso ci giudica? Davanti a uno che ti racconta una
cosa bella o che ti fa vedere che c’è qualcuno che fa delle cose grandi, avverti immediatamente il
desiderio di una pienezza di vita che è mostrata già in atto in una realtà umana che ha tante facce,
tanti aspetti, ma della quale vedi immediatamente il filo conduttore, sia in Asia o in America o in
Australia. E vedi che realmente è la stessa cosa che sta succedendo, con volti diversi. Una persona
che da tanti anni era un po’ ai margini del movimento, vedendo il video mi ha detto: “Ma io cosa mi
sono perso in tutti questi anni?”. Nella sua semplicità questo colpisce perché vuol dire che uno sente
giudicata la sua vita come una possibilità. In questo senso è un giudizio positivo, è un giudizio che
spalanca il desiderio, che non lascia indifferente, che non ci lascia soltanto un gusto estetico, ma ci
ridesta tutta la voglia di un “di più”, perché uno si sente giudicato davanti a una Presenza». È
l’invito con cui Cristo ci chiama ancora, ha pietà di ciascuno di noi. Per questo avere partecipato a
un gesto così ha portato a tanti di noi una ricchezza inaspettata. Mi auguro che ciascuno di noi possa
farne tesoro, perché tutti i gesti che ci proponiamo, tutte le proposte che ci facciamo, hanno soltanto
questo come scopo. E così non ci lasciamo tranquilli, offrendoci sempre questa possibilità.
Perciò, per la prossima Scuola di comunità riprendiamo l’ultima parte della Giornata d’inizio anno.
Abbiamo visto oggi come tutto si gioca nella drammaticità del vivere. E allora vi propongo di
tenere davanti agli occhi durante questo mese la parabola del figliol prodigo. In essa vediamo come
a quel figlio la realtà era stata data, eccome, la realtà era buona, tutta buona: un padre, una casa, dei
beni. Tutto era positivo, ma non è bastato. Pensate che l’uomo è stato creato da Dio non in una casa
come quella del figliol prodigo, ma addirittura nel paradiso terrestre, e il Padre passeggiava tutte le
sere con l’uomo! Ma siccome era stato creato libero, l’uomo doveva decidere di accettarLo, di
accoglierLo, perché non c’è accesso alla verità, se non attraverso la libertà. Eppure tante volte noi
sentiamo stretto ciò che ci è stato dato, proprio come il figliol prodigo sentiva stretta la sua casa, e 8
decise di abbandonarla per andare dietro a una immagine di compimento diversa da quella che gli
era stata donata, per andare dietro a una percezione ridotta del bisogno del proprio io. Così il padre
lo lascia andare, e comincia la grande avventura del vivere. Di quanto tempo abbiamo bisogno per
capire veramente qual è il nostro bisogno e così potere riscoprire la grazia di avere un Padre? Per
questo vi rilancio alcune domande. Che percorso ha dovuto compiere la tua libertà per scoprire la
verità? In che cosa hai potuto scoprire qualche pezzo di verità, qualche aspetto del vivere, attraverso
ciò che ti è capitato nella vita? Niente, come abbiamo visto, è automatico. Niente è automatico,
perché Dio non vuole alcun automatismo. Il padre della parabola non vuole un figlio che stia in casa
formalmente, perché il figlio, a un certo punto, si stanca e va via; e che non basta restare
formalmente lo si vede dall’atteggiamento del figlio maggiore, che non ha ancora imparato cosa
vuol dire essere figlio e allora si lamenta. Mi sembra una questione che dobbiamo avere tutti
davanti ai nostri occhi.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 17 dicembre alle ore 21,30.
Sabato 29 novembre si terrà la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. È un altro gesto
proposto alla nostra libertà. Ogni anno proponiamo a tutti di partecipare a questo gesto, e nel
periodo di Natale di sostenere le Tende Avsi. Perché facciamo questi gesti? Noi dobbiamo
recuperare di nuovo le ragioni, perché niente è automatico. Ogni generazione deve recuperare le
ragioni, perché gesti come questi sono iniziati anni fa, ma non si può vivere di rendita, dobbiamo
recuperare di nuovo e sempre le ragioni, come diceva Benedetto XVI, vivendo questi gesti come
occasioni educative per risvegliare noi stessi, come abbiamo visto nella vendita di Tracce: quante
persone, facendolo, hanno dovuto darsi le ragioni e le hanno riscoperte nel dialogo con gli altri o in
quello che gli altri hanno detto. Così anche questi gesti sono innanzitutto per noi, non per risolvere
il problema della fame, anche perché non saremmo in grado. Non possiamo pensare di cavarcela da
noi stessi o con qualche strategia di volontariato. Quello che facciamo con la Colletta Alimentare e
con le Tende Avsi è dare un piccolo segnale, attraverso questi gesti noi prendiamo consapevolezza
della natura del nostro bisogno. E il bisogno che abbiamo è quello di imparare la gratuità in tutti i
rapporti, perché ci interessa vivere la gratuità in famiglia, tra moroso e morosa, sul lavoro, nella
comunità; questo è lo scopo per cui don Giussani ci ha educato alla caritativa. Rendendoci conto di
qual è la natura del nostro problema umano, potremo incominciare a capire la grazia che ci è
capitata, come diceva Giovanni Paolo II: «Non ci sarà fedeltà […] se non si troverà nel cuore
dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio offre risposta» (Giovanni Paolo II, Omelia, Viaggio
nella Repubblica Dominicana, Messico e Bahamas, Città del Messico, 26 gennaio 1979). In questo
momento storico, in cui tocchiamo con mano la riduzione dell’io, la proposta di questi gesti è
qualcosa di cruciale per riconquistare la coscienza di noi stessi. Per questo, allo stesso tempo,
rispondiamo a un bisogno e acquistiamo coscienza noi di noi stessi e del nostro bisogno. Il
contributo, poi, che possiamo dare a coloro che, pur non essendo del movimento, partecipano alla
Colletta e alle Tende, è proprio quello di potere toccare, almeno in questo momento, il lembo del
mantello attraverso di noi che viviamo questo gesto con la coscienza che don Giussani ci ha
ridestato, a cui ci ha educato con il gesto della caritativa.
È disponibile il Volantone di Natale sia in formato grande che piccolo. Sono due i testi proposti.
Il primo è di papa Francesco: «La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro
personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza.
Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che
si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova».
Il secondo è don Giussani: «È un Altro che prende iniziativa verso la nostra vita, così è un Altro che
salva la nostra vita, la porta alla conoscenza del vero, la porta all’adesione alla realtà, la porta
all’affezione per il vero, la porta all’amore alla realtà. Se si accetta quest’annuncio come un’ipotesi
di lavoro, allora il respiro ritorna, tutto diventa più semplice, si dice pane al pane e vino al vino, vita 9
alla vita e morte alla morte, amico all’amico, si diventa più contenti e tutto diventa ancor di più
origine di stupore. E quanto più uno cerca di vivere questo tanto più capisce la sproporzione, e
cammina umilmente, perché questo Altro che interviene mi prende ogni momento, mi prende e mi
riprende, mi rilancia, e compirà l’opera che ha iniziato: ci fa giungere al destino».
Più adeguato per il nostro cammino, ora, è impossibile da trovare.
Nuove date Meeting di Rimini. Questa è una novità storica, attenzione! Vi prego di prendere nota
da subito che il prossimo Meeting di Rimini si terrà da giovedì 20 a mercoledì 26 agosto 2015 con
chiusura alle ore 24.
Veni Sancte Spiritus