mercoledì 24 aprile 2013

La Chiesa non è una ong. E’ una storia d’amore, è Madre.

Piazza San Pietro    Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
nel Credo noi professiamo che Gesù «di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». La storia umana ha inizio con la creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e si chiude con il giudizio finale di Cristo. Spesso si dimenticano questi due poli della storia, e soprattutto la fede nel ritorno di Cristo e nel giudizio finale a volte non è così chiara e salda nel cuore dei cristiani. Gesù, durante la vita pubblica, si è soffermato spesso sulla realtà della sua ultima venuta. Oggi vorrei riflettere su tre testi evangelici che ci aiutano ad entrare in questo mistero: quello delle dieci vergini, quello dei talenti e quello del giudizio finale. Tutti e tre fanno parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi, nel Vangelo di san Matteo.
Anzitutto ricordiamo che, con l’Ascensione, il Figlio di Dio ha portato presso il Padre la nostra umanità da Lui assunta e vuole attirare tutti a sé, chiamare tutto il mondo ad essere accolto tra le braccia aperte di Dio, affinché, alla fine della storia, l’intera realtà sia consegnata al Padre. C’è, però, questo “tempo immediato” tra la prima venuta di Cristo e l’ultima, che è proprio il tempo che stiamo vivendo. In questo contesto del “tempo immediato” si colloca la parabola delle dieci vergini (cfr Mt 25,1-13). Si tratta di dieci ragazze che aspettano l’arrivo dello Sposo, ma questi tarda ed esse si addormentano. All’annuncio improvviso che lo Sposo sta arrivando, tutte si preparano ad accoglierlo, ma mentre cinque di esse, sagge, hanno olio per alimentare le proprie lampade, le altre, stolte, restano con le lampade spente perché non ne hanno; e mentre lo cercano giunge lo Sposo e le vergini stolte trovano chiusa la porta che introduce alla festa nuziale. Bussano con insistenza, ma ormai è troppo tardi, lo Sposo risponde: non vi conosco. Lo Sposo è il Signore, e il tempo di attesa del suo arrivo è il tempo che Egli ci dona, a tutti noi, con misericordia e pazienza, prima della sua venuta finale; è un tempo di vigilanza; tempo in cui dobbiamo tenere accese le lampade della fede, della speranza e della carità, in cui tenere aperto il cuore al bene, alla bellezza e alla verità; tempo da vivere secondo Dio, poiché non conosciamo né il giorno, né l’ora del ritorno di Cristo. Quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro - preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, l’incontro con Gesù -, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù. Non addormentarci!
La seconda parabola, quella dei talenti, ci fa riflettere sul rapporto tra come impieghiamo i doni ricevuti da Dio e il suo ritorno, in cui ci chiederà come li abbiamo utilizzati (cfr Mt 25,14-30). Conosciamo bene la parabola: prima della partenza, il padrone consegna ad ogni servo alcuni talenti, affinché siano utilizzati bene durante la sua assenza. Al primo ne consegna cinque, al secondo due e al terzo uno. Nel periodo di assenza, i primi due servi moltiplicano i loro talenti – queste sono antiche monete -, mentre il terzo preferisce sotterrare il proprio e consegnarlo intatto al padrone. Al suo ritorno, il padrone giudica il loro operato: loda i primi due, mentre il terzo viene cacciato fuori nelle tenebre, perché ha tenuto nascosto per paura il talento, chiudendosi in se stesso. Un cristiano che si chiude in se stesso, che nasconde tutto quello che il Signore gli ha dato è un cristiano… non è cristiano! E’ un cristiano che non ringrazia Dio per tutto quello che gli ha donato! Questo ci dice che l’attesa del ritorno del Signore è il tempo dell’azione - noi siamo nel tempo dell’azione -, il tempo in cui mettere a frutto i doni di Dio non per noi stessi, ma per Lui, per la Chiesa, per gli altri, il tempo in cui cercare sempre di far crescere il bene nel mondo. E in particolare in questo tempo di crisi, oggi, è importante non chiudersi in se stessi, sotterrando il proprio talento, le proprie ricchezze spirituali, intellettuali, materiali, tutto quello che il Signore ci ha dato, ma aprirsi, essere solidali, essere attenti all’altro. Nella piazza, ho visto che ci sono molti giovani: è vero, questo? Ci sono molti giovani? Dove sono? A voi, che siete all’inizio del cammino della vita, chiedo: Avete pensato ai talenti che Dio vi ha dato? Avete pensato a come potete metterli a servizio degli altri? Non sotterrate i talenti! Scommettete su ideali grandi, quegli ideali che allargano il cuore, quegli ideali di servizio che renderanno fecondi i vostri talenti. La vita non ci è data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data perché la doniamo. Cari giovani, abbiate un animo grande! Non abbiate paura di sognare cose grandi!
Infine, una parola sul brano del giudizio finale, in cui viene descritta la seconda venuta del Signore, quando Egli giudicherà tutti gli esseri umani, vivi e morti (cfr Mt 25,31-46). L’immagine utilizzata dall’evangelista è quella del pastore che separa le pecore dalle capre. Alla destra sono posti coloro che hanno agito secondo la volontà di Dio, soccorrendo il prossimo affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato - ho detto “straniero”: penso a tanti stranieri che sono qui nella diocesi di Roma: cosa facciamo per loro? - mentre alla sinistra vanno coloro che non hanno soccorso il prossimo. Questo ci dice che noi saremo giudicati da Dio sulla carità, su come lo avremo amato nei nostri fratelli, specialmente i più deboli e bisognosi. Certo, dobbiamo sempre tenere ben presente che noi siamo giustificati, siamo salvati per grazia, per un atto di amore gratuito di Dio che sempre ci precede; da soli non possiamo fare nulla. La fede è anzitutto un dono che noi abbiamo ricevuto. Ma per portare frutti, la grazia di Dio richiede sempre la nostra apertura a Lui, la nostra risposta libera e concreta. Cristo viene a portarci la misericordia di Dio che salva. A noi è chiesto di affidarci a Lui, di corrispondere al dono del suo amore con una vita buona, fatta di azioni animate dalla fede e dall’amore.
Cari fratelli e sorelle, guardare al giudizio finale non ci faccia mai paura; ci spinga piuttosto a vivere meglio il presente. Dio ci offre con misericordia e pazienza questo tempo affinché impariamo ogni giorno a riconoscerlo nei poveri e nei piccoli, ci adoperiamo per il bene e siamo vigilanti nella preghiera e nell’amore. Il Signore, al termine della nostra esistenza e della storia, possa riconoscerci come servi buoni e fedeli. Grazie.

martedì 23 aprile 2013

IL MESSAGGIO DI NAPOLITANO - Ritorno alla realtà


Giorgio Napolitano.


Giorgio Napolitano

23/04/2013 - Le parole Capo dello Stato sono state lette da tanti come uno «schiaffo ai partiti». Ma c'è molto di più. Dalla consapevolezza della situazione del Paese all'indicazione di una strada da seguire. Con un timone chiaro: quello del bene comune
Ai tanti motivi che ormai abbiamo per essere grati a Giorgio Napolitano, da ieri se n’è aggiunto un altro: il suo Messaggio alle Camere in occasione del nuovo giuramento da Presidente della Repubblica. È molto di più di quello «schiaffo ai partiti» che ha affollato molti titoli di giornali. È un ritorno alla realtà. E, per certi versi, alla politica.

C’è in primo luogo la consapevolezza piena della gravità della situazione, così evidente eppure apparentemente ignorata dall’inspiegabile cupio dissolvi di un Parlamento che rischiava di «avviarsi nell’inconcludenza». C’è una lettura lucidissima, quasi spietata per la sua nettezza, delle cause prossime che hanno portato a questa situazione: quella «lunga serie di omissioni, guasti e irresponsabilità» che hanno fatto prevalere «contrapposizioni, lentezze, esitazioni» e «calcoli di convenienza» rispetto alle scelte da prendere e alle riforme da fare, che pure il Presidente elenca nel dettaglio. E c’è, potente, l’indicazione dell’origine di questo stallo ostinato che accentua la sofferenza del Paese: quella «sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse» che «è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica».

Napolitano ne parla come del riflesso concreto «di un paio di decenni di contrapposizione - fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile - come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici». È impossibile dargli torto. È in questo «orrore», in questa «percezione dell’avversario politico come un nemico» anziché «una risorsa e un bene» (come scriveva qualche giorno fa Julián Carrón in una lettera a Repubblica) che la politica inizia a negare le sue stesse ragioni. Fino a divorare se stessa. È questo l’ostacolo più ostico, il punto che chiama al lavoro più duro - come evidenziano anche certi commenti dentro e fuori i partiti, già spostati sul «ci conviene o no un sì alle larghe intese». Ma è un lavoro ineludibile, per ognuno di noi.

E qui entra in gioco un altro aspetto che colpisce nella presa di posizione del Presidente: il valore della sua testimonianza personale. A 87 anni, dopo una vita passata tra torti e ragioni a «portare giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica», come ha ricordato lui stesso, davanti all’emergenza non si è tirato indietro. Non ha detto «non è più affare mio». Ha accettato il sacrificio di impegnarsi, di nuovo. E, facendolo, ha fatto capire meglio che cosa c’è in gioco, l’urgenza e i termini della questione. Ci ha aiutato a prenderne coscienza, come ogni testimonianza vera. Ma soprattutto ha indicato una strada possibile ad ognuno, lì dove è. A me e te, là dove siamo. Assumerci le nostre responsabilità di fronte al reale, senza tirarci indietro. Fare quello che c’è da fare, che tocca. Dentro e fuori la politica. Sul lavoro, con i figli, a casa… Ovunque. E chi vive un’esperienza cristiana reale sa bene che è la sua stessa vita, in ogni aspetto, ad avere un impatto su tutta la società, se è vissuta alla luce della fede.

Che poi nel discorso di ieri ci sia un richiamo diretto alle parole che Napolitano disse al Meeting di Rimini nel 2011, per noi è una responsabilità in più. È un richiamo a «portare, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza», come ci chiese lui stesso in quella occasione. E a prendere coscienza della portata di ciò che abbiamo per le mani. Per noi, e per il nostro Paese.

http://www.tracce.it

Papa Francesco:«Arrampicatori anche nella Chiesa Gesù la sola porta»





papa Francesco: i cristiani sono umili, poveri e miti, gli arrampicatori non hanno fede

Nel Vangelo proposto dalla liturgia del giorno, Gesù dice che chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, non è il pastore. L’unica porta per entrare nel Regno di Dio, per entrare nella Chiesa – afferma il Papa - è Gesù stesso. “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro o un brigante”. E’ “uno che vuole fare profitto per se stesso” – dice il Pontefice – è uno che “vuole salire”: 

“Anche nelle comunità cristiane ci sono questi arrampicatori, no?, che cercano il loro … e coscientemente o incoscientemente fanno finta di entrare ma sono ladri e briganti. Perché? Perché rubano la gloria a Gesù, vogliono la propria gloria e questo è quello che diceva ai farisei: ‘Voi girate la gloria uno all’altro …’. Una religione un po’ da negozio, no? Io do la gloria a te e tu dai la gloria a me. Ma questi non sono entrati dalla porta vera. La porta è Gesù e chi non entra da questa porta si sbaglia. E come so che la porta vera è Gesù? Come so che questa porta è quella di Gesù? Ma, prendi le Beatitudini e fa quello che dicono le Beatitudini. Sei umile, sei povero, sei mite, sei giusto …”.

Ma “Gesù – prosegue il Papa - non solo è la porta: è il cammino, è la strada. Ci sono tanti sentieri, forse più vantaggiosi per arrivare”: ma sono “ingannevoli, non sono veri: sono falsi. La strada è soltanto Gesù”: 

“Ma qualcuno di voi dirà: ‘Padre, lei è fondamentalista!’. No, semplicemente questo l’ha detto Gesù: ‘Io sono la porta’, ‘Io sono il cammino’ per darci la vita. Semplicemente. E’ una porta bella, una porta d’amore, è una porta che non ci inganna, non è falsa. Sempre dice la verità. Ma con tenerezza, con amore. Ma sempre noi abbiamo quello che è stato all’origine del peccato originale, no? Abbiamo la voglia di avere la chiave di interpretazione di tutto, la chiave e il potere di fare la nostra strada, qualsiasi essa sia, di trovare la nostra porta, qualsiasi essa sia”.

“A volte – afferma il Papa - abbiamo la tentazione di essere troppo padroni di noi stessi e non umili figli e servi del Signore”: 

“E questa è la tentazione di cercare altre porte o altre finestre per entrare nel Regno di Dio. Soltanto si entra da quella porta che si chiama Gesù. Soltanto si entra da quella porta che ci porta su una strada che è una strada che si chiama Gesù e ci porta alla vita che si chiama Gesù. Tutti coloro che fanno un’altra cosa – dice il Signore – che salgono per entrare dalla finestra, sono ‘ladri e briganti’. E’ semplice, il Signore. Non parla difficile: Lui è semplice”. 

Il Papa invita a chiedere “la grazia di bussare sempre a quella porta”:

“A volte è chiusa: noi siamo tristi, abbiamo desolazione, abbiamo problemi a bussare, a bussare a quella porta. Non andare a cercare altre porte che sembrano più facili, più confortevoli, più alla mano. Sempre quella: Gesù. E Gesù non delude mai, Gesù non inganna, Gesù non è un ladro, non è un brigante. Ha dato la sua vita per me: ciascuno di noi deve dire questo: ‘E tu che hai dato la vita per me, per favore, apri, perché io possa entrare
’”.
http://it.radiovaticana.va

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=zZzG_UOr4Co




lunedì 22 aprile 2013

«Affermare il valore dell’altro per il bene comune al di sopra di qualsiasi interesse» Cl scrive a Napolitano


Giorgio Napolitano.

Comunione e Liberazione ha scritto a Giorgio Napolitano per felicitarsi della sua rielezione.

Domenica, da Rimini, dove in 24 mila aderenti a Cl si sono radunati per gli annuali esercizi

spirituali, don Julian Carron, presidente della Fraternità, ha letto il telegramma che è stato

inviato al presidente della Repubblica.

Illustrissimo Signor Presidente, 
24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali, hanno appreso la notizia della Sua rielezione.
«Mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità». Il suo gesto di libertà aumenta l’ammirazione per la Sua persona.
In questo drammatico momento Lei ci appare come una risorsa per l’Italia, di fronte all’urgenza di riprendere la strada di una vera pacificazione che ottenga quel bene così necessario per la vita personale e sociale.
Pur consapevoli dei nostri limiti, come credenti educati da don Giussani alla passione per il destino dei fratelli uomini, desideriamo offrire la nostra testimonianza, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione, affermando il valore dell’altro nella ricerca del bene comune al di sopra di qualsiasi interesse particolare.
Comprendendo il peso enorme della nuova responsabilità, Le auguriamo di ottenere ciò per cui ha accettato questo grande sacrificio. 
Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Milano, 22 aprile 2013.



Al termine della lettura del telegramma è scattato un lungo applauso di approvazione 

da parte  dei presenti.

Negri: «Non tradiamo la nostra autentica tradizione»

luigi_negri  Dialogo con l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio su certi atteggiamenti della cultura cattolica. L’invito è a recuperare l’insegnamento di Giovanni Paolo II e di don Giussan


Monsignor Negri, mi sembra che esista un complesso di inferiorità nel mondo cattolico nei confronti della cultura laica. Si è arrivati a rigettare quella rilettura critica della storia (vedi il Risorgimento, il caso Galileo, il rapporto della Chiesa con la scienza e con lo stato moderno), paradossalmente, proprio quando su quei temi, la stessa cultura laica ha riconosciuto il valore di tali revisioni critiche. È così?
Mi sono trovato inaspettatamente di fronte ad una situazione caratterizzata da un certo degrado culturale. Soprattutto se teniamo presente che negli ultimi decenni, certamente anche per l’impeto culturale che monsignor Luigi Giussani aveva impresso alla realtà del movimento di Comunione e Liberazione, sì è affermata una grande verità della tradizione cattolica: la fede costituisce il criterio di interpretazione più adeguato della realtà; entra in dialettica positiva e costruttiva con ogni forma di ricerca del sapere umano, radicandolo in una profondità nuova, indirizzandolo ad un obiettivo ampio e definitivo. La fede, anziché rappresentare, come per tanta tradizione laicista, neo-protestantica o modernista, una realtà che mette in crisi la presunta neutralità o assolutezza dei vari campi della ricerca, può offrire una vibrazione, un sentimento, una prospettiva di umanità alla ricerca. Invece riscontriamo un dualismo tra fede e cultura che è esattamente il segno, secondo Giovanni Paolo II, della crisi della fede, perché la fede non è da viversi accanto al mondo della cultura come qualcosa di estraneo; la fede diventa cultura per un movimento interno a sé. È il movimento autentico della fede che genera la cultura.
C’è chi sostiene che la Chiesa e il mondo cattolico guardino alla scienza con un certo sospetto, dando l’impressione di un atteggiamento, prima di tutto difensivo, incapace di cogliere e valorizzare adeguatamente la stessa scienza.
La scienza è un termine estremamente complesso, molto variegato, che per certi aspetti contiene elementi di contraddizione. Esiste la scienza buona che, nella maturazione metodologica ed epistemologica degli ultimi decenni, ha certamente perduto ogni pretesa totalitaria. Giovanni Paolo II ha chiarito come alla scienza non si debba chiedere di occuparsi del senso ultimo delle cose, ma di stabilire i sensi particolari dell’esistenza e della realtà. Ora il problema della scienza è quello di salvaguardarla dalla sua deriva di tipo totalitario. La deriva di tipo totalitario è la scienza scientista, più volte criticata da papa Benedetto XVI. Lo scientismo pretende di essere la soluzione immediata di tutti i problemi; pretende di conoscere e organizzare scientificamente tutti gli oggetti, compresi gli oggetti umani. Questa deriva di carattere scientistico è realizzata sempre più chiaramente attraverso il potere tecnologico, per cui si forma un complesso di atteggiamenti e di posizioni che finiscono per rappresentare una seria minaccia all’uomo, alla sua libertà, alla sua dignità. Non dobbiamo dimenticare, e vorrei che chi giura sull’assoluta purità della scienza ci riflettesse, che una certa cattiva scienza è stata di fatto responsabile dell’omicidio di Eluana Englaro. Tutt’altro discorso invece per una scienza che, come diceva Giovanni Paolo II, tiene aperta una dialettica costruttiva e costitutiva con la fede, con la morale, con le grandi istanze etiche che contraddistinguono l’esistenza umana. Allora la scienza in qualche modo riceve da queste impostazioni culturali e morali l’antidoto vero alla tentazione di chiudersi in una visione totalitaria, sostanzialmente antiumana. Questa è una grande sfida per gli uomini e in particolare per i cristiani. Certamente non si possono accettare una scienza e una tecnica che non ammettano nessun confronto critico con quello che viene prima della scienza e della tecnica: l’uomo nel suo bisogno di verità, di bellezza, di bene, di giustizia che nessuna scienza potrà mai adeguatamente assicurare.
Con il senno di poi si potrebbe dire che, se la Chiesa non fosse intervenuta in determinate situazioni del passato, sarebbe stato meglio, perché non avrebbe compiuto quegli errori che poi gli sono stati imputati, a torto o a ragione, per denigrarla. La stessa richiesta di perdono per gli errori del passato compiuta da Giovanni Paolo II lo confermerebbe.
La Chiesa non può mai tacere su nessun problema in nessun ambito dell’esperienza umana perché la Chiesa porta nel mondo la verità della vita umana così come nel Mistero di Cristo, morto e risorto, si è fatta esperienza in Lui e da Lui in tutti quelli che credono. Se qualche cosa sfugge alla capacità di intervento e di giudizio della fede vuol dire che la fede non è in grado di salvare integralmente l’uomo. Gli antichi Padri e poi i primi grandi teologi dell’occidente avevano coniato una formula di straordinaria chiarezza e pertinenza: “quod non est assumptum, non est sanatum”. Ciò che non è assunto nel mistero della fede, cioè nella certezza della risurrezione di Cristo, non può essere redento, rimane fuori dalla redenzione. Se la fede non è in grado di investire tutti gli aspetti dell’umanità, ci si dovrebbe anche chiedere come possa essere vero che Cristo sia il redentore dell’uomo e il centro del cosmo e della storia.
Negli ambienti cattolici a volte sembra prevalere un atteggiamento dove alla ricerca della verità viene anteposta una posizione solo apparentemente dialogica, perché non si vuole cercare veramente di capire, accontentandosi di formulazioni conformiste. Perché succede questo?
Succede questo perché, come ha detto Benedetto XVI più volte al Sinodo dei Vescovi, a cui ho avuto il grande onore di partecipare, l’identità della fede non è forte. Perché il dialogo è l’espressione di un’identità forte, cioè di un’identità pienamente consapevole del proprio valore, capace di dare forma razionale, quindi comunicativa all’esperienza della fede. Se il dialogo, anche con le posizioni più diverse, non è l’espressione dell’identità, allora il dialogo diventa un’alternativa alla fede. Io credo che questo sia il grande pericolo, e non da adesso, che incombe sulla cristianità occidentale e in particolare anche sulla cristianità italiana. Io credo sia questo il grande problema di un’autentica libertà di cultura e di un’autentica libertà di educazione. Senza questa libertà, il dialogo diventa una cosa troppo facilmente manipolabile dalle centrali di potere soprattutto massmediatico.
Fede e cultura, fede e ragione, fede e scienza: qual è l’insegnamento di Giussani a questo riguardo?
La novità portata da Giussani nel campo del rapporto fede-cultura era profondamente tradizionale, affondava le sue radici nella grande tradizione del Magistero e più specificamente nella grande tradizione teologica della scuola di Venegono: la fede è la forma dell’intelligenza e del cuore. Questa formulazione radicale della fede rende capaci, in forza della sua identità, di criticare in modo positivo, di giudicare qualsiasi aspetto della ricerca. Don Giussani ci ha insegnato a rivedere dal punto di vista cristiano tutte le vicende culturali. Questo è stato un grande respiro per la nostra personale ricerca, per la nostra capacità di presenza effettiva nella società, a cominciare dalle scuole e dalle università. Certamente questo è costato a don Giussani e ai suoi amici, fra i quali anche il sottoscritto, almeno per una ventina d’anni, l’accusa di integralismo, mossa da un certo mondo cattolico dualista, per il quale la fede non aveva il diritto di intervenire nelle vicende culturali per non intaccare la legittima autonomia delle realtà terrene. Questa accusa di integralismo, che ha rappresentato in certi momenti una vera e propria discriminazione a livello culturale, è stata un’esperienza faticosa, almeno per alcuni di noi. Ma una fatica da continuare a vivere, perché si tratta di una posizione di sana integralità, di una fede capace di intervenire creativamente dentro i vari campi della realtà, attraverso un confronto molto duro, ma anche molto positivo.
Qual è l’insegnamento di Giovanni Paolo II?
Giovanni Paolo II ha dato a questa formulazione, tradizionale e insieme profondamente innovativa, uno sviluppo, una dilatazione che ci ha lasciati sempre estremamente grati a lui e, nello stesso tempo, confermati nel nostro quotidiano cammino di presenza culturale. La cultura è parte della missione. Se non vive nella missione la cultura diventa sostanzialmente interesse di carattere individualistico, estetico o addirittura interesse economico.
Giovanni Paolo II, ricevendo, nel 1978, gli studenti e i docenti dell’Università Cattolica, a un certo punto disse: «Se è vero che “l’homme passe infinnitament l’homme”, come ha scritto Pascal, allora bisogna dire che la persona non trova una piena realizzazione di se stessa che in riferimento a Colui che costituisce la ragione fondante di tutti i nostri giudizi sull’essere, sul vero, sul bello. Siccome l’infinita trascendenza di questo Dio, che qualcuno ha indicato come il “totalmente altro”, si è avvicinata a noi in Gesù Cristo fattosi carne per essere totalmente partecipe della nostra storia, bisogna allora concludere che la fede cristiana abilita noi credenti ad interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde dell’essere umano e ad indicare con serena e tranquilla sicurezza le vie ed i mezzi di un pieno appagamento».
Questo per me è il punto. Chi accoglie fino in fondo questo insegnamento entra nel vivo di una cultura cattolica creativa. Chi rifiuta in vario modo questo insegnamento si mette in una posizione di inferiorità nei confronti di una cultura mondana che non capisco in che senso possa essere seguita o stimata, essendo storicamente la responsabile delle grandi tragedie del XX secolo. È questa cultura mondana, formulata ideologicamente, che ha portato Robert Conquest, non un piccolo ricercatore delle nostre università, ma uno dei più grandi storici del XX secolo, a definirlo “il secolo delle idee assassine”.
L’insegnamento di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Giussani sono eventi che non possono essere né ridotti, né dimenticati. Vorrei che questo complesso di inferiorità, che sembra comparire qua e là nella compagine del mondo cattolico, non abbia anche il segno terribile di un tradimento della nostra autentica tradizione

Don Giussani non va cercato solo nei suoi scritti, ma nella vita che da lui è nata


Nella semplicità
del mio cuore
lietamente
Ti ho dato tutto
don Luigi Giussani 
15 ottobre 1922
22 febbraio 2005

Cari amici,

don Giussani è stata la persona decisiva che ha aperto la mia mente e il mio cuore agli orizzonti del

mondo e della Chiesa. Se dovessi dire in estrema sintesi la ragione di maggior gratitudine che ho verso 

di lui, direi proprio questo: egli mi ha fatto innamorare di Cristo e della Chiesa. Non mi ha presentato un

Dio rinchiuso in un passato irraggiungibile. Mi ha indicato Cristo presente nella comunione di chi

oggi si lascia raggiungere da lui. Ha spalancato la mia umanità di ragazzo silenzioso e riservato alla

conoscenza dell’uomo, dell’arte, della musica, della poesia. Mi ha insegnato cosa vuol dire

accompagnare le persone, aiutarle a crescere e a fiorire, senza mai sostituirsi a loro. In lui ho visto la

possibilità di valorizzare tutto e tutti nelle loro diversità. Mi ha riempito di curiosità per tutto, perché mi


ha riempito di curiosità per Cristo. Egli, che era un grande comunicatore, mi ha trasmesso la passione


per il rapporto personale con gli uomini e l’urgenza di far conoscere a tutti Gesù, l’unica risposta a


 quella sete di infinito che abita il cuore di ognuno e che don Giussani non smetteva di alimentare in chi


gli stava vicino.


Per tutto questo, oggi, non solo da parte mia, ma a nome della Chiesa intera, desidero ringraziare don 

Giussani. La sua luminosa testimonianza, il suo infaticabile lavoro di educatore di generazioni e 

generazioni di uomini e donne al cristianesimo, la sua fede rocciosa che diventava, in modo naturale,

luce per comprendere la realtà sono un faro importante all’interno della Chiesa. Egli è una miniera

profondissima da cui si possono attingere tanti tesori. Le parole di stima che pochi giorni fa Benedetto

XVI ha avuto ricordando don Giussani sono la testimonianza più grande e più autorevole di tutto ciò:

«Ho conosciuto personalmente don Giussani – ha detto il papa –. Ho conosciuto la sua fede, la sua

gioia, la sua forza e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia;

così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di Comunione e Liberazione» (Saluto 

all’Assemblea generale della Fraternità San Carlo, 6 febbraio 2013).

Se uno volesse conoscere chi è stato don Giussani, dovrebbe sì leggere i suoi scritti, dovrebbe

certamente studiarne la vita, ma, assieme a tutto questo, deve guardare a ciò che di lui vive tra

noi

La vostra presenza qui, ci dice che don Giussani è vivo, perché vive ciò che da lui è nato. Ciò che da 

lui è nato muove anche la vita di persone che non lo hanno conosciuto direttamente. Come è possibile

questo? Anche di altri personaggi storici possiamo conservare un grande ricordo, ma essi non muovono

la nostra vita oggi. Che cosa, dunque, permette a don Giussani di vivere ancora? Rispondere a questa

domanda è di capitale importanza, non solo per coloro che appartengono al movimento da lui fondato,

ma per ogni uomo. Rispondere a questa domanda, infatti, significa addentrarsi nel segreto della vita,

capire che cosa di noi non muore. Don Giussani si è affidato allo Spirito di Dio: ciò che è nato da lui è

nato dalla sua obbedienza allo Spirito di Dio. Solo obbedendo a Dio, solo entrando nella sua volontà, le

nostre opere e la nostra stessa vita possono portare frutto. Un frutto che rimane e può continuare a

fecondare altre vite.

Entrare in ciò che Dio vuole è fondamentale per ogni esistenza. Dio parla innanzitutto attraverso i fatti.

Entrare in questi fatti, che sono più grandi dei sentimenti, ci permette di entrare in una visione vera di


noi stessi e del mondo. Stando accanto a don Giussani ci si accorgeva di iniziare a considerare in modo

nuovo, realistico e positivo, i fatti, la realtà e, pian piano, si conosceva il Padre che attraverso quei fatti

interpellava la nostra vita. Si imparava ad obbedire a Dio, ad entrare nella vita di colui che vive. Ecco

allora la ragione più profonda per cui possiamo affermare che don Giussani vive ancora: perché si è

lasciato prendere da Cristo che è il vivente.

Qualche giorno fa ho incontrato una grande scrittrice cristiana, Elena Bono. Ha ormai più di novanta

anni, ma si ricordava ancora con grande lucidità il suo incontro con don Giussani. L’aveva conosciuto

negli anni Settanta a Chiavari ed era stata così impressionata dalla sua personalità che ha sentito il

desiderio di fissare per sempre quel momento in una poesia. «Il sorridente illuminato»: così in quei 

versi definisce don Giussani. Mi ha molto colpito il fatto che, seppur in un incontro abbastanza fugace,

ella sia riuscita a cogliere un aspetto importante, direi centrale, della personalità di don Giussani: 

poiché non c’è nulla che sia perfetto – scrive la Bono – l’uomo può amarsi e amare solo quando si

scopre amato gratuitamente da Dio. La suprema imitazione di Dio è dunque il perdono. Nessuno si 

ama veramente,[] / Di qui nasce il deserto / dentro e fuori di voi. / Ma tu imita Iddio / nella

misericordia / che è la suprema Perfezione. / Va’ e perdona te stesso, – / sorrise a lui l’Illuminato

 (Elena Bono, Il magrissimo  asceta fece un interminabile cammino, in Poesie. Opera omnia

Le Mani, Genova 2007, 408).

Amen.




 L'omelia di monsignore  Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, nella messa di suffragio per don Luigi Giussani. Reggio Emilia, 22 febbraio 2013

domenica 21 aprile 2013

Nulla ci può separare dall’amore che Cristo ha per noi


 Il commento settimanale

QUALE GIOIA
Nel Vangelo oggi Gesù dice ai discepoli, quindi anche a noi: “Vi dico queste cose 
perché la vostra gioia sia piena”. 
Non sembra sensato parlare di gioia in questo momento di grave preoccupazione 
per molte, troppe famiglie, che fanno fatica a vivere; sembra anzi un insulto 
parlare di gioia di fronte alla disperazione di migliaia di lavoratori che sono 
senza lavoro, e quindi senza la propria dignità di persone. Se si allarga lo 
sguardo alle atrocità della guerra in Siria, del nuovo terrorismo, della vecchia 
fame e ingiustizia, sembra veramente che parlare di gioia sia “oppio dei popoli”.
Eppure. E’ una grande grazia intuire di quale gioia Gesù sta parlando. Gesù dice 
queste parole durante l’ultima cena, nella consapevolezza che si avvicina per lui 
il dolore della croce, del tradimento, della morte infame.  La gioia di cui parla 
Gesù non è  una emozione superficiale. Mi ha colpito il brano di una lettera 
scritta da Madre Teresa di Calcutta: “Molti pensano che la mia fede, la mia 
speranza e il mio amore mi colmino profondamente e che l’intimità con Dio e 
l’unione con la sua volontà impregnino il mio cuore. Se solo potessero sapere… 
Io assaggio la non esistenza di Dio, il fatto che Dio non sia Dio. Questo in me 
è un terribile prova. Come se in me tutto fosse morto, tutto di ghiaccio”.  
Eppure anche Madre Teresa è una grande testimone della gioia di Gesù.
E’ la gioia interiore di chi, in qualunque situazione, si sente amato, desiderato e voluto dal Padre.  La certezza che nulla ci può separare dall’amore che Cristo ha per noi, anche se misteriosamente sto partecipando, senza volerlo, alla dolorosa passione di Gesù.

E’ la gioia di chi sa di poter dire sempre, in ogni momento, le parole di Gesù: “Padre, nelle tue 
mani consegno il mio spirito”.  E so che sono mani che mi accarezzano e non mi abbandonano, mai.

Don Renato

La signora D. e la ricerca di un motivo per alzarsi dal letto al mattino

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La signora D. aprì gli occhi nel suo letto, non appena la luce del giorno si fece strada tra gli scuri

socchiusi, e si accorse che era successo di nuovo. Di nuovo era del tutto incapace di alzarsi; ma non

per cattiva voglia; invece per uno smarrimento totale in cui, nella notte, era piombata. Uno smarrimento

del senso. Giacché in fondo noi, senza che ce ne rendiamo conto, ogni volta che al mattino ci alziamo,

ci vestiamo e usciamo di casa, consentiamo implicitamente all’idea che questo nostro fare abbia un

senso. Che sia necessario e utile, fare ciò che dobbiamo fare. Invece alla signora D., e fin da quando

era ragazza, periodicamente accadeva di perdere quel filo di ragionevolezza e di istinto di 

sopravvivenza che regge la vita; e di svegliarsi al mattino, completamente sperduta.


Era come se qualcuno le avesse messo degli occhiali, per cui il presente era stato cancellato; e invece

vedeva, benissimo, molto in lontananza, un punto di orizzonte imprecisato, forse l’ultimo suo giorno di

vita. E nell’eliminazione del presente e con lo sguardo fisso in un indefinito lontano, niente aveva più

significato. Atrocemente superflue le incombenze quotidiane, terribilmente difficile il lavorare; e gli

affetti, poi? Nella penombra della stanza appena rischiarata dall’alba la signora D. posò gli occhi su una

foto, su un comodino: il marito, i figli, ciò che aveva di più caro. Ma forse che anche loro, in

quell’orizzonte lontano, non sarebbero morti? E il cane ai piedi del letto, che alla signora D. era tanto

caro: anche lui, in quell’orizzonte, una piccola umile comparsa, e poi il nulla.

Quanto a se stessa la signora D., in quello sgradevole risveglio, si considerò con autentica pena:

quarant’anni, tanto da fare, sempre di corsa, e per cosa? Si tirò le coperte sul viso. Forse che, dibatteva

fra sé con le ultime sue energie, non era assolutamente vero che tutto alla fine decade e muore? Stava

malissimo, ma perfino il pensiero di telefonare al medico le pareva assurdo: curarsi di che?

Della realtà?

Questa è depressione, e violenta, le diceva intanto una parte di sé; macché, questa è semplicemente la

verità, nuda e cruda, ribatteva un’altra in lei, ostinata. E tra i due pensieri nella testa della signora D. ne

interveniva un terzo: e Cristo, in cui dici di credere, dove sta, in questo orizzonte disperato? Dove sta,

dove sta, rimuginava lei fra sé.

Sta, che forse per me Cristo è una pura idea, e non davvero presenza viva, faccia concreta che cambia

lo sguardo. E cosa dovrei fare, quindi? «Semplicemente, come un mendicante, domandare», le rispose

un’altra parte di lei (quel giorno la sua testa era affollata da anime diverse, e litigiose). Lentamente la

signora D., a quella risposta, respinse le coperte e con fatica, come fosse fatta di pietra, si alzò; come

ogni giorno si lavò, mise la caffettiera sul fuoco, e diede da mangiare al cane, con una carezza.

Un’amica mi ha raccontato di essersi, un mattino, svegliata così. Ne riferisco, casomai la stessa cosa

accadesse ad altri).

 Marina  Corradi

«Io povero e vecchio peccatore a Messa con il vicario di Cristo» Padre Aldo Trento incontra papa Francesco


papa-francesco-aldo-trento«È stato tanto inatteso che nel mio parlare mi sono confuso e l’ho chiamato “Eminenza” invece di Santo Padre. Mi ha chiesto di far pregare i bambini delle casette per lui. Lui pregherà per loro

«Padre, Cristo ti chiede tutto», mi ha detto per telefono un sacerdote amico. Era una domenica di dicembre e, al mattino molto presto, stavo per alzarmi per prepararmi alla celebrazione della Santa Messa. Ma una sorpresa mi ha lasciato schiacciato per alcuni minuti. Le gambe erano rimaste come paralizzate. Ho tentato lo stesso di uscire dal letto ma il dolore in entrambi gli arti era diventato umanamente insopportabile. Inoltre, in casa non c’era nessuno. L’unica cosa che sono stato in grado di dire è stato: «Dio mio vieni a salvarmi. Signore vieni presto in mio aiuto». Ancora una volta mi sono reso conto del niente che sono e della potenza misericordiosa di Dio. Da quel giorno riesco a muovermi pian pianino, come un vecchio di 80 anni. Sono stati mesi difficili sia per l’assenza di padre Paolino, sia per la mia impotenza fisica. Una vita passata correndo, cercando l’Infinito e ora sono come una mosca schiacciata che ha bisogno di tutto e di tutti. Un’esperienza dolorosa e, nello stesso tempo, una grazia. La grazia di desiderare veramente che le parole dell’amico sacerdote diventassero carne. Una carne che grida tutto il mio niente e tutta la Sua misericordia.


È stato necessario molto tempo e la compagnia di alcuni amici per riconoscere in quello che sto vivendo

 la presenza del Signore. Sto godendo di una grande pace, quella pace inspiegabile senza la grazia 

divina e che permette una sola cosa: vivere e stare in ogni istante davanti al Mistero. Vivendo la realtà 

nelle circostanze di ogni giorno, percepisco la presenza di Dio che continua a dirmi: «È arrivato il 

momento in cui il tuo unico compito è quello di vivere totalmente per Me». Questa certezza è il dono

che sto vivendo in questo tempo. Quante volte al giorno mi passano per la testa le domande di santa

Caterina da Siena al Signore: «Chi sono io e chi sei Tu?». Rispondere con le parole della santa esige un

lungo cammino verso la purificazione, dove ciascuno sente nella propria carne il niente che è e il tutto

che è Cristo.

In questi mesi mi accompagna una certezza grande, la certezza che non c’è dolore o limite che siano 

superiori alla grazia che il Signore mi dona. Ci sono momenti nei quali la tentazione di scappare dalla 

mia casa, con l’illusione di lasciarmi alle spalle il dolore, si fa sentire particolarmente forte. E sono

 questi momenti di oscurità che spingono la mia libertà a gridare «Signore vieni presto in mio aiuto».

L’esperienza del gridare di fronte alla certezza che Egli vive, che Egli è al mio fianco e che quello che

 accade è la cosa migliore per me, mi sostiene e mi permette di abbracciare quelli che, per il mondo, 

sono rifiuti.

L’Avvenimento imprevistoSono appena tornato dall’Italia. Nell’ultima settimana un Avvenimento, 

un imprevisto, è entrato nella mia vita. Un giovedì mattina, alle 7, ho potuto concelebrare la Santa

Messa in compagnia del Santo Padre. E, una volta finita la Messa, il regalo di potergli parlare alcuni

minuti. È stato tutto tanto inatteso che nel mio parlare col Vicario di Cristo mi sono confuso

chiamandolo “Eminenza” invece di Santo Padre. Sono stati momenti molto intensi, durante i quali ho

potuto parlargli di quello che il Signore mi ha chiamato a vivere in Paraguay. Lui mi ha ascoltato e,

 guardandomi con occhi grandi e profondi, mi ha chiesto che i bambini delle casette di Betlemme

 preghino per lui, mentre lui da parte sua, pregherà per loro.

Che commozione! Che imprevisto! Dentro la situazione che sto vivendo, il Mistero si manifesta 

mostrandomi una volta di più la sua inesorabile presenza che sempre mi accompagna. Poche parole, 

ma i suoi occhi e le sue grandi mani mi hanno comunicato la gioia della fede che sta all’origine di 

quello che esiste in San Rafael, ad Asunción, in Paraguay. Una volta ancora ho potuto vedere la

misericordia divina in azione e la bellezza di un uomo innamorato di Cristo. La sua affabilità, come 

la sua semplicità umana, descrivono la centralità di Cristo nella sua vita. Il compito che ho portato 

con me in Paraguay è stato quello di vivere più intensamente la mia relazione con la realtà, con Cristo.

Questa tenerezza e questa semplicità stanno già dando tanti frutti alla Chiesa. Persone che tornano a

chiedere l’aiuto della Chiesa, ricominciano a confessarsi e ad andare alla Santa Messa come modalità 

di vivere la propria appartenenza a Cristo. I miei malati erano commossi quando ho consegnato loro 

un santino col viso di papa Francesco e non smettevano di ringraziarmi.

L’offerta del nostro doloreLa clinica “Casa Divina Provvidenza San Ricardo Pampuri” esiste 

come un’offerta a Cristo del dolore di ogni paziente, affinché il Santo Padre guidi in forza, chiarezza 

e amore noi che apparteniamo al suo gregge. E perché noi prendiamo sul serio la provocazione di 

papa Francesco di andare per le strade annunciando Cristo. Guardandolo, mi sono reso conto che 

nel suo modo di vivere, di testimoniare, ci sta già educando, indicandoci che la strada verso Cristo 

è l’uomo. In modo particolare quelli che soffrono. Mentre gli parlavo dei malati terminali che

condividono con noi la vita, il suo viso si illuminava. In papa Francesco la passione per l’uomo 

coincide con la passione per Cristo e la passione per Cristo coincide con la passione per l’uomo.

In realtà tanto per me quanto per l’amico sacerdote che mi accompagnava, questo incontro è stato 


una grande grazia in un momento della nostra vita nel quale Cristo chiede tutto. Durante i 24 anni di

missione in Paraguay, la mia relazione con Cristo è diventata un amore grande verso me stesso e 

verso gli altri. Non esiste opera in questa proprietà che non sia il frutto di un peccatore afferrato da

Cristo. Sono stati anni belli dove ho sperimentato la bellezza della fede vissuta come esperienza

quotidiana. Tuttavia, con quello che sto vivendo, Cristo mi ha chiesto qualcosa di più: vivere

completamente consacrato a Lui. La grazia di incontrare personalmente il Santo Padre è stata un 

grande conforto, come il giorno in cui incontrai il Servo di Dio monsignor Luigi Giussani.

Grazie Santità, perché ci ha dato, fino ad accogliere la domanda di poter concelebrare la Messa 


con la sua persona, un chiaro esempio di quello che è la carità. La carità piena di misericordia che 

ci richiede continuamente. Questo piccolo quartiere d’accoglienza delle persone più bisognose,

evidenzia concretamente il significato della parola misericordia. Per questo ogni volta che qualcuno

bussa alla porta di quest’opera, trova sempre, dentro tutti i limiti, qualcuno che l’abbraccia.

Abbiamo seguito un Papa che ci ha testimoniato la bellezza della fede e la sua ragionevolezza. 


Ora seguiamo un Papa che ci testimonia la bellezza della carità e della speranza.

paldo.trento@gmail.com

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