lunedì 9 marzo 2015

Contro lo statalismo e la Casta: la lezione di don Sturzo


Don Luigi Sturzo
Statatalismo, partitocrazia, sperpero di denaro pubblico: tre emergenze che sintetizzano la questione morale e che stimolano interrogativi non banali sul futuro dell’Italia. A metterle in fila con acutezza e profondità non è un politico dei nostri tempi, ma don Luigi Sturzo, che già nel 1946 richiamava l’attenzione della politica e delle istituzioni sulle virtù imprescindibili da coltivare nello Stato repubblicano.
La copertina del libro con gli scritti di don Sturzo
 Tutto questo si ricava da un agile e illuminante volume edito da Rubbettino, Servire, non servirsi. La prima regola del buon politico, che raccoglie in ottanta pagine i testi di un intervento del sacerdote di Caltagirone al Senato, di tre sue lettere e di 12 articoli scritti da lui tra il 1946 e il 1959. La fonte degli articoli è l’Istituto Luigi Sturzo, che ha curato l’Opera Omnia del fondatore del Partito popolare. I testi sono tratti dalla collana “Politica di questi anni”, che contiene le centinaia di articoli scritti da Sturzo tra il 1946 e il 1959. Primo luogo comune che viene sfatato in quelle pagine: a sollevare la questione morale non fu Enrico Berlinguer agli inizi degli anni Ottanta, bensì Sturzo, sul finire del 1946, poche settimane dopo il suo ritorno dall’esilio di 22 anni impostogli dal fascismo. Peccato che la Democrazia cristiana, con molte scelte discutibili, abbia perso l’occasione storica di seguire la grande modernità del pensiero sturziano.
Anzitutto Sturzo ha denunciato sempre molto energicamente il dilagare dello Stato imprenditore, un ruolo che egli giudicava pericoloso, per le tante tentazioni che un forte afflusso di denaro in mani politiche avrebbe potuto creare e per la sicura inefficienza della sua gestione. La grande speculazione da questo punto di vista è stata compiuta nel 1994 con il cambiamento del nome della Democrazia cristiana in Partito popolare e, ancora, otto anni più tardi, con la liquidazione del nuovo Ppi. In quelle operazioni di maquillage (nel 1994) e di smobilitazione (2002) i vertici promisero di mantenere vivi i valori del popolarismo sturziano. «La verità», denuncia nella prefazione al volume Giuseppe Palladino, esecutore testamentario di Luigi Sturzo, «è che questi valori non sono mai stati tenuti vivi dal vertice della Dc e in particolare dalla sua ala sinistra, che in coerenza con la sua cultura statalista non ha mai portato il pensiero sturziano alla base del partito, né ha fatto una politica ispirata dal popolarismo». apertura a sinistra da parte della Dc perché temeva i frutti nefasti dello statalismo, «temeva», prosegue Palladino, «la concorrenza costosa e sleale dello Stato imprenditore (costosa per l’Erario e sleale nei confronti del settore privato dell’economia), temeva la diffusione della corruzione politica, lo strapotere dei sindacati (Sturzo coniò la parola “sindacatocrazia”) e la perdita del potere d’acquisto della lira». Più di ogni altra cosa, però, il sacerdote di Caltagirone temeva la scristianizzazione del Paese, con la prevalenza della ragione politica ed economica sulla ragione morale. E la storia si è incaricata di dargli purtroppo ragione.
Rispetto al tema della necessaria moralizzazione della vita pubblica, Sturzo avvertiva in un articolo del 1946 che «quanto più è accentrato il potere e quanto più larghi sono gli afflussi del denaro nell’amministrazione pubblica (Stato, enti statali e parastatali, enti locali), tanto più gravi ne sono le tentazioni». E nel 1947, in occasione del ventottesimo anniversario della fondazione del Partito popolare italiano, sul “Popolo” il sacerdote di Caltagirone scriveva: «…gli italiani si sono talmente adagiati all’idea di uno Stato-tutto, che nessuno ha più ritegno di invocare provvedimenti e interventi statali per la più insignificante iniziativa. Quando ho sentito che per nominare un direttore musicale alla Fenice di Venezia si doveva interessare il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e che per aumentare il capitale a un ente cinematografico in crisi ci volevano gli aiuti del Tesoro, e che ci siano persino sale cinematografiche di Stato, mi sono domandato se gli italiani non abbiano perduto la testa e se lo statalismo non sia diventato una mania (…) Nel vortice dell’accentramento e della statizzazione si perde il senso della realtà e del relativo per una specie di assorbimento nella potenza magica della politica e dell’economia unificate».
E sul Giornale d’Italia, in un articolo del 1958, rincarava: «Lo Stato è il potere legittimo; lo statalismo è strapotere; l’infezione statalista sviluppa, non solo nell’ambito dell’organizzazione statale e parastatale, ma anche nelle organizzazioni che informano la vita democratica di un Paese libero, la tendenza a soverchiare i propri associati e ad invadere il campo di altri organismi, compresi gli stessi organi del potere statale». E ne aveva per tutti: «La partitocrazia è il fenomeno più appariscente della malattia dello statalismo; invade lo Stato, perché il partito non rispetta i propri limiti; ma gli organi dello Stato sopportano la partitocrazia e ne divengono succubi, perché lo Stato, passando i propri limiti, viola la libertà individuale. (…) Non è solo il partito infetto di statalismo, lo è anche il sindacato». Profetica si rivelerà questa frase: «L’infezione statalista si è estesa nei partiti, nei sindacati e negli enti pubblici. Come conseguenza il decadimento morale si estende nel Paese. Il potere legittimo si confonde con quello illegittimo. I limiti morali e legali cedono. La libertà non è più garantita e l’arbitrio ne prende il posto».
Bersaglio di Sturzo anche il “pauperismo” dei democristiani di sinistra: «Non se la prendano calda»si legge in un altro suo scritto del 1959, «con la loro avversione verso “il capitale”, come se vivessero un secolo addietro. Si persuadano che l’economia moderna non può attuarsi senza capitale: questo esiste ed esisterà, come esiste ed esisterà il capitalista; al plurale, capitalisti saranno i privati; al singolare, invece, unico capitalista sarà lo Stato, non importa se quello di Mosca o di Pechino, di Budapest o di Roma».
Moniti e insegnamenti che qualcuno ancora oggi dovrebbe rileggere, compulsare, fare propri. Se l’Italia è immersa in una transizione difficile che dura da decenni è anche perché gli insegnamenti di Sturzo sono caduti nell’oblio e le scelte di chi diceva di ispirarsi a lui non sono state affatto coerenti, né illuminate. Per questo, come scrive Marco Vitale nella postfazione, Sturzo «è un vincente, perché oggi ha ancora tanto da dire a noi e domani ai giovani che verranno», mentre «i suoi avversari nulla ci hanno lasciato, se non i loro errori, le loro distruzioni e, talora, i loro orrori».

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