«Ho conosciuto il male della separazione», mi dice Emanuele Scotti, presidente dell'associazione Fraternità Sposi per sempre. «So cosa significa la ferita profonda che infligge agli sposi, le cicatrici che lascia sui figli. Eppure, se tutto ciò non mi ha distrutto, se ho scoperto una fede che prima non conoscevo, se la mia vita è ora fondata su una speranza che non delude, se ho scelto di restare fedele alle promesse matrimoniali, lo devo alla fedeltà della Chiesa cattolica alle parole di Gesù sul Matrimonio». La Fraternità Sposi per sempre è fatta di queste persone, uomini e donne che vogliono vivere la fedeltà al matrimonio, nonostante si trovino in una condizione di separati, o divorziati. «Riconosciamo», continua Emanuele, «il matrimonio come sacramento voluto ed istituito da Dio per la missione ed il bene comune».
Decido di provocarlo. Scusa, Emanuele, ma non vi siete accorti che il mondo sta cambiando?
«È la stessa domanda che mi ha fatto qualche giorno fa un divorziato risposato. Anzi, è andato oltre e mi ha detto che anche la Chiesa se vuole stare nel mondo, deve cambiare... e che se io voglio stare nella Chiesa devo cambiare... Sì, il mondo è cambiato, cambia da sempre, forse oggi solo un po’ più velocemente. E poi, sì, so bene che restare nella Chiesa, cioè nel popolo di Dio, nel corpo di Cristo e nel tempio dello Spirito Santo è una grazia, ma mi richiede anche una lotta interiore continua e un continuo cambiamento personale. Ma è alla seconda domanda, quella che si riferiva alla necessità di quel cambiamento, di quel “necessario aggiornamento” e, in definitiva, di quella conformazione ai criteri mondani che oggi è da molti considerata indispensabile che non mi convinco di poter dare il mio incondizionato assenso».
E perché?
«Per il sacramento. Quella “carne sola” è unita per il Regno dei Cieli, nonostante il fallimento umano; non c’è ferita, non c’è tradimento, non c’è cattiveria che possa spezzare, annullare il sacramento dell’Alleanza di Cristo e della Chiesa. E per questo che il giorno in cui la Chiesa dovesse dirci: Sapete che c’è? Ci siamo sbagliati, la vostra fedeltà non è servita a niente. Avere rinunciato al calore di un affetto umano per abbracciare un amore più grande, non avere abbandonato le vostre spose e sposi a loro stessi, conservandogli il vostro cuore, avere rinunciato alla carne per non dover rinunciare al Corpo di Gesù: sappiate ora tutto ciò è stata una croce inutile. Non è stato di nessun beneficio per voi, per i vostri sposi e spose, per i vostri figli; non ha dato nessuna testimonianza alla grazia del sacramento… Potevate risposarvi e sarebbe stato lo stesso. Anzi meglio! Avete speso inutilmente i migliori anni della vostra vita: peggio per voi. Per me sarebbe un momento molto doloroso, sarei confuso e smarrito… Ma non credo che sarebbe un bel momento per tutta la Chiesa».
Non credi che questo significhi continuare a caricare fardelli insopportabili sulle spalle dei fratelli?
«Non credo sia così. Voglio bene ai miei amici divorziati risposati, ci vivo in mezzo, soffro e gioisco con loro. Due dei miei più cari amici sono una coppia di divorziati risposati, ho partecipato al loro matrimonio civile, e mi sono commosso e ho fatto festa con loro. E loro mi sono stati e mi sono tuttora vicini nei miei momenti bui. Ho parenti che vivono situazioni irregolari, e infine mia moglie stessa è una divorziata risposata. Come potrei non essere interessato a loro? Ma io vorrei la loro come la mia salvezza, la salvezza dell’anima, la vita eterna, e non solo la soddisfazione dei loro desideri immediati. Per questo, penso che una “carità” a buon mercato può gratificare nell’immediato ma non aiuterebbe veramente nessuno a salvarsi.
Eppure ci sono tante persone che si indignano di fronte ad una Chiesa che “chiude” l'accesso all'eucaristia per i divorziati risposati...
«Beh, io vorrei chiedere loro: ma tu cosa hai fatto per accogliere un separato? Hai mai invitato a cena quell'amico separato, o a dormire a casa tua se è stato sbattuto fuori di casa? Lo hai mai ascoltato ripeterti fino alle tre del mattino sempre le stesse cose? Lo hai invitato a venire a Messa con te, e a nutrirsi assieme a te di tutte le altre “presenze reali” di Cristo? O vuoi solo che abbia ora e subito quello a cui ritiene di aver diritto, in modo che si tolga presto di torno e smetta di infastidire tutti con le sue lagne e tu ti possa sentire tanto buono?»
Il Sinodo sulla famiglia è in corso, tutta la Chiesa si sta interrogando su questi temi. E non mancano discussioni accese. Cosa ne pensi?
«Un bravo sacerdote, mio amico e coetaneo, qualche giorno fa cercava di convincermi, e si capiva che credeva sinceramente in ciò che diceva, che mettere in dubbio le verità del Magistero, per poterne discutere apertamente, e poi naturalmente riconfermarle, è un fatto positivo, che potrà portare ad una migliore comprensione del tutto. Vorrei crederlo anch’io. Però, se è vero, come ricordava il cardinale Muller nel suo libro “La speranza della famiglia”, che «l’assoluta indissolubilità di un matrimonio valido non è una mera dottrina, bensì un dogma divino e definitivo della Chiesa», allora perché non mettere in discussione anche altri dogmi? L’Infallibilità papale, l’Immacolata Concezione, ecc...? Qual è il limite di applicazione di questo nuovo criterio che sembra fondarsi sulla comprensibilità e accettabilità dei principi da parte della comunità dei fedeli? A ben vedere, ci sono molte altre verità di fede che oggi non sono comprese e vissute. Se il criterio è quello di abbassare il principio, attenuarlo, adeguarlo alle nostre capacità di comprensione, dove ci si ferma? Anche la partecipazione alla Messa è in drammatico calo. E la Transustanziazione, la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo al momento della consacrazione, è compresa dalla maggioranza statisticamente verificabile dei fedeli?»
D'accordo, ma allora come affrontare i problemi?
«Voglio solo dire che questo non può essere il criterio da cui partire. Sin dai suoi primi passi, la Chiesa non ha avuto timore dell’incomprensione del mondo, ma ha avuto solo a cuore la salvezza di tutti. Nell’areopàgo ateniese, culla della democrazia, Paolo non ebbe timore di parlare di risurrezione dei morti, anche se doveva immaginare di incontrare l’incredulità della maggioranza e di suscitare la derisione dei più, testimoniata da quel “Ti sentiremo su questo un'altra volta”, che suona come un misto di ironia e malcelata sufficienza. Eppure “alcuni aderirono a lui e divennero credenti”».Lorenzo Bertocchi
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