Marzo 10, 2015 Giovanni Fighera
Dobbiamo riappropriarci del presente, l’unico tempo che abbiamo a
disposizione per verificare e sperimentare il nostro io in azione.
La vita è perenne attesa di un compimento e il genio di Leopardi ha saputo cogliere
nell’animo umano questo incessante e insopprimibile desiderio di senso e realizzazione.
Il sesto capitolo del libro Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? di Giovanni
Fighera (qui il suo blog su tempi.it). Il volume, già uscito nel 2008, è stato rieditato
di monsignor Luigi Negri e alcuni capitoli.
Capitolo VI – L’attesa e il desiderio. La speranza. Il futuro
Nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” di Leopardi il venditore
cerca di diffondere gli almanacchi con l’auspicio di un anno bello. Il passeggere con
un’ironia sottile, che ne fa lo specchio di
Leopardi, allora incalza il suo interlocutore con una serie di domande miranti a
demistificare l’ottimismo irragionevole, cioè senza ragioni fondate, dell’altro. Il venditore
si rende conto che lui, come tutti gli altri, vorrebbe un anno diverso da tutti quelli
che ha vissuto fino a quel momento, migliore degli ultimi vent’anni che si ricorda e
che se dovesse
tornare indietro per vivere la stessa vita che ha vissuto non vorrebbe. Vorrebbe
rinascere, ma solo per vivere una vita diversa da quella che ha vissuto.
Allora il passeggere fa riflettere il venditore sul fatto che noi diamo per
scontato che la vita sia una cosa bella senza chiederci i motivi.
“PASSEGGERE A quale di codesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno
venturo?VENDITORE Io? non saprei.PASSEGGERE Non vi ricordate di nessun
anno in particolare, che vi paresse felice?VENDITORE No in verità, illustrissimo.
PASSEGGERE E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?VENDITORE Codesto si sa.
PASSEGGERE Non tornereste voi a vivere codesti vent’anni, e anche tutto il tempo
passato, cominciando da che nasceste?
VENDITORE Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
PASSEGGERE Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno,
con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
VENDITORE Cotesto non vorrei.PASSEGGERE Oh che altra vita vorreste rifare?
la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro?
O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe
come voi per l’appunto; e
che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe
tornare indietro?”.Viviamo sempre aspettandoci dal futuro quello che pensiamo di non avere
nel presente, in una situazione di perenne attesa, di sospensione, affidando
al futuro quella felicità che noi dovremmo chiedere al presente.
Quanti progetti, quante speranze, quante illusioni, quanti piani meditiamo
sulla nostra vita, proiettati in un tempo ancora lontano! Quanti vivono per
conseguire fama e gloria dai contemporanei, affidando il conseguimento
della propria felicità al riconoscimento della propria grandezza o presunta
tale! Quando le ottengono, si rendono conto dell’inanità del piacere conseguito.
Come annota tristemente Pavese ne Il mestiere di vivere, dopo aver ricevuto a
Roma il Premio Strega: “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi.
E con questo? Ci siamo, tutto crolla”.
Allora subito si cerca di conseguire la gloria della posterità, una gloria che
vada oltre la nostra vita terrena e che renda immortale il proprio nome.
In maniera puntuale Leopardi osserva un atteggiamento particolare
in “uomini di certa fruttuosa ambizione”, una “speranza riposta nella
posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri
delle speranze nostre la lode ecc. di coloro che verranno dopo di noi.
L’uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso
a’ contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che
questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando
anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere,
e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e
come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non
ottenuto, perché non è mai se non futuro, non mai presente); allora
l’animo suo… quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit
(si rivolge alla posterità) come se dopo morte … debba conseguire il fine,
il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere
non conseguito ancora,… allora la speranza del piacere, non avendo
più luogo dove posarsi, né oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini
di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma nÈ posteri, sperando
l’uomo da loro e dopo morte quel piacere che vede sempre fuggire, sempre
ritrarsi, sempre impossibile e disperato di seguire, di afferrare in
questa vita”.
Leopardi, cui è caro questo tema, ritorna più volte sulla questione, soffermandosi
anche sul fatto che la tendenza a procrastinare la felicità al futuro sino a giungere
al desiderio di conseguire la felicità dai posteri si accentua sempre più man mano
che l’uomo cresce e si fa adulto ed è pressoché assente nel bambino. Questi non
pensa che al presente e riesce a concepire il futuro solo come l’attimo
immediatamente successivo al presente;
“ond’è che proporre al fanciullo (per esempio negli studi) uno scopo lontano
(come la gloria e i vantaggi ch’egli acquisterà nella maturità della vita o nella
vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo
(onde è sommamente giusto ed utile l’adescare il fanciullo allo studio col
proporgli onori e vantaggi ch’egli possa e debba conseguire ben tosto, e quasi
di giorno in giorno, ch’è come ravvicinare a’ suoi occhi lo scopo della gloria e
dell’utilità degli studi…)”. Come sono vere queste parole di Leopardi e come è
evidente che per motivare davvero un giovane allo studio come a qualsiasi altra
attività si debba far leva sulla passione, motivarlo ad un “interesse” (nel senso
etimologico del termine, da intersum, ovvero “sono in mezzo a, c’entro con,
partecipo a”) al presente, cioè a verificare come quanto sta affrontando
c’entri con la propria persona, altrimenti lo sforzo che si compie per indurlo
ad applicarsi è, quasi sempre, inutile!
L’adulto, spesso, non si pasce che della speranza e rinuncia al conseguimento
della felicità al presente. È bene qui notare che una cosa è rinunciare alla
felicità al presente delegando ad un futuro indeterminato e altra cosa è
constatare in maniera realistica come “la speranza è una passione, un modo
di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita… come il pensiero,
e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io
spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come
nel sonno… Ogni momento è in un certo modo un atto di desiderio, e altresì
un atto di speranza”. D’altronde la stessa natura umana è strutturata come
desiderio, come attesa di un compimento delle esigenze di felicità, di verità,
di giustizia del proprio cuore.
Non sorprenderà, quindi, più di tanto la constatazione leopardiana (constatazione
che, peraltro, anche noi abbiamo avuto l’occasione di sperimentare nelle nostre
giornate) del senso di piacevolezza che desta l’attesa di un fatto che deve accadere,
di un evento, di un appuntamento, di una festa.
Quale intensità avrebbero le nostre giornate se vissute come attesa! Come quando
una persona ha un appuntamento importante e il suo cuore è tutto proteso
verso quel fatto! Immaginatevi quale intensità avrebbe la vita se si vivesse ogni
istante come attesa di questo incontro!
La nostra vita è, infatti, attesa di un’Avventura, nel senso etimologico del
termine, attesa di qualcosa che irrompe dall’esterno, che sopraggiunge spesso
inaspettato e inopinato, qualcosa che non costruiamo noi, non progettiamo noi.
A cosa si riduce la vita quando non attendiamo più nulla, che cos’è la
vita quando non accade nulla! Vita come attesa, ad – tendere, cioè tendere verso.
Nel suo profondo realismo e nella semplicità del suo sguardo religioso sulla
realtà, sulla vita e sul proprio io, l’uomo medioevale è ben consapevole
della dimensione dell’homo viator, in movimento, in pellegrinaggio, verso una
meta. La queste (domanda che si fa ricerca) è, infatti, tema centrale delle
principali opere del tempo. Si pensi alla ricerca del Santo Graal nel Perceval
di Chretien de Troyes; si rifletta sul viaggio di Dante nellaDivina commedia alla
“ricerca del suo io perduto” e di Dio.
Chi guardi con affetto puro e semplicità al proprio cuore non può non sorprendersi
nel constatare questo dinamismo inestirpabile, in quanto connaturato a noi stessi.
In Leopardi la prospettiva di questa dimensione strutturale dell’uomo trova una
sua vivacissima rappresentazione nel canto “Il sabato del villaggio”.
La poesia si apre con un’indimenticabile scena di paese “in sul calar del sole”,
giocata sull’antitesi di due figure, la “donzelletta” e la “vecchierella”, la prima che
vive con gioiosa attesa il dì festivo e raccoglie i fiori che l’abbelliranno il giorno
successivo, la seconda che vive nei ricordi di quando, giovane, “ai dì della festa
ella si ornava” v.12) e “Solea danzar la sera intra di quei/ Ch’ebbe compagni
dell’età più bella”(vv.14-15). Grande è la maestria con cui Leopardi ci stampa
nella mente l’imbrunire, l’apparire della recente luna, il suono delle campane
che preannunciano la festa, le grida dei fanciulli che rallegrano chi le ascolta,
accomunate al fischiettare dello zappatore, solitario, che torna a casa terminato
il lavoro. Qualcuno, però, non ha ancora terminato le fatiche, nel silenzio della
sera cerca di concludere i propri lavori prima che sia notte.
“Questo di sette è il più gradito giorno,Pien di speme e di gioia:Diman
tristezza e noiaRecheran l’ore, ed al travaglio usatoCiascun in suo pensier
farà ritorno.”(vv. 38-42)
Quando l’attesa non è seguita dal compimento subentra la delusione.
Quando non accade nulla, oppure noi non vediamo perché abbiamo gli occhi
chiusi, gli occhi del cuore chiusi, la realtà delude.
Leopardi, come spesso accade, anche in questa poesia coglie uno spunto dalla
vita (il giorno che precede a quello festivo) per affrontare temi che assurgono
ad una valenza universale, che hanno una validità per tutti. La giovinezza è come
il sabato,“giorno d’allegrezza pieno,… che precorre alla festa” della nostra vita.
L’età adulta è come la domenica, il giorno di festa. Il consiglio velato e affettuoso
che affida Leopardi alle giovani generazioni è di non essere ansiosi che giunga in
fretta l’età matura:“Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è codesta.Altro dirti non vo’; ma la tua festa,Ch’anco tardi a venir
non ti sia grave.”(vv. 48-51)
Quanti ragazzi voglio diventare subito “grandi”, raggiungere in fretta la maggiore
età! Quanti vivono di progetti, di pianificazioni della propria vita, a breve o a
lungo termine, sempre fuori dalla propria casa, dal proprio cuore, sempre
dimentichi della domanda di felicità che urge una soddisfazione nell’hic et nunc!
Altro è vivere il futuro, concepire questa dimensione temporale nell’unico
modo che ci è concesso, quello che Sant’Agostino nelle Confessioni designa
“il presente del futuro”, ovvero la speranza, una speranza che è, però, legame
forte tra quanto viviamo e il tempo che deve venire, ovvero aspettativa
di qualcosa in nome di quanto già stai assaporando ora, prospettiva che
collega l’attimo presente al destino: speranza e attesa di un “non ancora” in
forza di un “già” presente. Già e non ancora. Nella prospettiva evangelica
potremmo anche parlare di “centuplo quaggiù e l’eternità”: il centuplo
non è ancora la pienezza, ma in grazia dell’esperienza del centuplo si
spera nell’eternità. Una speranza che è certezza come ben sottolinea Dante
nella cantica del Paradiso.
Siamo nel canto XXIV, nel cielo VIII. Prima di accedere alla visio dei,
Dante viator deve essere sottoposto all’esame sulle tre virtù teologali: la fede,
la speranza, la carità.
Quando S. Pietro gli sottopone la domanda sulla speranza, il Fiorentino
risponde:
“Spene… è uno attender certode la gloria futura, il qual producegrazia divina e
precedente merto”(Paradiso XXV, 67-69)
che è traduzione esatta di Pier Lombardo che scrive
“Spes est certa expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et ex
meritis praecedentibus” (Sententiae III, 26).
Quest’attesa certa non può derivare che da una intensa e profonda
esperienza nel presente che ci dà le ragioni dell’attesa futura.
Dobbiamo riappropriarci del presente, l’unico tempo che abbiamo a
disposizione per verificare e sperimentare il nostro io in azione, per
sperimentare la corrispondenza di quanto viviamo col nostro cuore,
ovvero con la nostra esigenza di felicità.
Solo chi nutre la speranza di essere felice può pensare alla felicità
altrui, perché solo chi si vuole bene (e sa cosa significhi volersi bene)
può voler bene ad un altro così come ben dichiara Leopardi nello Zibaldone:
“Chi ha perduto la speranza d’esser felice, non può pensare alla felicità
degli altri, perché l’uomo non può cercarla che per rispetto alla propria.
Non può dunque neppure interessarsi all’altrui infelicità”.
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