Giovedì scorso si è inaugurata una mostra importante. Per la bellezza, la forza, ma anche per il dolore che vi è raccolto e trasformato in oro e in fiori. Si chiama “Armenia. Il popolo dell’Arca”. La sede è il Vittoriano (fino al 3 maggio, bisogna andarci), dunque il cuore della memoria patria, se è concesso questo aggettivo solenne in tempi di disincanto. C’erano le autorità della Repubblica d’Armenia, la ministra della Cultura di Yerevan, signora Hasmik Poghosyan. Nes-su-no del governo italiano. Perché?
Quest’anno si celebra il centenario del genocidio del popolo armeno a opera dei turchi-ottomani. La Turchia ha esercitato una fortissima pressione perché l’Italia non desse segno di accorgersene: vittoria turca. Già nei mesi scorsi una risoluzione per consentire nelle scuole italiane il ricordo di questo eccidio e l’inserimento nei libri di testo scolastici di questa persecuzione iniziata sotto il Sultano già nel 1895 era stata frenata dal Partito democratico ma non solo. Si diceva: la Turchia è troppo importante nella guerra allo Stato islamico per inimicarcela.
Ragioni molto serie. Io mi domando però: se uno nega l’evidenza di una immane strage di massa riguardante cristiani propri concittadini (tali erano gli armeni d’Anatolia), al punto da inibirne la memoria pubblica a uno Stato indipendente e in fondo ancora a maggioranza cristiana, come si fa a credere che possa lottare con mano ferma con chi persegue oggi gli stessi scopi del Califfo di allora e anzi li moltiplica per esibita crudeltà?
Mi piacerebbe rispondesse Renzi.
L’anno scorso ho assistito alla Camera a un dibattito in cui un diplomatico turco, in un convegno dedicato ai genocidi del secolo scorso, ha tranquillamente teorizzato il negazionismo per quello armeno, e il giornalista che moderava il dibattito, un inviato glorioso del Corriere della Sera, ha detto che era un’opinione rispettabile. Sarà perché sono nervoso sulla sorte dei cristiani in Medio Oriente, ma questa ipocrisia è per me diventata insostenibile. Lo dico da uno che ama la Turchia, e in passato ha sostenuto la necessità dell’adesione di questo grande paese all’Europa. Ma non si può accettare chi nega attivamente la verità sul sangue versato. Non si può accettare di far torto alle vittime per ragioni di convenienza. Esistono dei limiti alla realpolitik. Furono un milione e mezzo coloro che restarono vittime del genocidio, condotto con determinazione tanto più crudele perché lenta, inesorabile.
Oggi esistono prove gravi del coinvolgimento della Turchia nel finanziamento del Califfato. Il petrolio di contrabbando arriva in Turchia a prezzi scontati, con condotte artigianali che attraversano il confine. Maurizio Molinari nel suo Il califfato del terrore, scrive: «È la Turchia di Erdogan che si offre di ospitarli (si tratta di venti capi dei Fratelli Musulmani ricercati dall’Egitto ed espulsi dal Qatar, ndr) assieme ad altri esponenti di Hamas, trasformandosi nella nazione più accogliente per i super-ricercati del Medio Oriente». Impariamo dalla storia. C’è un testo che si può ascoltare in cuffia alla mostra. È di Filippo Meda, il fondatore della Democrazia cristiana, ed è del 1918. Racconta e condanna la cinica realpolitik della Corona britannica e del premier Disraeli che dopo le stragi del 1895 chiuse un occhio, anzi due, dinanzi alle atrocità contro gli armeni, perché gli serviva il Califfato Ottomano per tenere a freno la Russia. Lo stesso calcolo sbagliato di America e Israele, che infatti non riconoscono il genocidio. Renzi, ricordati di La Pira, qualche volta.
(La mostra merita un articolo a sé. C’è una sezione dedicata alle croci che costellano la storia dell’Armenia ridotta a repubblica minima. Queste croci sono sempre fiorite, germogliano. Dicono perdono. Dice la liturgia armena: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di speranza al padre Adamo»).
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